CAPITOLO VII – LE FONTI DELL’ORDINAMENTO UE
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Caratteri generali
Fonti di diritto originario → Trattato sullʼUnione europea (TUE) e il Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea (TFUE), i quali hanno lo stesso valore giuridico; i protocolli e gli allegati ai Trattati i quali ne costituiscono parte integrante. Idem per gli accordi di adesione con nuovi membri e le disposizioni dei relativi atti di adesione (corte, causa 28.11.06)
Fonti di diritto derivato → sistema di fonti previsto dagli stessi trattati, rappresentate dagli atti obbligatori che le istituzioni europee hanno il potere di emanare. Tali fonti (regolamenti, direttive, decisioni) danno vita alla c.d. legislazione dellʼUnione.
Tra i Trattati e le fonti di diritto derivato dellʼUnione sussiste un sicuro rapporto gerarchico, nel senso che le seconde sono subordinate ai primi:
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Queste fonti, di regola, non possono modificare o abrogare le disposizioni contenute nei trattati istitutivi.
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Riguardo allʼUnione europea la subordinazione delle fonti di diritto derivato risulta espressamente dallʼart. 263, 2° comma, TFUE, il quale pone tra le cause dʼinvalidità degli atti dellʼUnione, suscettibili di determinare il loro annullamento, la violazione dei Trattati.
Alla luce della giurisprudenza della corte di giustizia, il rango subordinato degli atti europei comporta un dovere di interpretarli in armonia almeno con i diritti fondamentali e i principi generali UE.
Se il rapporto di superiorità fra i Trattati e le fonti di diritto derivato è netto e indubitabile, meno nitido è il quadro generale del sistema delle fonti dellʼordinamento dellʼUnione:
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Non esiste, di regola, una gerarchia tra le fonti di diritto derivato e non è possibile rinvenire alcun rapporto gerarchico tra gli atti tipici dellʼUnione (regolamenti, direttive, decisioni), i quali vanno posti sul medesimo piano, sia che costituiscano atti a portata generale, come i regolamenti, sia che rappresentino atti particolari, diretti a specifici destinatari, come le decisioni.
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I Trattati non consentono di operare alcuna distinzione, quanto alla loro forza giuridica, tra atti adottati con la procedura legislativa ordinaria, atti adottati con procedure legislative e atti emanati dal Consiglio senza lʼobbligo di consultare il Parlamento europeo.
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Il sistema del diritto dellʼUnione si arricchisce, poi, con una serie di altre fonti, quali gli accordi conclusi dallʼUnione con Stati terzi e organizzazioni internazionali, il diritto internazionale generale e i principi generali del diritto dellʼUnione.
È compito dellʼinterprete individuare il loro rango allʼinterno dellʼordinamento dellʼUnione e si tratta di un compito non agevole, specie riguardo ai principi generali; questi, infatti, sono una creazione della giurisprudenza europea e rappresentano una categoria alquanto eterogenea, che neppure la Corte di giustizia ha precisamente sistemato nella cornice dellʼordinamento dellʼUnione.
2. I trattati
Da un punto di vista formale sono ACCORDI INTERNAZIONALI ma nella giurisprudenza della corte, da un punto di vista sostanziale e contenutistico, sono frequentemente qualificati come CARTA COSTITUZIONALE dell’Unione.
Il loro carattere costituzionale è accentuato perché (sent. Van Gend en Loos, 5.2.63) hanno dato vita ad un ENETE SOPRANAZIONALE a favore di cui gli stati membri hanno rinunciato in determinati settori ai loro poteri sovrani ed il cui ordinamento giuridico riconosce come soggetti non soltanto gli stati membri ma anche i loro cittadini.
I caratteri propri di tali trattati si riflettono principalmente sulle regole interpretative:
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Sent. 6 ottobre 1982 CILFIT: ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata nel proprio contesto e interpretata alla luce dell’insieme delle disposizioni del suddetto diritto, delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi.
Tale sentenza richiama in primis l’interpretazione SISTEMATICA (alla luce delle disposizioni del suddetto diritto) e quella TELEOLOGICA (delle sue finalità), congeniali a qualsiasi norma. L’interpretazione evolutiva dell’ultima disposizione si collega alla configurazione del diritto dell’Unione che opera e si evolve in un contesto storico mutevole.
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Sent. 17 gennaio 2012 causa Salemink: una disposizione dell’unione che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata deve normalmente dar luogo, nell’intera unione, ad una interpretazione autonoma e uniforme, tenendo conto del contesto in cui essi sono utilizzati e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui fanno parte.
La concezione costituzionale dei trattati ha portato alla possibilità di qualificare alcuni principi come SUPERCOSTITUZIONALI e quindi non modificabili dal procedimento ex art. 48 TUE:
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nel parere 1/91, la corte ha premesso che un accordo di associazione non potrebbe creare un sistema giurisdizionale pregiudizievole per le competenze della corte → l’art. 19 tue, concernente il ruolo della corte nel diritto ue, sarebbe un principio immodificabile.
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Nella sent. 3.9.2008 ha affermato che le norme dei trattati non possono essere intese nel senso che autorizzano una deroga ai principi di libertà, di democrazia nonché di rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sanciti dall’art. 6 n.1 (oggi art. 2 TUE) quale fondamento dell’unione e in nessun caso consentire di mettere in discussione i principi che fanno parte dei fondamenti stessi dell’ordinamento giuridico comunitario, tra i quali quelli della tutela dei diritti fondamentali → l’art. 2 TUE sarebbe immodificabile.
È da notare che anche se non venisse riconosciuto questo ruolo supercostituzionali, nella misura in cui tali norme coincidessero con norme inderogabili del diritto internazionale generale non sarebbero in alcun modo modificabili.
3. L’efficacia diretta delle disposizioni dei trattati
Considerando i Trattati come istitutivi di un ordinamento giuridico che riconosce quali soggetti anche gli individui discende che le loro disposizioni sono idonee ad attribuire a questi ultimi diritti soggettivi. Qualora tali disposizioni abbiano un contenuto chiaro, preciso e incondizionato e, quindi, la loro applicazione non sia subordinata all’emanazione di ulteriori atti da parte degli Stati membri o delle istituzioni europee, esse sono munite di EFFICACIA DIRETTA.
L’attribuzione diretta e immediata di diritti esercitabili, se necessario, dinnanzi ai giudici nazionali, fu riconosciuta la prima volta nel caso Van Gend en Loos con cui la corte respinse l’argomento secondo cui, in caso di violazione di un obbligo derivante dai trattati da parte di uno stato membro, si sarebbe dovuta esperire la procedura d’infrazione dinanzi alla corte di giustizia da parte della commissione o di un altro stato membro perché in tal caso i diritti individuali degli amministrati rimarrebbero privi di tutela giurisdizionale diretta.
Lʼefficacia diretta rappresenta quindi non solo un mezzo per rafforzare la tutela dei singoli, i quali non sono legittimati a promuovere un giudizio di infrazione a livello giudiziario europeo, in caso di violazione dei propri diritti da parte degli Stati membri; ma anche uno strumento ulteriore di garanzia di rispetto del diritto dellʼUnione, nell’interesse della stessa Unione europea.
Il Trattato di Lisbona ha dato un ulteriore riconoscimento normativo al principio dellʼefficacia diretta stabilendo, nellʼart. 19, par. 1, 2° comma, TUE, che “gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”.
Lʼefficacia diretta che va riconosciuta alle disposizioni dei Trattati deve essere tenuta DISTINTA dal concetto di applicabilità diretta:
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L’applicabilità diretta esprime il carattere di essere applicabili all’interno degli Stati membri senza bisogno di alcun atto statale di esecuzione o di adattamento → Essa dipende dl contenuto “autosufficiente”, o “self-executing” della disposizione, cioè dalla circostanza che essa abbia un contenuto chiaro, preciso e incondizionato, ma tende a mettere in luce una qualità della norma, la non necessità, cioè, di un provvedimento statale di attuazione.
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Lʼefficacia diretta, invece, pone in evidenza il PROFILO SOGGETTIVO, concernente il diritto dei singoli nascente da una norma siffatta e la sua azionabilità immediata dinanzi ai giudici nazionali.
L’efficacia diretta di una disposizione dei Trattati opera:
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nei rapporti tra i singoli e gli Stati membri, o altri enti pubblici → effetti diretti “verticali”. Tale effetto diretto sorge sia nei casi in cui espressamente i Trattati attribuiscono ai singoli in diritto che gli Stati sono tenuti a rispettare, sia nellʼipotesi in cui il diritto soggettivo sia riconoscibile implicitamente in corrispondenza a un obbligo diretto formalmente agli Stati membri. Lʼeffetto diretto verticale va riconosciuto dalle competenti autorità statali e comporta che il diritto derivante dalla norma del Trattato sia fatto valere anzitutto nei confronti della pubblica amministrazione. Nel caso in cui questʼultima si rifiuti di soddisfare il diritto in questione, lʼinteressato ha diritto a rivolgersi allʼautorità giudiziaria per ottenere tutela giudiziale del suo diritto.
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nei rapporti tra privati → sotto questo profilo esse sono produttive di effetti diretti “orizzontali”, il cui riconoscimento comporta che le disposizioni in questione conferiscano non solo diritti ai singoli, ma anche obblighi.
4. I principi generali del diritto UE
I principi generali del diritto dell’Unione hanno una origine PRETORIA in quanto non derivano da specifiche disposizioni ma da una giurisprudenza creativa della Corte di Giustizia:
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costituiscono principi autonomi dell’ordinamento dell’Unione che si ispirano agli ordinamenti degli stati membri.
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Sono destinati ad operare nell’ambito generale del diritto dell’unione.
Si tratta, quindi, di principi non scritti, alquanto eterogenei, la cui presenza nellʼordinamento dellʼUnione è di solito affermata dalla Corte, quale risultato di varie metodologie da essa utilizzate:
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Alcuni principi sono dichiarati dalla Corte sulla base di una riflessione che essa compie in merito ai caratteri propri dellʼordinamento dellʼUnione (es. sent. Van Gend en Loos). Un altro fondamentale principio legato ai caratteri propri dellʼordinamento dellʼUnione è quello del primato del diritto dellʼUnione rispetto a quello interno degli Stati membri, in virtù della quale eventuali norme interne incompatibili con il predetto diritto sarebbero prive di efficacia.
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Certi principi sono stati proclamati dalla Corte partendo da specifiche disposizioni dei Trattati. Un esempio può rinvenirsi nel principio di leale cooperazione il quale, stabilito dallʼart. 10 del Trattato sulla Comunità, è apparso alla Corte quale manifestazione di un principio generale non scritto applicabile ai rapporti fra le istituzioni europee e persino a carico delle istituzioni e a favore degli Stati membri.
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Altre volte la Corte giunge ad affermare dei principi generali a seguito di un raffronto tra gli ordinamenti degli Stati membri. È questo il caso dei diritti fondamentali, i quali sono entrati a far parte del diritto dellʼUnione, grazie alla giurisprudenza, in quanto tutelati da principi generali di tale diritto.
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In altri casi, la Corte considera principi generali del diritto dell’Unione dei principi che trovano la loro fonte nella logica giuridica, o in esigenze di giustizia sostanziale, e che, in quanto tali, appaiono di carattere pressoché universale, vigenti quindi in ogni ordinamento giuridico, compreso quello dellʼUnione. Si pensi, per esempio, al principio della certezza del diritto o a quelli del legittimo affidamento.
Non è semplice individuare la precisa collocazione ed il rango dei principi generali nell’ordinamento dell’Unione europea, anche perché la Corte, che è lʼartefice del loro riconoscimento, non sembra si sia preoccupata di tale questione → Sembra che essi tendano a porsi sullo stesso piano dei Trattati, quindi, al livello del diritto primario dell’Unione in quanto sono utilizzati dalla Corte quale parametro di legittimità degli atti dell’Unione e, pertanto, si pongono ad un livello gerarchicamente superiore al diritto derivato.
I principi generali si pongono quali fonti non scritte di diritto dellʼUnione e, in quanto tali, integrano il sistema giuridico dellʼUnione, completandolo e colmandone le eventuali lacune. Essi, pertanto, operano:
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nei confronti delle istituzioni europee, le quali sono tenute a rispettarli nello svolgimento della loro attività; di conseguenza un atto dellʼUnione che sia in contrasto con un principio generale deve considerarsi invalido e suscettibile di annullamento da parte della Corte di giustizia.
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nei confronti degli Stati membri; nellʼipotesi in cui questi violino i suddetti principi sarà esperibile nei loro riguardi la procedura dʼinfrazione. Si pensi, per esempio, al principio di proporzionalità.
Ma i principi generali svolgono anche unʼimportante funzione interpretativa rispetto alle altre norme dellʼUnione → nella sent. 18 maggio 1982 AM&S, la corte ha ricostruito un principio di tutela della riservatezza nella comunicazione tra avvocati e clienti, desumendolo dagli ordinamenti degli stati membri e limitandolo alle condizioni che si tratti di corrispondenza trattata al fine e nell’interesse del diritto alla difesa e che essa non provenga da avvocati non legati al clienti da un rapporto di impiego. Essa ha quindi concluso che il regolamento in materia di concorrenza 17/62 deve interpretarsi nel senso che anch’esso tutela la riservatezza della corrispondenza tra avvocato e cliente alle due condizioni suddette.
Un principio che opera essenzialmente ai fini della interpretazione di altre norme di diritto dellʼUnione è quello dellʼeffetto utile, secondo cui ogni norma deve essere interpretata in modo che possa raggiungere nella maniera più efficace il proprio obiettivo → nella sent. 13 febb. 1969 causa Wilhelm, la corte ha dichiarato che sarebbe contrario alla natura di tale sistema ammettere che gli stati membri possano adottare o mantenere in vigore misure atte a menomare gravemente l’effetto utile del trattato.
Cercare di definire un elenco dei principi generali del diritto dell’Unione non pare opportuno in quanto l’elenco rischierebbe di risultare incompleto, oltre che suscettibile di variazioni, di pari passo con gli sviluppi della giurisprudenza della Corte. Tra gli altri vi è:
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il principio di eguaglianza, desunto dalla giurisprudenza della Corte, sulla base delle specifiche norme del Trattato sul funzionamento dellʼUnione europea che vietano le discriminazioni per determinati motivi, come la nazionalità, il sesso, o in specifici settori. Nella sent. 29 giugno 1995 SCAC “impone di non trattare situazioni analoghe in maniera differenziata e situazioni diverse in maniera uguale, a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato”.
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Il Principio della certezza del diritto, non chiaramente definito nella giurisprudenza, ma varie e numerose sono le sue applicazioni. Nella sent. 22 aprile 1984 Klopenburg, la Corte ha dichiarato che “la legislazione dellʼUnione devʼessere certa e la sua applicazione deve essere prevedibile per gli amministrati”. Spesso la corte ha utilizzato questo principio per limitare nel tempo l’efficacia delle sue sentenze o per differire nel tempo gli effetti di proprie sentenze di annullamento di atti illegittimi, sino all’emanazione di un nuovo atto corretto, salvo deroghe in casi eccezionali, qualora lo esiga lo scopo da raggiungere e purché il legittimo affidamento degli interessati sia debitamente rispettato.
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Il principio del legittimo affidamento implica la tutela delle aspettative che gli interessati nutrano ragionevolmente, in quanto suscitate dal comportamento delle stesse istituzioni europee. Secondo il Tribunale (2001), “il principio della tutela del legittimo affidamento implica che lʼistituzione dellʼUnione interessata abbia fornito agli interessati precise assicurazioni che hanno fatto sorgere in capo a loro fondate aspettative”. Sempre il tribunale ha affermato che gli interessati possono contestare la legittimità di un atto che sia emanato in contrasto con le disposizioni di un accordo dell’unione, sebbene non ancora in vigore.
Numerosi altri principi generali sono individuabili nella giurisprudenza europea, come il principio di democrazia, il principio di buona fede, il principio di solidarietà degli Stati membri, quello della forza maggiore, ecc. Va poi menzionata lʼintera categoria dei diritti fondamentali, oggetto di principi generali di diritto dellʼUnione e corrispondenti alle principali convenzioni internazionali di protezione dei diritti umani, contemplati ora dall’art. 6 par. 3 TUE.
5. Gli accordi internazionali dell’Unione Europea
Ex art. 218 par. 11 TFUE, si trovano in posizione subordinata ai trattati (la loro eventuale contrarietà ai Trattati determina la loro illegittimità, suscettibile di sindacato giurisdizionale da parte della Corte di giustizia, sindacato formalmente rivolto non già allʼaccordo, ma allʼatto dellʼUnione) ma, se in armonia con questi, costituiscono parte integrante dell’ordinamento dell’unione europea.
Per quanto riguarda i rapporti tra gli accordi internazionali conclusi dallʼUnione europea e il diritto derivato, cioè gli atti emanati dalla stessa Unione, lʼart. 216, par. 2, TFUE induce a ritenere che tali atti siano subordinati agli accordi → Se tali accordi vincolano le istituzioni dellʼUnione, le istituzioni, per rispettare tale vincolo, devono astenersi dallʼadottare atti che siano in contrasto con i suddetti accordi. Anche la Corte di giustizia ha dichiarato che gli accordi dellʼUnione prevalgono sugli atti emananti dalle sue istituzioni, deducendone un obbligo di interpretare questi ultimi in conformità dei primi (sent. 10 settembre 1996).
L’ulteriore conseguenza della subordinazione degli atti dellʼUnione a detti accordi risiede nella invalidità di atti posti in violazione degli accordi dellʼUnione e nella loro annullabilità da parte della Corte di giustizia. Questʼultima ha peraltro condizionato la pronuncia di invalidità dei suddetti atti incompatibili con un accordo alla circostanza che le disposizioni di questʼultimo fossero produttive di effetti diretti → Gli accordi stipulati dallʼUnione, entrando automaticamente a far parte dellʼordinamento dellʼUnione europea, sono suscettibili di produrre effetti diretti per i singoli, cioè di creare diritti, e corrispondentemente obblighi, che i singoli possono direttamente esercitare, eventualmente anche in via giudiziaria dinanzi ai giudici degli Stati membri. Tale efficacia diretta è riconoscibile solo se le norme dellʼaccordo abbiano un contenuto chiaro, incondizionato e preciso, che non richieda, per la sua applicazione, lʼemanazione di alcun atto ulteriore:
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nella sent. 3 febbraio ’76 causa Bresciani, riguardo una disposizione della convenzioni di Yaoundé tra la CEE e gli stati africani e malgascio associati alla comunità che prescriveva il divieto di tasse di effetto equivalente ai dazi doganali, la corte ha dichiarato “a tale obbligo degli stati membri fa riscontro il diritto dei singoli di farne valere gli effetti in giudizio”.
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Nella sent. 26 ottobre 1982, ha dichiarato che l’accordo è direttamente invocabile dalle persone fisiche e giuridiche, anche dinanzi alle giurisdizioni nazionali, pur se un analogo diritto non sia riconosciuto dall’altra parte contraente nel proprio ordinamento perché quest’ultimo richieda l’emanazione di atti statali di esecuzione.
6. Gli accordi conclusi tra gli stati membri
Gli accordi conclusi da Stati membri, nei loro reciproci rapporti ovvero nei riguardi di Stati terzi (in materie rientranti nellʼambito dellʼUnione europea), preesistenti alla loro partecipazione, dapprima, alla Comunità, poi allʼUnione europea, se incompatibili con obblighi derivanti dai rispettivi Trattati istitutivi, sono destinati ad essere abrogati dalle norme di questi ultimi, alla stregua delle regole di diritto internazionale generale concernenti la successione nel tempo fra trattati aventi contenuto incompatibile → il trattato CEE, nelle materie che disciplina, prevale sulle convenzioni concluse fra gli stati membri anteriormente alla sua entrata in vigore.
Per quanto riguarda gli accordi tra Stati membri conclusi successivamente alla loro partecipazione alla Comunità e allʼUnione, anche su di essi è destinato a prevalere il diritto dellʼUnione:
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Lʼeventuale stipulazione di accordi in contrasto con gli obblighi derivanti da tale diritto, inoltre, potrebbe dare luogo all’apertura di una procedura di infrazione nei loro confronti.
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Ove un contrasto non sussista, gli Stati membri restano liberi di concludere accordi anche in materie di competenza dellʼUnione, a condizione che tale competenza non sia esclusiva. In questʼultimo caso, infatti, gli Stati, in principio, non potrebbero più adottare propri atti, né singolarmente, né mediante un accordo.
In materia di competenza non esclusiva dell’Unione e senza l’assunzione di obblighi configgenti con quelli derivanti dal diritto dellʼUnione, gli Stati membri possono concludere accordi e nulla vieta che lʼaccordo sia stipulato anche in seno al Consiglio → è possibile che gli Stati membri adottino atti denominati “atti degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio”, i quali non hanno la natura giuridica di atti dellʼUnione, imputabili al Consiglio, ma restano imputabili collettivamente agli Stati membri. La possibilità di adottare atti del genere è stata riconosciuta dalla Corte di giustizia, la quale ha negato che tali atti siano “dellʼunione”, escludendo di conseguenza la propria competenza a sindacarne la legittimità.
Talvolta gli stessi Trattati rinviano ad accordi degli Stati membri → Per esempio, le norme relative alla nomina di componenti di istituzioni, quali i giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia e i giudici del Tribunale, le quali stabiliscono che tali nomine avvengano di comune accordo da parte dei governi degli Stati membri. Avendo una funzione integrativa dellʼordinamento dellʼUnione, è da ritenere che accordi siffatti (conclusi in forma semplificata) facciano parte di tale ordinamento, ponendosi, peraltro, in una posizione subordinata rispetto alle disposizioni dei Trattati che li prevedono.
Una specifica norma del Trattato sulla Comunità, lʼart. 293, disponeva, inoltre, che gli Stati membri avviassero tra loro negoziati in materie quali la tutela delle persone, l’eliminazione della doppia imposizione fiscale, il reciproco riconoscimento ed esecuzione delle decisioni giudiziarie e delle sentenze arbitrali. Importanti convenzioni comunitarie sono state concluse in base a tale dispozione (es. convenzione di Bruxelles 1968 sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; la conv. Di Roma 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali) ma tale strumento è stato abbandonato a favore degli ATTI DELL’UNIONE CHE SONO ADOTTATI IN MATERIA DI COOPERAZIONE GIUDIZIARIA CIVILE E DI DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO ex art. 65 TCE, oggi art. 81 TFUE.
7. Gli accordi tra Stati membri e Stati terzi
In base all’art. 351, 1 TFUE “le disposizioni dei trattati non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse anteriormente al 1 gennaio 1958 (trattato CEE) o, per gli stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più stati membri da una parte e uno o più stati terzi dall’altra” → come ha precisato la corte nella sent. 15 sett. 2011, tale articolo precisa che l’applicazione del trattato non pregiudica l’impegno dello stato membro interessato di rispettare i diritti degli stati terzi derivanti da una convenzione anteriore e di adempiere gli obblighi corrispondenti.
Pertanto uno stato membro può sottrarsi agli obblighi derivanti dai trattati relativi all’Unione europea nella misura in cui ciò sia necessario per adempiere gli obblighi prescritti da una convenzione conclusa anteriormente con uno stato terzo.
La corte di giustizia, con riguardo a materie rientranti nella competenza esclusiva dell’unione ha affermato che l’unione si è sostituita agli stati membri nei diritti e obblighi derivanti da un trattato, l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), concluso da tali stati con stati terzi anteriormente al Trattato sulla CEE (sent. 12.12.72 International Fruit) → la sostituzione della comunità agli stati membri appare subordinata al riconoscimento degli altri stati contraenti del Gatt.
Di recente, secondo il tribunale una analoga sostituzione dell’Unione agli stati membri si sarebbe realizzata riguardo agli obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite → la corte ha però annullato tale sentenza affermando che un accordo internazionale non può pregiudicare il sistema delle competenze definito dai trattati e, di conseguenza, l’autonomia dell’ordinamento giuridico comunitario, di cui la corte assicura il rispetto in forza della competenza esclusiva di cui essa è investita. Pertanto gli obblighi nascenti da un preesistente accordo dovrebbero cedere il passo di fronte all’ordinamento, quando i suddetti obblighi siano in contrasto con tale ordinamento o almeno con i principi che fanno parte dei fondamenti stessi dell’unione.
Lo stesso art. 351 TFUE, oltre a stabilire, al 3° comma, che gli Stati membri devono tenere conto del contesto complessivo dellʼordinamento dellʼUnione nellʼapplicare le convenzioni in discorso, prescrive agli Stati membri di adoperarsi per eliminare le incompatibilità fra le convenzioni stesse e i Trattati → Questʼobbligo dello Stato comporta, anzitutto, che i suoi giudici debbano interpretare la convenzione preesistente in maniera conforme al diritto dellʼUnione. Infatti, come la Corte ha stabilito “il giudice ha l’obbligo di verificare se un’eventuale incompatibilità fra il Trattato e la convenzione bilaterale possa essere evitata fornendo a quest’ultima un’interpretazione conforme al diritto dellʼUnione e nel rispetto del diritto internazionale”. Inoltre lo Stato membro deve ricevere tutti i mezzi, consentiti dl diritto internazionale, per eliminare l’incompatibilità, in particolare rinegoziando con lo Stato terzo la convenzione in questione e, al limite, denunciandola, provocando così l’estinzione della sua efficacia.
8. Il diritto internazionale generale
LʼUnione, essendo un soggetto di diritto internazionale, è tenuta a rispettare gli obblighi e pu esercitare i diritti derivanti dal diritto internazionale consuetudinario, nella misura in cui siano applicabili ad un ente quale l’unione europea, privo di una comunità territoriale.
La Corte di giustizia non ha mancato di riferirsi alle norme di diritto internazionale generale quali norme giuridiche da esse applicabili, sempre che riguardino situazioni di competenza dellʼUnione → nella sentenza del 21 dicembre 2011, ATA, la corte ha individuato un FONDAMENTO TESTUALE DELLA OBBLIGATORIETA’ PER L’UE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE NELL’ART. 3, PAR. 5, TUE, ai sensi del quale l’unione contribuisce alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, inteso, precisa la corte, nella sua GLOBALITA’
Da tale giurisprudenza si desume, inoltre che il diritto internazionale generale fa parte direttamente dell’ordinamento dellʼUnione, con la conseguenza che esso rappresenta un parametro giuridico alla cui stregua valutare la legittimità degli atti emanati dalle sue istituzioni.
Le norme di diritto internazionale generale possono venire in rilievo anche nelle relazioni interne fra gli Stati membri o, più in generale, fra i soggetti dellʼordinamento dellʼUnione. A parte le norme imperative del diritto internazionale generale (ius cogens), le quali sono inderogabili dai trattati, compresi i Trattati relativi allʼUnione e il diritto derivato e la cui violazione comporterebbe la nullità delle disposizioni convenzionali configgenti, per il resto il diritto generale è derogabile dagli stessi Trattati, i quali sono destinati a prevalere sulle norme consuetudinarie → la corte ha ad esempio escluso che possa applicarsi nell’ambito dell’unione e dei suoi stati membri l’istituto, tipico del diritto internazionale generale, dell’AUTOTUTELA, che consente ad uno stato di reagire con contromisure ad un comportamento lesivo dei propri diritti posto in essere da un altro soggetto.
9. Gli atti dell’Unione europea e i loro requisiti
Per quanto riguarda il diritto derivato, cioè il complesso degli atti emanabili dalle istituzioni dellʼUnione, lʼart. 288 TFUE elenca e definisce cinque categorie di atti:
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regolamenti,
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direttive,
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decisioni,
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raccomandazioni e pareri.
Solo i primi tre costituiscono propriamente fonti del diritto dellʼUnione, in quanto sono atti OBBLIGATORI. Tale qualità, invece, non pu riconoscersi agli altri due, i quali sono definiti in termini puramente negativi (“le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti”). Tutti questi atti possono considerarsi “tipici”, in quanto lʼart. 288 ne stabilisce in via generale i loro caratteri ed effetti. Essi, tuttavia, non esauriscono lʼintera gamma degli atti dellʼUnione, che è molto vasta e variegata, comprendendo una serie di atti che vengono definiti “atipici” e che presentano caratteri differenti da quelli definiti dallʼart. Di tali atti atipici occorre, di volta in volta, individuare gli effetti giuridici.
Per quanto riguarda gli atti TIPICI, il TFUE stabilisce alcune regole e requisiti generali, concernenti i tre atti obbligatori, cioè i regolamenti, le direttive e le decisioni. Lʼart. 288 definisce così tali atti: “Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi”.
Come stabilito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, lʼidentificazione dellʼatto, cioè la sua appartenenza allʼuna o allʼaltra categoria, non va fatta semplicemente in base al suo nomen iuris, cioè alla sua denominazione ufficiale, ma in considerazione del suo contenuto e dei suoi caratteri sostanziali → tale opera di identificazione determina importanti conseguenze quali la DEFINIZIONE DEGLI EFFETTI OBBLIGATORI, LA SUA IMPUGNABILITA’ DA PARTE DI PERSONE FISICHE E GIURIDICHE DINNANZI AL GIUDICE EUROPEO.
Per quanto riguarda il tipo di atto (regolamento, direttiva, decisione) che può essere adottato dalle istituzioni:
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spesso le norme dei Trattati prevedono gli atti che possono essere adottati e, in questi casi, non può essere emanato un atto differente da quelli previsti.
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Può accadere, peraltro, che la disposizione applicabile non rechi alcuna indicazione sul tipo di atto da adottare. In queste ipotesi le istituzioni decidono di volta in volta il tipo di atto da adottare, nel rispetto delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità.
La scelta delle istituzioni, quindi, non è del tutto libera:
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devono rispettare la procedura prevista dalla disposizione in questione.
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Devono attenersi al principio di proporzionalità → nella scelta dell’atto, le istituzioni dovranno preferire un tipo di atto il meno intrusivo possibile, per esempio una direttiva piuttosto che un regolamento, o una raccomandazione, a preferenza di un atto giuridicamente obbligatorio.
L’individuazione della base giuridica di un atto all’interno del settore della politica estera e di sicurezza comune determina però l’adozione di atti differenti da quelli tipici, l’impiego di procedure non legislative, con decisioni prese dal consiglio europeo o dal consiglio, un ruolo marginale del parlamento e l’esclusione, di regola, del controllo giudiziario della corte → una analoga questione si è posta sul rapporto tra:
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l’art. 75 TFUE, che prevede l’adozione con la procedura ordinaria di misure di lotta al terrorismo nell’ambito della realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
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L’art. 215 par. 2 TFUE, che attribuisce al consiglio il potere di emanare misure contro individui ed enti non statali, in specie nella lotta al terrorismo quando ciò sia previsto da una decisione di politica estera e di sicurezza comune.
Anteriormente al trattato di Lisbona un problema simile si poneva nei rapporti tra il primo pilastro (comuitario) ed il secondo (politica estera e sicurezza comune) o il terzo (cooperazione di polizia e giudiziaria penale), dato che la stessa unione europea si articolava in una struttura a 3 pilastri.
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Il trattato sull’unione europea all’art. 47 delimitava le sfere di applicazione dei tre pilastri, sancendo che nessuna disposizione del presente trattato pregiudica i trattati che istituiscono le comunità europee né i trattati e atti successivi che li hanno modificati o completati.
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Nell’ambito del terzo pilastro, l’art. 29, nell’enunciare gli obiettivi dell’unione in tale campo, premetteva fatte salve le competenze delle comunità.
Pertanto le forme di cooperazione nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune e della polizia giudiziaria penale avevano carattere RESIDUALE rispetto agli strumenti propriamente comunitari → la corte di giustizia aveva avuto occasione di pronunciarsi in proposito, rispetto a un ricorso della commissione volto a ottenere l’annullamento di un atto tipico della cooperazione di polizia giudiziaria penale, in materia di protezione ambientale attraverso il diritto penale, che secondo la commissione ricadeva nelle competenze comunitarie ex art. 175 TCE. La corte ha annullato l’atto. Sono seguite sentenze simili.
A seguito del trattato di Lisbona il quadro normativo mutato ed infatti l’art. 40 TUE (ex 47) pone sullo stesso piano le competenze dell’unione previste dalle disposizioni di carattere generale e quelle contemplate dalle disposizioni specifiche relative alla politica estera e di sicurezza comune. I rapporti tra tali competenze sono delineati come RAPPORTI DI RECIPROCO RISPETTO. Pertanto si può ritenere che:
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debba individuarsi una componente principale dell’atto ai fini della sua collocazione su una determinata base giuridica (criterio consolidato dalla corte anche prima di Lisbona).
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Quando non è possibile individuare una componente accessoria ed una principale, la previsione di un rapporto di reciproco e pari rispetto non consente di affermare alcuna preferenza per l’applicazione delle disposizioni relative alle competenze generali o alla politica estera e di sicurezza, né tantomeno una applicazione cumulativa → l’unica è emanare due atti distinti.
Sul piano della disciplina generale degli atti dell’UE, l’art. 297 TFUE reca disposizioni concernenti.
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La firma
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se adottati con procedura ordinaria, dal presidente del parlamento e del consiglio.
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Se con procedura legislativa speciale, dal presidente dell’istituzione che li ha adottati.
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Gli atti non legislativi sotto forma di regolamenti, direttive o decisioni, dal presidente dell’istituzione che li ha adottati.
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Le forme di pubblicità
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gli atti legislativi sono pubblicati sulla gazzetta ufficiale UE ed entrano in vigore alla data da essi stabilita o, in assenza, il 20° giorno successivo alla pubblicazione.
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Idem per gli atti non legislativi sotto forma di regolamenti, direttive rivolte a tutti gli stati membri e decisioni che non designano i destinatari.
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Le altre direttive e decisioni, non legislative, sono notificate ai destinatari ed in quel momento entrano in vigore.
Gli atti dell’unione obbligatori che contengono sanzioni pecuniarie nei cnf di persone fisiche o giuridiche, hanno efficacia di titolo esecutivo (art. 299,1 TFUE). L’esecuzione forzata è regolata dalle norme di procedura vigenti nello stato nel cui territorio è effettuata. Può essere sospesa solo dalla corte di giustizia dell’unione.
10. I regolamenti
Il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. Emergono così i tre caratteri distintivi di tale atto, che ne mettono in luce la natura normativa:
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la generalità,
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lʼintegrale obbligatorietà
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la diretta applicabilità.
Lʼanalogia con la legge statale è confermata dalla forma di pubblicità, cioè dalla pubblicazione in una raccolta ufficiale quale la Gazzetta dellʼUnione europea, richiesta per la sua entrata in vigore.
◆ La portata generale del regolamento implica che esso si applichi ad una fattispecie definita in termini generali e astratti e si rivolga, pertanto, ad una serie indeterminata di destinatari, conferendo ad essi diritti o obblighi giuridici → Tale carattere differenzia il regolamento dalla decisione, la quale, al pari del primo, è integralmente obbligatoria, almeno nella sua originaria connotazione, quando, cioè, è rivolta verso specifici destinatari predeterminati. Il giudice europeo (1962) ha affermato che: “il regolamento ha portata generale ed è direttamente applicabile in ciascuno Stato membro, mentre la decisione è obbligatoria solo per i destinatari. La caratteristica essenziale della decisione consiste nella limitatezza dei destinatari ai quali è diretta, mentre il regolamento, che ha natura essenzialmente normativa, è applicabile non già a un numero limitato di destinatari, indicati espressamente oppure facilmente individuabili, bensì ad una o più categorie di destinatari determinate astrattamente e nel loro complesso”.
Per la qualificazione di un atto quale regolamento risulta quindi decisivo che i suoi destinatari vengano individuati sulla base di elementi oggettivi e non, al contrario, sulla base di qualità personali. In quest’ultimo caso l’atto, pur emanato nella forma di un regolamento, dovrà considerarsi come una pluralità di decisioni individuali. Più problematica è la distinzione dei regolamenti rispetto a quelle decisioni che non designano i destinatari e, pertanto, spiegano effetti integralmente obbligatori verso una pluralità indeterminata di destinatari. Ormai frequentemente l’Unione europea emana regolamenti volti a stabilire misure contro specifiche persone fisiche o giuridiche: un esempio è rappresentato dal congelamento di capitali e di altre risorse finanziarie di governanti o persone sospettate di terrorismo → In questo caso, pur pregiudicando in maniera individuale i soggetti colpiti da tali misure, il regolamento non perde la sua natura giuridica di atto di portata generale. Come ha chiarito il Tribunale, “Regolamenti siffatti, pur avendo uno specifico oggetto, cioè le misure contro determinate persone, si rivolgono ad una generalità indeterminata di destinatari, in quanto vietano a chiunque di mettere a disposizione di tali persone capitali o risorse finanziarie, e restano, pertanto, atti di portata generale”.
La generalità del regolamento non va intesa, poi, come implicante necessariamente la sua applicazione in tutti gli Stati membri → È, infatti, possibile che un regolamento sia emanato con riguardo ad un solo Stato, o che abbia una sfera territoriale limitata di applicazione.
◆ La seconda caratteristica del regolamento risiede nella sua obbligatorietà integrale (“in tutti i suoi elementi”); essa differenzia tale atto dalla direttiva, la quale ha una obbligatorietà limitata al risultato da raggiungere, mentre gli Stati membri destinatari conservano la libertà di stabilire mezzi e forme dirette ad assicurare tale risultato. Come risulta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, data lʼintegrale obbligatorietà dei regolamenti “è inammissibile che uno Stato membro applichi in modo incompleto o selettivo un regolamento dellʼUnione”.
◆ La terza caratteristica del regolamento è data dalla sua applicabilità diretta (o immediata) negli Stati membri → in tale diretta applicabilità, si manifesta lʼaspetto essenziale della sopranazionalità.
I regolamenti, infatti, esprimono la capacità dellʼUnione europea di produrre una normativa che, superando il diaframma statuale, raggiunge direttamente i consociati, creando per essi diritti e obblighi giuridici, e si impone a qualsiasi autorità, giudiziaria o amministrativa, che sia chiamata ad applicarla.
L’applicabilità diretta comporta che i regolamenti acquistano efficacia giuridica allʼinterno degli Stati membri al momento stesso in cui, a seguito della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dellʼUnione europea, essi entrano in vigore ai sensi dellʼordinamento dellʼUnione, senza che detti Stati nulla debbano fare per dare attuazione agli stessi, e nulla possano fare per impedire tale efficacia anzi atti statali che fossero pur solo riproduttivi dei regolamenti, sarebbero vietati.
In proposito, la Corte di giustizia ha dichiarato illegittima la prassi secondo la quale alcuni Stati usavano emanare atti legislativi interni volti a dare attuazione ai regolamenti, il cui testo veniva riprodotto in tali atti statali, sostenendo che “lʼefficacia diretta del regolamento implica che la sua entrata in vigore e la sua applicazione nei confronti degli amministrati non necessitano di alcun atto di ricezione nel diritto interno”. Tale prassi, infatti,
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contrasta con la diretta applicabilità dei regolamenti,
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può pregiudicarne la simultanea entrata in vigore in tutti gli Stati membri, in quanto l’atto legislativo interno può determinare l’entrata in vigore del regolamento spostandola al momento di entrata in vigore dell’atto statale,
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finisce per celare la natura europea della norma, camuffandola in legge statale.
Il carattere direttamente applicabile dei regolamenti non esclude che possano essere necessari o, comunque, opportuni, ulteriori atti di esecuzione dell’Unione → è frequente che rispetto ad un regolamento diretto a disciplinare una data materia seguano regolamenti di esecuzione, adottati dal Consiglio o dalla Commissione. In via eccezionale il regolamento può richiedere perfino unʼattività statale di esecuzione → ciò accade quando il regolamento non sia pienamente self-executing, non contenga, cioè, una disciplina del tutto esaustiva e richieda la determinazione di taluni elementi necessari per la sua pratica applicazione. In tali casi:
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il regolamento può prevedere le misure che gli stati membri devono adottare.
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Il regolamento può contenere l’obbligo di emanare tali misure.
L’applicabilità diretta dei regolamenti non significa soltanto che essi penetrano negli ordinamenti degli Stati membri senza bisogno di alcun atto di adattamento, ma anche che essi sono idonei a creare diritti a favore dei singoli e obblighi a loro carico. In altri termini, essi sono produttivi di effetti diretti, sia nei rapporti “orizzontali”, cioè tra privati, sia nei rapporti “verticali”, tra i singoli e lo Stato → Tale efficacia diretta comporta che il titolare del diritto nascente da un regolamento può esercitarlo nei confronti della controparte, tenuta all’obbligo corrispondente; e che, ove il diritto non venga spontaneamente soddisfatto, il titolare può chiederne la tutela giudiziaria dinanzi al giudice nazionale.
A seguito del trattato di Lisbona, l’obbligo degli stati membri di assicurare una tutela giudiziaria effettiva è prescritto dall’art. 19 par.1, 2° comma, TUE.
11. Le direttive
Le direttive, ex art. 288 TFUE, possono essere destinati a tutti o a taluni stati membri ma mai ai singoli o ad altre entità. Essa ha una efficacia PARZIALMENTE OBBLIGATORIA poiché vincola gli stati destinatari solo per i RISULTATI da raggiungere → riconosce cioè una sfera di libertà in merito ai mezzi e alle forme necessarie per conseguire il risultato prescritto.
La direttiva promuove l’armonizzazione dei diritti degli stati membri, garantendo il raggiungimento di un obiettivo, pur nella diversità delle legislazioni statali. Essa quindi appare più conforme:
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al principio di sussidiarietà, implicando un intervento UE solo nella misura in cui gli scopi dei trattati non siano raggiunti dai singoli stati.
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Al principio di proporzionalità, limitandosi a porre un obbligo che non va al di là di quanto le istituzioni europee ritengano necessario per il raggiungimento degli obiettivi dei trattati.
La direttiva non è direttamente applicabile → acquista efficacia allʼinterno degli Stati destinatari in via mediata, grazie ad atti statali che provvedono a dare attuazione alla direttiva e ad integrare il suo contenuto normativo, dato che questo, di regola, è incompleto, limitandosi la direttiva a prescrivere lʼobiettivo, ma anche la forma e i mezzi.
Nella prassi, tuttavia, non sono mancati esempi di direttive che forniscono una disciplina esaustiva e completa della materia, finendo per sottrarre agli Stati destinatari ogni sfera di libertà sui mezzi di attuazione. Tali direttive sono denominate direttive dettagliate (o particolareggiate) e, in realtà, non corrispondono alla definizione che delle direttive fornisce lʼart. 288, 3° comma, TFUE:
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a ragione un’autorevole dottrina ha dubitato della loro legittimità.
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Deve riconoscersi, peraltro, che la Corte di giustizia non ha mai annullato direttive dettagliate, né i singoli Stati ne hanno formalmente contestato la legittimità.
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Il protocollo sui principi di prop. e suss. Allegato ad Amsterdam le ha in qualche modo riconosciute, dicendo che ad esse sono preferibili le direttive quadro.
Le direttive stabiliscono il TERMINE entro il quale gli Stati devo darvi attuazione, in rapporto a diversi fattori valutati dalle istituzioni europee, quali ad esempio, l’urgenza di raggiungere l’obiettivo o la difficoltà di realizzarlo, che può variare anche da stato a stato. Prima della scadenza del termine:
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la direttiva è già in vigore
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determina un obbligo a carico degli Stati destinatari, c.d. Stand-still, che consiste nel divieto di adottare misure che abbiano il risultato di rendere più difficile lʼattuazione della direttiva → obbligo desunto dalla corte da quello di leale collaborazione e dalla stessa obbligatorietà della direttiva (sent. 18 sett. 1997). Anche la corte costituzionale italiana ha riconosciuto tale obbligo, dichiarando inammissibile un referendum abrogativo in materia di contratto di lavoro a tempo determinato, in quanto tale legislazione risultava già conforme ad una direttiva il cui termine di attuazione non era scaduto.
Entro il termine prescritto dalla direttiva gli Stati destinatari hanno lʼobbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per dare esecuzione alla direttiva nel proprio ordinamento:
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Eventuali difficoltà che uno Stato incontrasse non lo esimono dallʼinadempimento di tale obbligo, ma gli consentono al massimo di chiedere una proroga.
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Le misure adottate dagli Stati destinatari in esecuzione della direttiva vanno comunicate alla Commissione. Con riguardo alle direttive adottate con una procedura legislativa, tale obbligo di comunicazione ha una sua autonomia rispetto all’obbligo di adottare le misure di attuazione → Il Trattato di Lisbona ha introdotto una norma che prevede che la Commissione possa aprire una procedura d’infrazione contro lo Stato membro che non abbia adempiuto l’obbligo di comunicare le misure di attuazione di una direttiva del genere, chiedendo alla Corte di giustizia anche di comminare a tale Stato il pagamento di una sanzione pecuniaria.
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I principi della certezza del diritto e della tutela dei privati esigono che la normativa degli stati membri abbia una formulazione non equivoca. Semplici prassi amministrative non possono considerarsi valido adempimento dell’obbligo incombente.
Una volta che il termine sia scaduto senza che lo Stato abbia attuato correttamente la direttiva, esso è responsabile della violazione dellʼart. 288 TFUE:
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Nei suoi confronti, può essere esperita una procedura di infrazione ai sensi dellʼart. 258 o dellʼart. 259 TFUE;
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a certe condizioni, è possibile richiedere il risarcimento dei danni che i singoli abbiano subito a seguito di tale inadempimento.
La giurisprudenza della Corte di giustizia, seguita da quella statale, ha da tempo affermato che, a date condizioni ed entro certi limiti, essa, pur non attuata dallo Stato membro destinatario, può produrre effetti diretti per i singoli all’interno di tale Stato → qualora una direttiva abbia un contenuto sufficientemente chiaro e preciso, preveda per gli Stati destinatari un obbligo incondizionato e sia diretta a conferire ai singoli un diritto, essa ha una diretta efficacia, cioè è suscettibile di creare in capo ai singoli diritti da essi esercitabili ed eventualmente invocabili in giudizio dinanzi ai giudici nazionali. L’efficacia diretta richiede:
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che la direttiva (o una sua disposizione) sia sostanzialmente self-executing,
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che abbia un contenuto autosufficiente, completo, tale, cioè, da essere praticamente applicabile dal giudice nazionale anche in assenza di una legge statale di attuazione → La presenza di un contenuto “chiaro e preciso” può riconoscersi, per esempio, in direttive che stabiliscano un divieto o comportino lʼobbligo di abrogare una data normativa, o che consistano in direttive dettagliate.
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Obbligo incondizionato → come evincesi dalla sent. 4 dicembre 1974 van Duyn, ciò significa che esso non richiede alcun atto ulteriore di esecuzione ma anche che il termine per l’attuazione della direttiva sia scaduto e lo stato non l’abbia trasposto o lo abbia fatto in maniera insufficiente.
La giurisprudenza successiva della corte ha chiarito che il fondamento della efficacia diretta delle direttive:
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mette in evidenza la necessità che il termine di attuazione sia scaduto
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costituisce una forma di tutela per i singoli, i cui diritti sarebbero pregiudicati.
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Rappresenta un sanzione per lo stato inadempiente che non può valersi del suo inadempimento per sottrarsi agli obblighi prescritti dalla direttiva.
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porta a delineare i limiti entro i quali gli effetti indiretti possono operare.
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I diritti da essa derivanti possono essere fatti valere nei rapporti verticali e non già i quelli orizzontali (sent. 26.2.86 Marshall).
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L’effetto diretto verticale è unilaterale, giova cioè solo al singolo.
L’esclusione di una efficacia orizzontale ha determinato però una disparità di trattamento a seconda che il singolo abbia come controparte lo stato o un altro privato. Pertanto la corte pur ribadendo il divieto di effetti diretti nei rapporti tra privati, ha cercato di ampliare l’applicazione di una direttiva non eseguita:
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riconoscendo l’effetto verticale nei confronti dello stato anche quando non agisce in veste di pubblica autorità.
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Dilatando la nozione di stato, comprendendovi qualunque ente che eserciti un pubblico potere.
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Affermando che i giudici nazionali, per l’obbligo di leale collaborazione, devono interpretare il diritto interno in maniera conforme all’obbligo prescritto dalla direttiva → in tal modo il giudice formalmente applica il diritto interno e, pertanto, questo crea obblighi e diritti corrispondenti nei rapporti tra privati.
Secondo una sentenza del 2006, tale obbligo di applicazione conforme, che non può mai condurre ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale, esiste solamente a partire dalla scadenza del termine prescritto per dare attuazione alla direttiva.
12. Le decisioni
L’art. 288,4 TFUE contempla il terzo atto obbligatorio dell’Unione, la DECISIONE → obbligatoria in tutti i suoi elementi e “se designa i destinatari è obbligatoria solo per questi” mentre nteriormente al Trattato di Lisbona il secondo carattere distintivo della decisione era rappresentato dalla sua “particolarità”, cioè dalla circostanza che essa era necessariamente diretta a uno (o più) specifici destinatari.
Ciò è rilevate ai fini delle forme di pubblicità della decisione:
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se adottate con una procedura legislativa, le decisioni vanno sempre pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea ed entrano in vigore a seguito di tale pubblicazione,
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le decisioni non legislative prive di destinatari sono pubblicate anch’esse nella Gazzetta ufficiale.
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Quelle che designano i destinatari, al contrario, sono notificate a questi ultimi e acquistano efficacia i virtù di tale notificazione.
Per quanto riguarda le decisioni rivolte a specifici destinatari, tali destinatari possono essere sia Stati membri (eccezionalmente anche tutti gli Stati membri), sia persone fisiche o giuridiche. Sempre riguardo alle decisioni particolari, è proprio la presenza di destinatari specifici che consente i distinguere tali decisioni dai regolamenti che, invece, hanno una portata generale in quanto si rivolgono a una serie indefinita di destinatari.
Per quanto riguarda le decisioni che non designano i destinatari, esse restano in ogni caso obbligatorie in tutti i loro elementi → I primi commenti al Trattato di Lisbona comprendono i questa categoria vari tipi di decisioni:
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quelle che hanno quale oggetto la composizione di date istituzioni o altri organi, come le decisione del Consiglio europeo sulle formazioni e sulla presidenza del Consiglio, o, quella del Consiglio europeo sulla composizione del Parlamento europeo.
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Alcuni autori ricomprendono tre le decisioni prive di designazione di specifici destinatari, anche decisioni sostanzialmente normative di portata generale che, nella prassi, si erano diffuse già anteriormente al Trattato di Lisbona per la previsione della disciplina di dettaglio di materie regolate da un regolamento o da una direttiva; altri autori, invece, escludono tale possibilità, rilevando che decisioni di portata generale si confonderebbero con i regolamenti.
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E’ stato affermato che le decisioni prive di specifichi destinatari comprenderebbero le decisioni in materia di politica estera e di sicurezza comune.
Lʼinnovazione introdotta dal Trattato di Lisbona rischia di dare vita a un quadro estremamente eterogeneo e alquanto confuso:
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per le decisioni relative alla composizioni di istituzioni o organi dell’unione, la qualificazione di atti obbligatori in tutti i suoi elementi non sembra la più appropriata trattandosi di decisioni che hanno natura di atto organizzativo e che non creano obblighi a carico di alcun soggetto.
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La prassi successiva al Lisbona sembra smentire l’inclusione di tali atti tra le decisioni ex art. 288,4.
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solamente le decisioni di portata generale e di contenuto sostanzialmente normativo sembrano rientrare nella qualifica di atto obbligatorio in tutti i suoi elementi, che non designa i destinatari ma resta difficile distinguere tali decisioni dai regolamenti.
Per quanto riguarda gli effetti integralmente obbligatori delle decisioni, lʼart. 288, 4° comma, omette qualsiasi indicazione in merito alla eventuale diretta applicabilità della decisione:
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Considerato che essa è obbligatoria i tutti i suoi elementi, qualora sia indirizzata a Stati dipenderà dal contenuto della decisione stessa stabilire se essa richieda o meno lʼemanazione di atti statali di esecuzione.
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Ma, in principio, dato il suo carattere tendenzialmente completo (derivante dalla obbligatorietà in tutti i suoi elementi), deve presumersi che la decisione sia direttamente applicabile allʼinterno dello Stato destinatario → su questa linea la giurisprudenza sent. 21 maggio 1987, Albako.
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Applicabili senza bisogno di atti statali sono poi le decisioni indirizzate a persone fisiche o giuridiche → esse possono contenere delle sanzioni di natura pecuniaria che hanno il valore di titolo esecutivo.
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La corte ha affermato la possibilità che anche le decisioni producano effetti diretti, nella sentenza 6 ottobre 1970 Grad.
Riguardo al carattere solo “verticale” (invocabilità del diritto da parte del singolo nei confronti dello Stato) e anche “orizzontale” (nei rapporti tra privati) dellʼeffetto diretto, è da ritenere che, in principio, la decisione sia invocabile nei rapporti sia con i poteri pubblici che tra i privati. Infatti, tale carattere non si fonda, come per le direttive, sulla necessità di tutelare i singoli contro lʼinadempienza dello Stato e di sanzionare tale inadempienza; ma esso è il riflesso del contenuto tendenzialmente self-executing e completo della decisione, insito nel fatto che essa è obbligatoria in tutti i suoi elementi e non contempla una sfera di discrezionalità degli Stati, o, in genere, dei destinatari → di diverso parere la Corte che, nella sentenza 7 giugno 2007 Carp, ha affermato che la decisione è obbligatoria nei soli confronti degli stati e non se ne possono ricavare obblighi a carico dei privati.
13. Le raccomandazioni e i pareri
Contemplate dall’art. 288,5 TFUE che si limita ad affermare che non sono vincolanti. È da ritenere che:
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la raccomandazione sia una manifestazione di volontà con cui l’istituzione emanante chiede al destinatario di tenere la condotta raccomandata.
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Il parere è una manifestazione di giudizio, dal quale è assente l’intento di sollecitare il destinatario a tenere un certo comportamento.
Lʼart. 292 TFUE attribuisce al Consiglio e alla Commissione un potere generale di adottare raccomandazioni, mentre dichiara che la Banca centrale europea adotta raccomandazioni nei casi specifici previsti dai Trattati. Determinate disposizioni dei Trattati conferiscono il potere di emanare atti del genere anche ad altre istituzioni ed organi.
È poi diffusa lʼopinione che tutte le istituzioni avrebbero una competenza generale ad adottare raccomandazioni. La stessa Corte di giustizia ha affermato che “le raccomandazioni sono in genere adottate dalle istituzioni dellʼUnione quando queste non dispongono, in forza del Trattato, del potere di adottare atti obbligatori o quando ritengono che non vi sia motivo di adottare norme più vincolanti”.
La raccomandazione può avere quali destinatari:
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unʼistituzione
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Stati membri
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persone fisiche o giuridiche.
Sebbene priva di effetti obbligatori, la raccomandazione fa parte del diritto dellʼUnione –>ricade nella competenza pregiudiziale della Corte di giustizia, ex art. 267 TFUE.
Talune disposizioni attribuiscono effetti giuridici (peraltro non vincolanti) a date raccomandazioni:
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Per esempio, se uno Stato non si conforma alle raccomandazioni della Commissione volte ad evitare che la normativa che tale Stato intenda emanare provochi una distorsione alla concorrenza, non si potrà chiedere agli altri Stati membri di modificare le loro disposizioni nazionali per eliminare tale disposizione.
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Le raccomandazioni del consiglio che definiscono gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli stati membri e dell’Unione o quello volte a far cessare il disavanzo pubblico eccessivo, possono determinare la pubblicità delle stesse raccomandazioni e, riguardo all’eccessivo disavanzo, può preludere alla decisioni di misure di infrazione.
La Corte di giustizia, inoltre, ha dichiarato, nella sentenza Grimaldi del 1989, che le raccomandazioni sono produttive di un effetto giuridico, consistente nel dovere dei giudici nazionali di prenderle in considerazione nella decisione delle cause ad essi sottoposte.
Bisogna poi attribuire alle raccomandazioni dellʼUnione lʼeffetto giuridico c.d. di liceità, generalmente riconosciuto alle raccomandazioni dalle organizzazioni internazionali → ossia che la condotta di uno Stato il quale, per adeguarsi alla raccomandazione, violi un proprio obbligo giuridico, deve considerarsi lecita nell’ambito dell’Unione Europea: la raccomandazione rende lecito un comportamenti che, in mancanza della raccomandazione, sarebbe illecito, poiché contrario ad un obbligo giuridico.
Per quanto riguarda i pareri, è incerto che rientrino nella categoria enunciata i pareri interorganici, la cui efficacia giuridica dipende dal procedimento nel quale si inseriscono. I pareri in questione sono piuttosto le manifestazioni di giudizio, di opinione, che la Commissione, o altre istituzioni, possono emanare in una data materia o nei confronti di specifici destinatari. Nonostante lʼassenza di obbligatorietà dei pareri, talora specifiche disposizioni dei Trattati prevedono conseguenze giuridiche in caso di inosservanza: ad esempio il parere motivato che la commissione può emettere sulla violazione di un obbligo derivante dai trattati da parte di uno stato membro, la cui inosservanza può comportare il deferimento dello stato alla corte di giustizia (artt. 258, 259 TFUE).
Deve tenersi poi conto della possibilità che, sotto il nomen iuris di parere, si celi un atto di diversa natura, quale una decisione, idonea ad incidere sulla sfera giuridica del destinatario. La problematica, che si ricollega al criterio generale, secondo il quale gli atti dellʼUnione vanno identificati sulla base del loro carattere sostanziale, ha una specifica rilevanza per quanto riguarda lʼimpugnabilità dellʼatto dinanzi alla Corte di giustizia, inammissibile per i pareri, consentita, invece, per le decisioni → ad esempio la corte ha qualificato come decisione un atto considerato parere dalla commissione con cui quest’ultima aveva comunicato a certe imprese l’inapplicabilità per il futuro delle disposizioni che sospendevano l’applicazione delle norme sulle ammende. Tuttavia, la riconduzione di un apparente parere alla categorie delle decisioni, implica anche il suo assoggettamento ai requisiti di validità e di efficacia prescritti per tali atti.
14. Gli atti atipici
Gli atti adottabili dall’UE non contemplati nell’art. 288 TFUE sono denominati ATIPICI.
Essi comprendono un’estrema varietà di figure, non sempre provviste di effetti giuridici, e rappresentano, specie quelli nati dalla prassi, ma privi di alcuna previsione normativa, un elemento di incertezza giuridica, che può anche pregiudicare un’adeguata tutela giudiziaria dei singoli, sovente ignari della loro natura e dei loro effetti giuridici → opportunamente, quindi, l’art. 296,3° TFUE dispone che, in presenza di un progetto di atto legislativo, le istituzioni europee si astengano dall’adottare atti non previsti nel settore interessato.
Prescindendo dagli atti che, inserendosi in un procedimento interistituzionale non hanno una loro autonomia, ci limitiamo, pertanto, a raggrupparli in tre categorie:
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atti espressamente previsti da disposizioni dei Trattati che hanno a medesima denominazione di uno di quelli tipici contemplati dallʼart. 288 TFUE, ma caratteri giuridici differenti → per esempio, i regolamenti interni delle varie istituzioni e organi. Talvolta anche le norme dei regolamenti interni di altre istituzioni possono avere una rilevanza esterna. È quanto ha affermato il tribunale di primo grado nella sentenza 27.2.92, con riguardo alla violazione di un articolo del regolamento interno della commissione, che disponeva l’autenticazione degli atti della stessa con la firma del presidente e del segretario esecutivo. Il tribunale ha riconosciuto che tale violazione poteva essere invocata in giudizio al fine di impugnare un atto della commissione: bisogna distinguere tra le disposizioni del regolamento interno di una istituzione, la cui violazione non può essere invocata dalle persone fisiche e giuridiche poiché riguardano solo le modalità di funzionamento interno, da quelle la cui violazione può essere invocata dato che esse fanno sorgere diritti e sono fattore di certezza del diritto per tali persone. Sfuggono poi dalla definizione fornita dall’art. 288, le DIRETTIVE che il consiglio può impartire al negoziatore, in vista della conclusione di accordi internazionali (art. 218 par.4 TFUE). Vanno infatti considerate atipiche le direttive che non hanno portata generale e contenuto normativo. Atipici sono anche gli atti per i quali il termine DECISIONE è usato come sinonimo di RISOLUZIONE ed il cui contenuto non è obbligatorio in tutti i suoi elementi
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atti espressamente previsti da disposizioni dei Trattati e aventi denominazioni (e caratteri) diversi da quelli tipici → non inquadrabili tra quelli definiti nellʼart. 288. La materia dellʼunione monetaria offre esempi di atti del Consiglio, volti ad accettare se gli Stati membri soddisfino le condizioni per il passaggio allʼadozione della moneta unica; quello del Presidente del Parlamento europeo con il quale constata che il bilancio è definitivamente adottato; i programmi di azione in materia ambientale, con le connesse misure di attuazione, i programmi pluriennali di cooperazione all sviluppo, le misure di incentivazione nei riguardi degli Stati membri nel settore dellʼoccupazione, in materia di istruzione, ecc; gli atti che stabiliscono tali misure possono qualificarsi come risoluzioni operative, in quanto le istituzioni, adottandoli, regolano la propria attività nei vari settori.
Merita una specifica notazione la previsione di ACCORDI INTERISTITUZIONALI tra il parlamento europeo, il consiglio e la commissione. Sul piano generale:
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l’art. 17 par. 1 TUE assegna alla commissione il compito di avviare il processo di programmazione annuale e pluriennale dell’unione per giungere ad accordi interisituzionali.
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L’art. 295 TFUE, dopo aver previsto che il parlamento europeo, il consiglio e la commissione si consultano reciprocamente e definiscono insieme le modalità di cooperazione, dichiara che a tale scopo, nel rispetto dei trattati, possono concludere accordi interistituzionali che possono assumere carattere vincolante.
La prassi offre un vasto quadro di accordi interistituzionali conclusi tra il parlamento, il consiglio e la commissione spesso designati con denominazioni ulteriori, quali dichiarazioni comuni, scambi di lettere etc. Essi si rinvengono in tema di procedimenti normativi, di bilancio, di diritti fondamentali, di principi democratici e di sussidiarietà → la materia è anche oggetto della Dichiarazione n. 3 allegata al trattato di Nizza, relativa all’art. 10 del TCE, che afferma che il consiglio, il parlamento e la commissione, nel quadro del dovere di leale collaborazione, possono concludere accordi interistituzionali che non possono modificare né completare le disposizioni del trattato e possono essere conclusi unicamente con l’accordo di queste 3 istituzioni.Per quanto riguarda gli effetti obbligatori, sembra che l’accordo interistuzionale sia suscettibile di produrre effetti obbligatori quando ciò corrisponda alla volontà delle istituzioni che l’hanno concluso.
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atti non contemplati da alcuna disposizione dei Trattati e nati dalla prassi, per i quali lʼassenza di qualsiasi disposizione, che ne costituisca specifico fondamento, rende particolarmente problematica lʼindividuazione dei loro effetti, che possono avere, a seconda dei casi, valore giuridico o meramente politico → Per quanto riguarda gli atti a rilevanza esterna, diretti, cioè, a soggetti diversi dalle istituzioni europee, possono considerarsi, per esempio, le numerose risoluzioni che tali istituzioni sono solite emanare in varie materie e che, di regola hanno un valore solo politico, così come le conclusioni sovente adottate dal Consiglio. Non è da escludere, tuttavia, che in certi casi, atti del genere possano produrre effetti giuridici. Varie e numerosi sono gli atti a rilevanza esterna della Commissione, quali libri verdi, libri bianchi, conclusioni, lettere, comunicazioni (talvolta denominate linee-guida, orientamenti, codici di condotta ecc.). Essendo pacifica la loro subordinazione ai Trattati (come per gli atti dellʼUnione in genere), il fondamento del valore vincolante delle suddette comunicazioni sembra risiedere, da un lato, nel principio di certezza del diritto, dallʼaltro, nella tutela del legittimo degli interessati, come risulta dal riferimento allʼaccettazione degli Stati membri. La precisa definizione degli eventuali effetti giuridici degli atti atipici risultanti dalla prassi è fatta dal giudice europeo, il quale, a questo fine, tiene conto della volontà dellʼistituzione che emana lʼatto, ma anche del potere del quale è espressione e dei principi giuridici sui quali si fonda.
15. Gli atti in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC)
Tali atti non possono avere il carattere di atti legislativi (art. 24 TUE); va esclusa anche la possibilità di una loro efficacia diretta verso i singoli, tipica del fenomeno dellʼinterazione europea, ma non l’obbligatorietà di tali atti, nei confronti degli Stati membri o delle istituzioni dellʼUnione. Ai sensi dellʼart. 25 TUE “l‘Unione conduce la politica estera e di sicurezza comune:
a) definendo gli orientamenti generali,
b) adottando decisioni che definiscono:
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le azioni che l’Unione deve intraprendere,
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le posizioni che l’Unione deve assumere,
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le modalità di attuazione delle decisioni di cui ai punti i) e ii),
c) rafforzando la cooperazione sistematica tra gli Stati membri per la conduzione della loro politica”.
Al vertice degli atti dell’Unione nella materia in esame si pongono le determinazioni del Consiglio europeo, il quale “individua gli interessi strategici dellʼUnione, fissa gli obiettivi e definisce gli orientamenti generali della politica estera e di sicurezza comune, ivi comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa. Adotta le decisioni necessarie” e definisce le linee strategiche della politica dell’Unione dinanzi a eventuali sviluppo internazionali (art. 26 TUE).
L’oggetto di tali atti del Consiglio europeo non appare ben definito nell’art. 26, ma dall’art. 22 TUE si desume che possano riguardare i rapporti dellʼUnione con un Paese o una regione, o un tema particolare (per esempio, il terrorismo, la pirateria, ecc.).
Gli atti del genere del Consiglio europeo possono avere valore politico, come le conclusioni emanate a seguito delle sue riunioni MA possono produrre anche effetti obbligatori → l’art. 22 dichiara che le decisioni del Consiglio europeo sugli interessi e gli obiettivi strategici dellʼUnione “fissano la rispettiva durata e i mezzi che lʼUnione e gli Stati membri devono mettere a disposizione”.
Il Consiglio poi prende le decisioni per la definizione e lʼattuazione della PESC “in base agli orientamenti generali e alle linee strategiche definiti dal Consiglio europeo” (art. 26 par.2). Tali orientamenti generali e linee strategiche del Consiglio europeo vincolano giuridicamente il Consiglio.
Alle determinazioni del Consiglio europeo appaiono subordinate le decisioni del Consiglio, ex art. 26 e 25. Vengono in rilievo, anzitutto le decisioni che definiscono le azioni che lʼUnione deve prendere e ai sensi dell’art. 28 par. 1 TUE hanno un carattere specifico e operativo: quando una situazione internazionale richiede un intervento operativo dell’unione, il consiglio adotta le decisioni necessarie. Esse definiscono gli obiettivi, la portata e i mezzi che l’unione deve disporre, le condizioni di attuazione e, se necessario, la durata.
Nella prassi gli esempi di decisioni di carattere operativo sono molto numerosi; ad esempio lʼazione relativa a un programma di sostegno allʼAutorità palestinese nella lotta al terrorismo (13 aprile 2000) → Più in generale, decisioni di azione sono quelle adottate nellʼambito delle operazioni di disarmo, umanitarie e di soccorso, di missioni di prevenzione dei conflitti, di mantenimento e di ristabilimento della pace, nonché della lotta al terrorismo, nell’ambito della politica di sicurezza e difesa comune (art. 43 TUE).
Le decisioni di azione operative sono obbligatorie per gli Stati membri (art. 28 par. 2)→ in caso di difficoltà rilevanti nellʼapplicazione di decisioni del genere, uno Stato membro ne investe il Consiglio che delibera a riguardo e ricerca le soluzioni appropriate, le quali non possono essere in contrasto con gli obiettivi dellʼazione né nuocere alla sua efficacia.
Tali decisioni, inoltre, vanno rispettate e attuate anche da parte delle missioni diplomatiche e consolari degli Stati membri e delle delegazioni dellʼUnione nei Paesi terzi e nelle conferenze internazionali, nonché delle loro rappresentanza presso le organizzazioni internazionali (art. 35,1 TUE).
Il Consiglio adotta decisioni che definiscono la posizione dellʼUnione su una questione particolare di natura geografica o tematica (art.25 lett. B, ii, TUE) → possono ricordarsi quelle relative a specifiche aree di crisi, come la Repubblica federale di Iugoslavia, o contenenti misure contro Stati, come la Somalia, o contro i Talebani, ecc.; tra quelle tematiche, le posizioni sulla non proliferazione di armi nucleari, sulla lotta al terrorismo, ecc. Di solito tali decisioni, adottate spesso a seguito di analoghe decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, comportano misure sanzionatorie contro Stati terzi, o anche individui (per esempio, persone fisiche o giuridiche coinvolte in attività terroristiche). La possibilità di adottare misure restrittive verso individui è riconosciuta dall’art. 215 TFUE che, però, al terzo comma prevede che tali atti contengano le necessarie disposizioni sulle garanzie giuridiche. La corte di giustizia eccezionalmente controlla la legittimità di tali atti nei cnf i persone fisiche o giuridiche (art. 275,2 TFUE).
Anche le decisioni che definiscono posizioni dellʼUnione sono obbligatorie per gli Stati membri: “gli Stati membri provvedono affinché le loro politiche nazionali siano conformi alle posizioni dellʼUnione” (art. 29 TUE). Infine, vanno ricordate le decisioni definiscono le modalità di attuazione delle decisioni relative ad azioni o posizioni dellʼUnione e che sono gerarchicamente subordinata a queste ultime decisioni.
Il trattato di Lisbona provvede a coordinare atti emanati nel quadro della PESC e atti ordinari → ex art. 215 par. 1, quando il Consiglio abbia deciso lʼinterruzione o la riduzione, totale o parziale, delle relazioni economiche e finanziarie con uno o più Pesi terzi, lo stesso Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, su proposta congiunta dellʼAlto rappresentante per gli affar esteri e la politica di sicurezza e della Commissione, adotta le misure necessarie, informandone il Parlamento europeo. Tali misure sono oggetto di atti tipici dellʼUnione, quali previsti dall’art. 288 tfue, in particolare regolamenti idonei ad assicurare una obbligatorietà integrale e diretta, negli ordinamenti degli Stati membri delle misure restrittive in questione.