Le Fonti del Diritto Italiano – S.M. CICCONETTI
CAPITOLO I
LO STATO COME ORDINAMENTO GIURIDICO
1. Lo Stato come oggetto del diritto costituzionale.
Il diritto costituzionale ha per oggetto lo stato, ed è compito preliminare definire innanzitutto il concetto di Stato, prima di definire il diritto costituzionale.
La definizione di Stato
E’ suscettibile di essere inquadrata da diversi punti di vista. Quello preferito in questa sede il punto di vista giuridico, in base al quale il concetto giuridico di Stato è quasi sempre preceduto, quanto meno dal concetto politico di Stato. Ed è d’altra parte innegabile che lo Stato inteso nel senso giuridico ha vita più breve quanto minori sono al suo interno gli elementi di coesione politica culturale.
2. Lo Stato come la risultante di tre elementi: sovranità, popolo e territorio. Critica.
Lo Stato viene definito in un primo momento come risultante di tre elementi fondamentali:
popolo, territorio, e sovranità.
Sovranità
Il termine sovranità doppio concetto rivolto sia:
- all’esterno dello Stato stesso e coincide con il concetto di indipendenza nei confronti sia degli altri Stati sia di qualsiasi altro soggetto internazionale.
- All’interno dello Stato stesso e indica la superiorità del potere statale rispetto ai poteri di tutti gli altri soggetti o enti che sussistono ed operano all’interno dello Stato.
Lo Stato deve inoltre avere un territorio o più esattamente uno spazio all’interno del quale esercitare la propria sovranità ed infine un popolo inteso come insieme di soggetti legati da fini comuni di tipo generale e stabilmente sottoposti ad un potere effettivo ed indipendente.
Popolo
Occorre domandarsi ora che cosa si intende su sulla base di quali criteri un soggetto può definirsi come appartenente ad un popolo. Il popolo di uno Stato è formato dai cittadini, cioè da quegli individui, che posseggono la cittadinanza e nazionalità di quello Stato.
Quanto ai criteri per l’acquisto della cittadinanza, essi sono innumerevoli e si raggruppano generalmente in due categorie:
- Ius Sanguini se i figli che hanno la stessa cittadinanza del padre, o della madre di entrambi i genitori,
- Ius Soli, cioè ha la cittadinanza colui che è nato sul territorio dello stato o colui che vi risiede stabilmente da un determinato periodo di tempo.
Ogni Stato adotta i propri criteri per l’attribuzione della cittadinanza mediante norme giuridiche adottate dagli Stati stessi. Da tale considerazione si può ricavare la seguente successione logica. Il concetto di popolo presuppone il concetto di cittadinanza che a sua volta presuppone il concetto di di Stato, come produttore di norme giuridiche. Quindi lo Stato in quanto titolare del potere di creare diritto consente di definire da un punto di vista giuridico il popolo, e non viceversa.
Territorio
Anche se di solito non esiste una specifica norma giuridica che indichi quali sono i confini del territorio statale. Tali confini risultano da atti giuridici di diritto internazionale posti in essere in diversi momenti storici dai vari stati: si pensi ai trattati di pace soprattutto, ma anche gli atti di annessione, unificazione, accessione. Quindi per i confini del territorio di uno stato si presuppone l’individuazione dei suoi confini e di atti di diritto internazionale, che presuppongono uno Stato già esistente.
3. Lo Stato come ordinamento giuridico;
Prima di considerare la sovranità come unico elemento costitutivo del Stato bisogna pensare allo Stato stesso, come ad un ordinamento giuridico sovrano. In tal modo se ne deduce che gli elementi costitutivi dello Stato vengono ad essere rispettivamente la sfera di validità personale e territoriale delle norme che compongono l’ordinamento giuridico statale.
Tuttavia ritornando al problema della definizione del diritto costituzionale e prima ci si è dovuti chiedere che cosa è uno stato, adesso occorre chiedersi che cosa sia un ordinamento giuridico statale e più in generale che cosa sia l’ordinamento giuridico.
la pluralità degli ordinamenti giuridici;
E anzitutto bisogna dedurre che esistono una pluralità di ordinamenti giuridici, ovvero che all’interno di uno dato ordinamento giuridico statale possono esistere altri ordinamenti giuridici ad esso comunque subordinati e validi, a seconda dei casi, per l’intero territorio dello Stato o per soltanto alcune porzioni di esso.
il tentativo di definire l’ordinamento giuridico partendo dalla definizione della norma giuridica; Ciò premesso è importante ricordare che la definizione di ordinamento giuridico e quello di sistema di norme giuridiche. Le strade percorribili sono due:
- o arrivare ad una definizione oggettiva di ordinamento giuridico per poi dedurne, in modo residuale, che cosa sono le norme giuridiche.
- Oppure individuare quali sono i caratteri sostanziali delle norme giuridiche, per poi dedurne che l’ordinamento giuridico è il sistema formato da tutte le regole che abbia determinate caratteristiche sostanziali. Le seconda strada è quella che è stata preferita e percorsa dalla filosofia del diritto come un problema autonomo. I risultati raggiunti sono stati insufficienti, poiché la dottrina non ha mai raggiunto un proprio e diffuso accordo.
il tentativo di definire la norma giuridica partendo dalla definizione dell’ordinamento giuridico.
Inoltre dagli ordinamenti giuridici si evince là pretesa del singolo ordinamento giuridico statale, di stabilire in via esclusiva quali siano le regole giuridiche attraverso la predisposizione dei meccanismi idonei alla loro creazione o alla loro ricezione da altri ordinamenti giuridici.
Date le notevoli difficoltà si è deciso di utilizzare il procedimento inverso ovvero di definire prima di tutto l’ordinamento giuridico e poi le norme che ne fanno parte. Quindi la definizione di ordinamento giuridico statale è oggetto di numerose teorie che si era diviso in due grandi categorie: le teorie istituzionali e le teorie normativistiche.
Esame di alcuni tentativi di definizione del concetto di ordinamento giuridico statale:
Istituzionalisti:
3.a L’istituzione di Santi Romano
Lo Stato è un’istituzione, l’istituzione è un ordinamento giuridico, dunque lo Stato è un ordinamento giuridico.
Altre tesi nel solco dell’istituzionalismo sono quelle che si rifanno al concetto di costituzione in senso materiale, che si contrappone alla costituzione in senso formale.
L’ordinamento giuridico statale troverebbe il proprio fondamento originario in determinati principi sostanziali, che per l’appunto rappresentano la costituzione materiale di quell’ordinamento, l’affermazione dei quali precede, condizione e legittima la successiva adozione formale di un atto chiamato costituzione.
3.b la decisione politica fondamentale di C.Schmitt
Il principio costitutivo dell’ordinamento giuridico statale risiede secondo questa tesi, nella decisione politica fondamentale del titolare del potere costituente; in altre parole, lo Stato nasce con il sorgere della sua costituzione, intesa come decisione totale sulla specie e sulla forma dell’unità politica.
3c. la Costituzione in senso materiale di C. Mortati. Critica;
La validità di un ordinamento giuridico statale deve ricercarsi nell’organizzazione delle forze sociali politicamente e stabilmente ordinate che determinano un sistema di interessi e di fini politici ad essi corrispondenti. La costituzione in senso materiale può quindi definirsi come insieme di fini politici fondamentali sostenuti ed attuati dalle forze politiche dominanti, e la costituzione materiale in quanto principio costitutivo dell’ordinamento giuridico statale, rappresenta il fondamento della validità di tutte le altre norme che verranno create all’interno di tale ordinamento ed in primo luogo delle norme che compongono la costituzione in senso formale.
Critica alle tesi illustrate:
Critica la prima tesi
Il concetto di istituzione viene inteso in modo piuttosto generico in ordine agli elementi che lo dovrebbero caratterizzare.
Critica la seconda tesi
Tale concetto non è infatti idoneo a connotare la nascita dello Stato poiché, esso presuppone l’esistenza di un soggetto, in quanto titolare del potere costituente il quale adotti la fondamentale decisione politica nella quale si risolve la costituzione. È’ il prodotto di un atto di volontà del soggetto in grado di imporsi politicamente, il momento della nascita di uno Stato andrà collocato anteriormente a quello della costituzione, perché determinato da un soggetto che è riuscito ad imporsi politicamente. Vi saranno inoltre altre regole volte a disciplinare la forma dello Stato. Pertanto quindi la costituzione ha un fondamento normativo e deriva da un atto di volontà del soggetto titolare del potere costituente. Il potere costituente in quanto prima regola costitutiva dell’ordinamento giuridico statale ha un fondamento puramente esistenziale.
Critica alla terza tesi
In essa è chiara l’affermazione centrale secondo la quale i fini politici fondamentali divengono costituzione in senso materiale quando, grazie al sostegno delle forze politiche dominanti, ricevono concreta e stabile attuazione, in ciò consiste la loro intrinseca normatività, perciò definibili come un fatto normativo. L’innovazione di Mortati sta proprio nell’affermazione della necessità di ricondurre il principio di Effettività all’interno della fenomenologia giuridica.
Tuttavia quest’ultimo non applica mai in concreto tale concetto. Non nei confronti della costituzione in senso materiale dove non parla mai della effettività come il suo principio costitutivo; non nei confronti della costituzione in senso formale perché è del tutto astratto affermare che la validità della costituzione vada ricondotta alla sua effettività se poi si ritiene che quest’ultima non funzioni più in ordine alla modifica di determinate norme ed alle conseguenze derivanti da tali modifiche.
Normativisti:
3d. la concezione normativistica dello Stato di H. Kelsen. Critica. –
La teoria normativistica di Kelsen aveva lo scopo di definire lo stato dalle norme giuridiche che lo compongono.
Secondo Kelsen lo Stato è un ordinamento giuridico, e cioè un sistema di norme che si distinguono dalle norme della morale poiché mentre questi ultimi si caratterizzano per il loro contenuto, le prime si caratterizzano per la loro forma. Una norma giuridica è valida e quindi legittima, se conforme alla norma di grado superiore che la prevede e così via.
È così possibile raggruppare tali norme secondo un grado gerarchico e sono tali norme meno numerose man mano che si sale di grado. Le norme di grado superiore prevedono procedimenti di formazione più complessi mentre le norme di grado inferiore hanno procedimenti di formazione più semplici. La maggiore complessità prevista per le norme di grado superiore assicura loro più ponderatezza. Questo ha portato la formazione di un ordinamento giuridico statale a gradi, rappresentando ciascun grado il contenitore di tutte le norme aventi lo stesso valore giuridico. Si deve delineare così una figura piramidale alla cui sommità vi è una norma finale la cui validità deve essere presupposta. Tale norma che legittima tutte le norme a sè subordinate, costituisce il principio costitutivo di ogni ordinamento giuridico statale.
Kelsen aggiunse che l’ordinamento giuridico statale per poter concretamente funzionare, deve anche essere nel suo complesso effettivo.
L’effettività di un ordinamento deve perciò intendersi come la capacità di tale ordinamento di ottenere un’obbedienza media alle proprie regole. La validità delle norme che lo compongono dipende dal fatto che esse sono state create nelle forme previste dall’ordinamento stesso.
La maggiore perplessità in ordine alla validità della norma fondamentale che deve essere presupposta, ci si chiede come sia possibile che una norma costitutiva dell’intero ordinamento sia un dogma, ovvero un concetto che non può essere spiegato razionalmente.
Ma prima di rispondere a questo quesito, bisogna comprendere taluni concetti:
- Ordinamento giuridico internazionale,
E’ composto dai singoli Stati. Le norme che lo compongono sono di due tipi consuetudinarie, e pattizie (cioè norme ricavabili trattati internazionali).
Per spiegare il rapporto intercorre tra l’ordinamento giuridico internazionale ed i singoli ordinamenti giuridici statali, esistono due scuole di pensiero:
la teoria dualisticaà che gli ordinamenti siano tra loro separati
la teoria monistica à ritiene che essi concorrono tutti insieme alla formazione di un unico ordinamento giuridico:
- quello internazionale come derivato dai singoli ordinamenti statali (nella teoria del primato del diritto statale)
- quello statale dei singoli Stati, come derivati dall’ordinamento internazionale (nella teoria del primato del diritto internazionale).
Partendo dal presupposto della originarietà dell’ordinamento giuridico statale ed esaminando le varie categorie di norme che compongono l’ordinamento giuridico statale, la validità di ciascuna di tali categorie risiede nella conformità a norme di grado superiore e così via. Si giunge così secondo Kelsen forse ha una costituzione che è il presupposto per cui deve valere come norma tutto ciò che l’organo costituente, storicamente originario, ha manifestato come propria volontà.
Una critica fondamentale riguarda proprio l’impossibilità di spiegare la giuridicità della norma fondamentale, che non può essere ricondotta alla conformità al procedimento stabilito da una norma di grado superiore, perché al di sopra di essa non vi sono altre norme. Insomma tale teoria vale solo se la si applica per spiegare la nascita di tale ordinamento.
Le critiche alla necessità di presupporre la norma fondamentale come valida, sembrerebbero superate se, si accetta la premessa generale del primato del diritto internazionale. In tal caso, la norma fondamentale di un ordinamento giuridico statale è una norma giuridica positiva del diritto internazionale applicata a quello specifico ordinamento giuridico statale.
Il contenuto di tale norma internazionale è il cosiddetto principio di effettività. Tuttavia il problema non è risolto ma semplicemente spostato.
Per quanto riguarda i rapporti tra Kelsen e il principio di effettività. Tutto ciò che Kelsen dice a proposito delle effettività è che un ordinamento giuridico statale per poter esistere e per poter continuare ad esistere, deve essere nel suo complesso effettivo, cioè deve ricevere una media obbedienza.
4. Definizione dello Stato come di un ordinamento giuridico sovrano fondato sul principio di effettività e con sfere determinate di validità personale e territoriale delle proprie norme.
L’analisi di queste tesi fa emergere la necessità logica di spiegare in modo unitario il fondamento della giuridicità di tutte le norme che compongono un ordinamento giuridico.
Si può affermare che un ordinamento giuridico sorge quando sorgono le prime norme fondamentali di un’organizzazione, le norme cioè che riguardano essenzialmente l’individuazione del soggetto o dei soggetti ai quali spetta il potere di fissare le regole alle quali la comunità dovrà sottostare.
La differenza tra le teorie riguarda innanzitutto l’individuazione del principio costitutivo delle prime norme fondamentali. Esso è il principio di effettività, in base al quale le norme fondamentali debbono ritenersi sorte come norme giuridiche, quando ricevono un’obbedienza media e presumibilmente stabile allo stato dei fatti.
Le conseguenze sono immediate: il principio di effettività opera come fondamento giuridico non soltanto della nascita, ma anche della morte delle prime norme fondamentali. Più in generale, occorre tener conto del fatto che ogni ordinamento giuridico statale prevede norme sulla produzione di altre norme, norme, cioè, che prescrivono i requisiti di forma e di contenuto all’osservanza dei quali è subordinata la creazione di nuove norme. Nel nostro paese si fa riferimento all’ articolo 138 per quanto riguarda la formazione delle leggi di revisione costituzionale.
Il problema fondamentale è quello di stabilire in quale rapporto si pongono con l’effettività, le norme prodotte successivamente, all’interno di un ordinamento giuridico statale, ormai costituito. Una risposta è possibile qualora alla normazione sulle fonti si attribuisca un valore non costitutivo ma semplicemente dichiarativo: la norma prodotta, non è norma giuridica perché conforme alle norme che ne regolano la produzione, ma in quanto la conformità alle norme sulla normazione, costituisce l’indice di riconoscibilità della norma come parte dell’ordinamento e ne fa perciò presumere l’ effettività.
La definizione di Stato.
Lo Stato è un ordinamento giuridico sovrano fondato sul principio di effettività, con sfere determinate di validità personale e territoriale delle proprie norme.
5. I modi di creazione del diritto all’interno dell’ordinamento giuridico statale.
L’ordinamento prevede forme e modi particolari per la creazione del diritto.
La creazione diretta del diritto attraverso le fonti:
concetto di fonteàogni atto o fatto abilitato dall’ordinamento alla creazione del diritto.
- fonte-attoàquando l’ordinamento attribuisce capacità di creare norme giuridiche ad un atto scritto approvato da un soggetto determinato secondo un procedimento tipico. (es. Legge ord. Art70-74)
- fonte-fatto àquando si ricollega il sorgere di norme giuridiche al verificarsi di determinate circostanze. La fonte atto per antonomasia è la consuetudine, la quale sorge a seguito della ripetizione costante ed uniforme di un comportamento nel tempo, con la convinzione che tale comportamento sia giuridicamente dovuto. La consuetudine è disciplinata nelle disp. Prel. Alla legge in generale artt.8-15, dove gli si attribuisce un grado inferiore a quello delle leggi e dei regolamenti amministrativi.
- fonte di produzioneàpongono le norme di comportamento costitutive del diritto oggettivo, e possono essere definite come ogni atto o fatto abilitato dall’ordinamento giuridico a innovare il diritto oggettivo.
- Fonti di produzione in senso strettoà ogni atto o fatto abilitato dall’ordinamento giuridico a innovare il diritto oggettivo.
- Fonti sulla produzioneàfanno parte del più ampio genere delle fonti sulla produzione. Si ha una fonte sulla produzione, quando norme create da una fonte, abbia come contenuto particolare quello di disciplinare la formazione di altre fonti del diritto.
- Norme sulla produzioneà accanto alle fonti sulla produzione, vi sono le norme sulla produzione. Ovvero quando un atto o un fatto introducano norme di contenuto tra loro diverso (norme sulla normazione di altre norme e norme aventi altri oggetti) non si può più qualificare quell’atto o quel fatto come fonte sulla produzione, perché in questo caso ci si trova di fronte ad una fonte di produzione che contiene altresì una o più norme sulla produzione. Esempi di norme sulla produzione nel nostro ordinamento sono gli artt. 70-74, che disciplinano il procedimento di formazione della fonte “legge ordinaria”
- fonte di cognizioneàsi designano tutti quegli atti scritti che consentono una migliore individuazione di norme già sorte. Sono privi di valore normativo, ma rivolte a consentire una migliore conoscibilità del diritto oggettivo. (es. raccolte ufficiali di usi, disciplinate dall’art.9 d.p.c.c.) queste raccolte scritte non trasformano il diritto consuetudinario, in diritto scritto.
Il contenuto delle fonti: la distinzione tra disposizione e norma;
Il contenuto delle fonti atto è un testo risultante dall’insieme delle preposizioni linguistiche usate dal soggetto autore dell’atto.à DISPOSIZIONI
l’interpretazione come mezzo per ricavare la norma dalla disposizione;
Il termine specifico per indicare tali proposizioni scritte è quello di disposizioni.
La sequenza logica è atto fonteà disposizioneà norma. Il passaggio dall’atto fonte alla disposizione è un passaggio meramente materiale, mentre il passaggio dalla disposizione alla norma è il frutto di una delicata operazione intellettuale quale l’interpretazione. Interpretare una disposizione vuol dire comprenderne il significato e dunque ricavare la regola che essa intende porre. L’interpretazione è per definizione soggettiva, e per restringere il grado di soggettività propria dell’interpretazione il legislatore ha fissato una serie di criteri ai quali l’interprete deve attenersi al fine di garantire la certezza del diritto. L’articolo 12 delle preleggi, intitolato interpretazione della legge, stabilisce che nell’applicare la legge “non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalle intenzioni del legislatore”. In un caso limite vi può essere anche l’intervento di un’apposita legge che stabilisce quali sia il significato da attribuire alla disposizione (interpretazione autentica).
Il grado di variabilità, oggettiva e soggettiva, dell’interpretazione di una disposizione dipende evidentemente da come quest’ultima viene redatta formulazioni complesse ed imprecise favoriscono tale variabilità, mentre formulazioni chiare e tecnicamente corrette la riducono fortemente. Non sempre, però, la messa a punto di tali tecniche è di per sé sufficiente ad evitare la creazione di disposizioni dal significato ambiguo, poiché, essendo la formulazione dei testi normativi il prodotto delle scelte politiche dei soggetti competenti vi è la necessità di raggiungere un compromesso, e da tale compromesso si giungerà alla redazione di testi poco chiari.
Disposizioni polisenso
Le disposizioni che sono suscettibili di interpretazioni diverse vengono definite come disposizioni poli-senso. Tali disposizioni contengono più norme tra loro diverse e perciò, al momento della loro applicazione, accrescono fortemente la discrezionalità dell’interprete.
- Un esempio è l’articolo 59 relativo alla nomina di cinque senatori a vita
La seconda disposizione è certamente polisenso, perché o può essere interpretata consentendo ad ogni presidente di nominare cinque senatori a vita oppure può essere interpretata in modo tale che non possono essere presenti alla camera del senato più di cinque senatori a vita.
- l’articolo 89 relativa alla controfirma degli atti del presidente della Repubblica.
La seconda disposizione sembra invece avere a prima vista un significato chiaro e inequivocabile. In realtà se tale disposizione viene letta in collegamento con altre disposizioni si può notare che non tutti gli atti, ma semplicemente la maggior parte degli atti del presidente della Repubblica devono essere controfirmati. Atti che non necessitano della controfirma del ministro sono ad esempio quelli che il presidente del Repubblica pone in essere in quanto presidente del consiglio supremo di difesa. Un altro caso è dalla controfirma che non è necessario nel caso in cui il presidente della Repubblica ricorre la corte costituzionale in caso di conflitto tra poteri dello Stato. La controfirma non è necessaria in quanto il governo potrebbe bloccare così l’esercizio di un legittimo potere di reazione del presidente della Repubblica contro un proprio atto, semplicemente rifiutandosi di controfirmare l’atto di ricorso alla corte.
Disposizioni univoche
Le disposizioni suscettibili di essere interpretate in un solo modo vengono definite come disposizioni univoche in questo caso si ha una perfetta corrispondenza tra disposizione e norma. Una disposizione univoca tra le tante esistenti nella costituzione, è quella dell’articolo 12 della costituzione. La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di uguali dimensioni.
Principi generali
Anche se si è data per pacifica l’affermazione secondo la quale le fonti fatto producono diritto non scritto, si è invece dubitato della necessaria corrispondenza tra fonti atto e diritto scritto, potendovi essere un diritto non scritto che si ricava dal diritto scritto posto da fonti atto: tale sarebbe, soprattutto, il caso dei cosiddetti principi, più o meno generali, che non sono esplicitati in apposite disposizioni, ma che si ricavano in via interpretativa da singole disposizioni o gruppi di disposizioni, in quanto da queste logicamente implicati o presupposti. Sono ricavate dall’insieme delle possibili combinazioni tra le disposizioni o i gruppi di disposizioni presenti in un ordinamento giuridico statale. (Articolo 12 preleggi).
La creazione indiretta del diritto attraverso il rinvio a norme esterne all’ordinamento:
creazione diretta del dirittoà quando ogni ordinamento giuridico statale prevede attraverso la precostituzione di fonti atto e/o di fonti fatto,
una creazione indiretta del dirittoà si realizza attraverso il rinvio a norme esterne rispetto a tale ordinamento: per esterne ci si riferisce all’ordinamento giuridico internazionale o diverso da quello statale.
Esistono nel nostro ordinamento disposizioni che disciplinano il ricorso a norme esterne dall’ordinamento.
- Primo caso di creazione indiretta del diritto che fa riferimento all’ordinamento giuridico internazionale è:
a) La recezione interna delle norme pattizie, contenute in un trattato internazionale stipulato dallo Stato italiano con uno Stato o più Stati esteri.
Formazione di un trattatoà si perviene attraverso le fasi della negoziazione, della sottoscrizione e dello scambio delle ratifiche.
Accordo in forma semplificataà non essendo necessaria in questo caso la fase della ratifica, dei trattati entrano in vigore per effetto della sola sottoscrizione. Di solito gli accordi in forma semplificata prevedono che tutte le scelte in ordine alla formazione del trattato spettano esclusivamente al governo.
Il meccanismo di produzione degli effetti all’interno dell’ordinamento italiano delle norme Pattizie.
Lo strumento per ottenere la produzione di effetti consiste nel dare esecuzione al trattato ed i meccanismi attraverso i quali questo si può realizzare sono due:
- Si può approvare un atto fonte ad esempio una legge o un regolamento amministrativo, le cui disposizioni riproducano il testo delle clausole contenute nel trattato, eventualmente modificandolo e adeguandolo all’ordinamento nel quale si deve dare esecuzione.
- Secondo strumento è il cosiddetto ordine di esecuzione che consiste in una disposizione contenuta in un atto normativo interno secondo una formula divenuto ormai rituale, “dove si dà piena e completa esecuzione alle clausole di un trattato”, il cui testo viene allegato a fini meramente conoscitivi, all’atto normativo. Nel caso della legge di autorizzazione alla ratifica, gli viene inserito direttamente all’interno l’ordine di esecuzione.
Il rinvio operato con l’ordine di esecuzione non è pertanto una rinvio recettizio, perché ciò che viene inserito nell’ordine interno sono le norme da esse desumibili per via di interpretazione, data la necessità di adattarle sul piano interno. Occorre aggiungere che l’ordine di esecuzione ha la forza (grado gerarchico) proprio dell’atto normativo nel quale contenuto, da ciò nè consegue che le norme introdotte nell’ordinamento italiano avranno anche esse medesimo grado gerarchico. (norme di grado legislativo quando l’ordine di esecuzione è contenuta nella legge o grado inferiore quando l’ordine di esecuzione contenute in un regolamento amministrativo o un atto amministrativo).
Controlli sulla legittimità delle norme create nel modo indiretto.
Per quanto attiene alle norme create mediante l’ordine di esecuzione contenute in una disposizione legislativa, la corte costituzionale si è pronunciata ripetutamente in favore della loro sindacabilità in sede di giudizio di legittimità costituzionale, la cui eventuale dichiarazione di illegittimità ha ad oggetto la disposizione legislativa contenente l’ordine di esecuzione.
Inoltre questo ragionamento implicherebbe che è applicabile il sindacato di legittimità su atti o regolamenti amministrativi da parte di giudici amministrativi qualora l’ordine d’esecuzione sia contenuto in questi tipi di atti.
- Secondo caso di creazione indiretta del diritto
b) il rinvio alle norme consuetudinarie internazionali; è rappresentato dall’articolo 10, l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, intendendosi con quest’ultimo termine le norme internazionali consuetudinarie.
La citata disposizione costituzionale prevede innanzitutto una rinvio di tipo mobile, poiché oggetto di esso sono tutte le norme consuetudinarie internazionali presenti e future: dunque le norme astrattamente determinabili (ogni norma consuetudinaria indipendentemente dal suo sorgere), e non norme concretamente determinate (fatta eccezione per quelle norme consuetudinarie già sorte).
Essa prevede il criterio della adattamento automatico dell’ordinamento interno alle norme consuetudinarie internazionali. Corrispondenza non necessariamente puntuale, infatti può accadere che il suo contenuto precettivo debba essere adattato per poter operare all’interno dell’ordinamento italiano.
La funzione dell’articolo 10
Esso assolve a una diversa funzione di creare, sia pure in modo indiretto, norme interne che, in quanto tali e così come avviene per ogni altra norma facente parte dell’ordinamento giuridico italiano, sono soggette a successivi controlli di legittimità previsti dall’ordinamento.
La qualificazione dell’articolo 10
La dottrina sul problema teorico della qualificazione si è espressa qualificandola:
- come una norma sulla produzione che rinvierebbe alla fonte-fatto consuetudine internazionale
- come una norma sulla produzione che rinvierebbe alle norme consuetudinarie internazionali da questa create.
Tutti i sostenitori delle tesi suddette sono concordi che l’articolo 10 prevede un meccanismo di creazione del diritto mediante un rinvio funzionante in modo automatico come un trasformatore permanente. La formulazione dell’articolo 10 prevede che l’ordinamento giuridico italiano “si conforma”, e tale espressione è ben diversa dal tasso di altre costituzioni dove si prevede che il diritto internazionale sia parte integrante della diritto dell’interno dello Stato. Poichè quest’automatica produzione di effetti all’interno dell’ordinamento italiano costituirebbe una grave limitazione della sovranità dello Stato, e come tale è ammissibile soltanto sulla base di un’esplicita autorizzazione. Autorizzazione prevista dall’articolo 11, con la possibilità di stipulare, in condizioni di parità con gli altri stati, trattati che prevedano l’attribuzione di capacità normativa con efficacia diretta nell’ordinamento italiano a soggetti internazionali esterni: come regolamenti comunitari e le direttive auto-applicative.
Qual è il grado gerarchico delle norme consuetudinarie internazionali?
Tale problema fa riferimento a una possibile invalidazione o abrogazione, producendo inoltre effetti anche sulla possibilità che le norme consuetudinarie se fossero valutate alla stregua di consuetudini, non possano essere oggetto del giudizio di legittimità costituzionale.
La creazione indiretta di norme giuridiche attraverso l’articolo 10 da norme consuetudinarie internazionali, non implica necessariamente che le norme giuridiche interne debbono avere carattere della consuetudinarietà. Le norme interne create sulla base dell’articolo 10, non sono norme consuetudinarie e ciò deriva dal fatto che la loro nascita è istantanea, diversamente da quanto avviene per la nascita delle norme consuetudinarie, nascita che è per definizione graduale nel tempo, in base ad una ripetizione uniforme costante di un determinato comportamento. Le norme create sulla base del meccanismo automatico di cui all’articolo 10, sono pertanto delle norme non scritte, aventi un contenuto sostanzialmente corrispondente al contenuto delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
Quanto al grado da assegnare non ha avuto seguito la tesi della super-costituzionalità, se non altro perché una norma non può mai avere un gerarchico superiore a quello della norma dalla quale essa stessa deriva.
Riguardo il grado di norma costituzionale due sentenze della corte costituzionale attribuiscono grado costituzionale a tali norme. A favore di questa tesi vi è un argomento di teoria generale: nel caso di rinvio tra norme, la norma verso la quale è compiuto il rinvio dovrebbe assumere lo stesso grado gerarchico della norma rinviante.
Tale argomento si scontra però con il principio della rigidità della costituzione fissata dall’articolo 138, secondo il quale ogni modifica o deroga a disposizioni formalmente costituzionali, deve avvenire secondo un procedimento aggravato, previsto dall’articolo 138. Se l’esercizio del potere di revisione costituzionale costituisce una delle espressioni del principio di sovranità, una deroga ad esso deve essere considerata come una limitazione della stessa sovranità e ciò può legittimamente avvenire soltanto in presenza di una norma costituzionale che tale possibilità prevede espressamente. In conclusione sembra preferibile la qualificazione delle norme create sulla base dell’articolo 10, come norme interposteà cioè non intaccano la valenza delle norme costituzionali, garantito dal principio di rigidità costituzionale, ma allo stesso tempo sancisce la prevalenza delle norme suddette su tutte le norme contenute in leggi o atti aventi forza di legge.
c) il rinvio operato dal diritto internazionale privato (recezione di norme, di fonti o di criteri?). Norme di diritto internazionale privato.
Tali norme sono quelle che in un ordinamento giuridico statale al fine di disciplinar determinati rapporti privatistici che presentano elementi di estraneità rispetto tale ordinamento, rinviano alle norme di ordinamenti stranieri sulla base di criteri comunemente definiti come criteri di collegamento. Legge 31 maggio 1995, n. 218, “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”.
Il diritto internazionale privato rappresenta un modo indiretto di creazione del diritto. Tale fenomeno dovrebbero comportare che faccia parte in modo permanente dell’ordinamento interno. Tuttavia vi è un dubbio nel rinvenire tale elemento nel caso del diritto internazionale privato. L’articolo 15 della medesima legge stabilisce che le leggi straniere sono applicate secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo. Sembra preferibile per tanto aderire ad una recente diversa concezione delle norme del diritto internazionale privato, dove ci si limita ad introdurre in un dato ordinamento criteri sostanziali, ricavati da norme straniere ed applicabili caso per caso, per la risoluzione di controversie tra privati.
6. I rapporti tra fonti: il principio della gerarchia ed il principio della competenza;
I rapporti tra diverse fonti possono essere regolati sulla base dei principi della gerarchia o della competenza, oppure con la commistione dei due principi.
Secondo il principio della gerarchia, si deve presupporre che talune fonti siano tra loro ordinabili secondo criteri di sotto e sopra ordinazione, sia in riferimento all’atto, riconducibile ad una determinata fonte, quanto alle disposizioni che la compongono e delle norme che da queste si ricavano.
Dell’attuale ordinamento giuridico italiano vi sono le fonti di grado costituzionale, le fonti di grado legislativo, e le fonti di grado amministrativo. Tale scala gerarchica si desume dall’articolo 138 in relazione alla costituzione alle leggi costituzionali che sono abrogate soltanto da leggi costituzionali con procedimento aggravato, in base all’articolo 15 delle preleggi secondo il quale le leggi non sono derogate che da leggi posteriori, e per i regolamenti amministrativi dell’articolo 4 delle preleggi secondo il quale i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi
Il principio della competenza, presuppone l’esistenza di una norma, contenuta in una fonte di grado superiore che assegni sfere di operatività distinte a fonti diverse, di grado inferiore, sfere di operatività che possono riguardare le materie di spettanza dell’una o dell’altra fonte, oppure il diverso modo di intervento nella disciplina di una stessa materia attribuito all’una o all’altra fonte. Si può avere una ripartizione di competenza per materia come quella tra legge statale e leggi regionali oppure una ripartizione di competenza basata sul diverso modo di intervento, in base alla quale spettano alle leggi statali, il compito di porre principi fondamentali per una determinata materia, mentre spetta alle leggi regionali il compito di definire in concreto tale disciplina.
la riserva di legge;
Un caso particolare di ripartizione di competenza è la riserva di legge, che ricorre quando una norma costituzionale attribuisce soltanto alla fonte legge il potere di disciplinare una determinata materia con esclusione dell’intervento di fonti subordinate. La riserva di legge dunque esclude l’intervento di fonti di grado inferiore. E’ variamente graduata in base al grado di esclusione delle fonti inferiori.
- Riserva di legge relativa quando è sufficiente che la legge fissi la disciplina di principio di una determinata materia nell’ambito della quale potranno intervenire regolamenti (i regolamenti amministrativi).
- Riserva di legge assoluta quando tutta la disciplina di una materia deve essere stabilita dalla legge e l’intervento dei regolamenti amministrativi è limitato alla mera esecuzione, se necessaria, della legge.
- Riserva di legge rinforzata quando la norma costituzionale, stabilendo un caso di riserva assoluta, predetermina altresì in qualche sua parte il contenuto della legge che dovrà disciplinare la materia.
La funzione del principio di gerarchia e del principio di competenza è quello di risolvere le Antinomie, cioè i possibili contrasti tra norme, nell’ambito di uno stesso ordinamento giuridico, al fine di garantire la certezza del diritto.
q Contrasto tra fonti: diversità di conseguenze, a seconda che il rapporto si svolga tra fonti di diverso grado gerarchico o che abbiano una diversa sfera di competenza.
Nel rapporto tra norme di grado diverso il principio della gerarchia, opera affermando che la norma di grado inferiore cede, nei confronti della norma di grado superiore. Questo concetto è meno evidente tra norme contenute in fonti cui i rapporti sono disciplinati dal principio di competenza.
Anche in questo caso l’antinomia viene risolta ricorrendo alla soluzione di un’altra antinomia tra norme di grado diverso, stabilendo cioè quali delle 2 norme contrastanti contrasta a sua volta con la norma di grado superiore che fissa le competenze dell’una e dell’altra fonte.
Si può inoltre precisare che tale contrasto può essere:
- Diretto, quando si manifesta tra norme contenute in fonti i cui rapporti reciproci sono regolati dal principio della gerarchia.
- Indiretto, quando si manifesta tra norme contenute in fonti i cui rapporti sono regolati dal principio della competenza.
Legittimità (validità)à l’assenza di antinomie e dunque la conformità tra norme di diverso grado si definisce con il termine validità o legittimità: una norma è valida o legittima: quando è conforme a quanto stabilito da norme di grado superiore.
Illegittimità (invalidità) formale e sostanzialeà il contrasto tra norme di diverso grado si definisce con il termine invalidità o illegittimità: una norma è invalida o illegittima, quando contrasta con quanto stabilito da una norma di grado superiore.
Illegittimità originariaàquando il contrasto si verifica nei confronti di norme di grado superiore già esistenti, per cui si può affermare che l’atto o la disposizione o la norma sono illegittimi fin dal momento della loro entrata immissione all’interno dell’ordinamento.
Illegittimità sopravvenutaàquando il contrasto si verifica nei confronti di norme di grado superiore create in un momento successivo rispetto all’atto, alla disposizione o alla norma di grado inferiore, per cui si può affermare che questi nascono legittimi e diventano illegittimi in un momento successivo.
L’antinomia prodotta da una norma illegittima viene risolta attraverso l’eliminazione dall’ordinamento di quest’ultima. Nell’ordinamento italiano, le leggi e gli atti aventi forza di legge contrastante con norme di grado costituzionale sono oggetto di sentenze della corte costituzionale che ne dichiara l’illegittimità costituzionale; diversamente, i regolamenti amministrativi illegittimi vengono annullati dal giudice amministrativo (Tribunali amministrativi regionali o Consiglio di Stato).
L’inesistenza di un atto normativo: un atto che, per carenza di determinati elementi ad esso essenziali non è riconoscibile come appartenente ad una specificata categoria di atti, prevista da una norma di grado superiore.
Abrogazione, sospensione e deroga.
Bisogna considerare l’ipotesi di antinomia tra atti normativi, disposizioni o norme, aventi lo stesso grado gerarchico. In questo caso soccorre il criterio cronologico, in base al quale la norma successiva nel tempo, prevale sulla norma anteriore di pari grado: tale fenomeno si designa con il termine abrogazione.
L’articolo 15 delle disposizioni preliminari al cod civ, è intitolato per l’appunto “abrogazione delle leggi”. L’abrogazione può essere di tre tipi:
- abrogazione espressa: solo quando la legge successiva espressamente disponga l’abrogazione di quella precedente o di soli alcuni articoli
- tacita: manca una dichiarazione espressa di abrogazione e deve necessariamente sussistere una situazione di incompatibilità tra norme.
- per nuova disciplina di una materia: manca una dichiarazione espressa di abrogazione ma non deve necessariamente sussistere una situazione di incompatibilità tra norme, quando una legge regoli per intero una materia già regolata da un’altra legge anteriore
Il presupposto di tali abrogazioni è il criterio cronologico, in base al quale, tra due norme di pari grado tra loro contrastanti prevale quella successiva nel tempo. per quanto riguarda l’abrogazione tacita il principe cronologico funziona solo in modo relativo, nel senso che può prevalere anche un diverso criterio, quello di specialità, in base al quale la norma anteriore speciale non viene abrogata da una norma posteriore generale. Tuttavia il nocciolo del problema risiede sempre nel problema dell’ interpretazione della norma posteriore. Dall’osservazione della realtà dei fatti il rapporto tra la norma anteriore speciale ed una regola posteriore generale, esclude nella maggior parte dei casi fino a prova contraria la finalità di abrogazione della prima regola da parte della seconda.
Abrogazione con efficacia retroattiva
L’articolo 11 delle disposizioni preliminari al cod civ, intitolato “l’efficacia della legge nel tempo”. Tale disposizione nega che l’abrogazione abbia efficacia retroattiva. Tuttavia se si considerano che le disposizioni sulla legge in generale, hanno lo stesso grado gerarchico della legge ordinaria, nulla vieta ad una legge successiva di derogare al divieto di cui al citato articolo 11. Tale norma, ha pertanto un valore non cogente ma soltanto direttivo, nei confronti delle leggi successive, si risolve si nell’obbligo di interpretare come prive di efficacia retroattiva le disposizioni della legge che non dichiarino espressamente di voler produrre effetti anche per il passato.
Un limite assoluto alla possibile efficacia retroattiva della legge riguarda invece le leggi penali, in quanto l’articolo 25 della costituzione “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che si entrata in vigore prima del fatto commesso”, principio del favor rei.
Si ha sospensione quando una norma successiva sospenda per un periodo di tempo determinato l’efficacia di una o più norme anteriori, per cui gli elementi caratterizzanti sono la temporaneità e la provvisorietà;
si ha deroga quando una norma successiva stabilisca che la disciplina generale stabilita da una precedente norma, non si applichi in via definitiva a determinate fattispecie, per cui si può dire che l’elemento caratterizzante della deroga sia la sua definitività.
Il principio generale secondo cui si ha invalidità-illegittimità nel caso di contrasto tra norme di diverso grado ed abrogazione nel caso di contrasto tra norme di pari grado, subisce due eccezioni delle quali occorre tener conto:
- Prima eccezione rappresentata dal caso di una legge costituzionale, in regime di costituzione rigida, o di una legge ordinaria in regime di costituzione flessibile, approvate in contrasto con le norme sul rispettivo procedimento di formazione contenute in costituzione. Anche se il contrasto si verificherà in ambedue i casi, tra fonti di pari grado non si può parlare di abrogazione tacita. Ne deriva da un lato l’impossibilità di parlare di deroga tacita, data l’inesistenza di un atto idoneo a produrre tale deroga.
Seconda eccezione, perché escludere che una successiva norma di grado superiore possa essa stessa risolvere il suo contrasto con norme anteriori di grado inferiore, dichiarando l’abrogazione di queste ultime? Da un punto di vista astratto non vi è alcuna ragione logica che giustificano tale esclusione. La questione invece è più complessa qualora non vi si abrogazione espressa, ma tacita.
Vigenza, efficacia ed effettività.
L’entrata in vigore di un atto normativo individua il momento in cui l’atto entrando a comporre l’ordinamento è potenzialmente in grado di produrre effetti;
la sua efficacia, individua la concreta produzione di effetti da parte dell’atto.
La vigenza si riferisce quindi all’atto nel suo complesso, mentre l’efficacia alle singole disposizioni in esso contenute: il momento della produzione di effetti da parte di singole disposizioni, può non coincidere con il momento dell’entrata in vigore dell’atto che le contiene.
Per le effettività si intende il requisito primario di esistenza di una norma giuridica, che si distingue dall’efficacia che individua la capacità attuale di produrre effetti da parte di una norma giuridica.
7. Il problema dei cosiddetti autovincoli legislativi: sua attualità alla luce di alcune leggi che li hanno previsti.
Gli autoveicoli legislativi o le auto-obbligazioni del legislatore. Riguardano l’ammissibilità e l’eventuale valore dei vincoli stabiliti da una fonte nei confronti del procedimento, del contenuto o più in generale, della capacità abrogativa di fonti successive del stesso grado.
Il fenomeno ha riguardo essenzialmente la fonte ordinaria. Come esempi si possono ricordare la legge dell’11 luglio 1913, n.985, che in ordine ad una concessione di grandi derivazioni di acque pubbliche prevedeva l’uso gratuito delle acque per tutta la durata della concessione, con ciò impedendo implicitamente alle leggi successive, di stabilire un canone a carico del concessionario per il suddetto periodo.
Impostazione del problema in astratto: ammissibilità sia di limiti procedimentali, sia di limiti sostanziali;
Tuttavia problema di fondo rimane sempre lo stesso: quali misure e con quale grado di vincolatività può prescrivere limiti nei confronti di fonti successive aventi il suo stesso grado gerarchico?
La soluzione al problema è stata trovata dalla dottrina tedesca, secondo cui le condizioni di validità di una norma possono essere stabilite soltanto da una norma di grado superiore; ne consegue la superiorità gerarchica delle norme sulla produzione rispetto alle norme così prodotte e l’inammissibilità per una norma, di regolare autonomamente sia le condizioni della propria formazione, che della propria modificabilità. Alla base dell’affermazione secondo cui le norme sulla produzione devono sempre considerarsi gerarchicamente superiori alle norme così prodotte, vi è, l’esigenza molto concreta di rendere vincolanti le prime nei confronti delle seconde. Esigenza, pienamente condivisibile poiché attribuire carattere meramente direttivo alle norme sulla produzione, eliminerebbe, la loro funzione di regole procedimentali finalizzate alla riconoscibilità formale delle norme successivamente create.
Laddove si riuscisse a dimostrare la possibilità che le norme sulla produzione sono vincolanti nei confronti della norme così prodotte in una situazione di parità gerarchica tra le norme suddette.
Tale dimostrazione già stata data nel paragrafo precedente.
Le norme costituzionali sul procedimento così come le corrispondenti norme ordinarie, in regime di costituzione flessibile, possono essere abrogate in modo espresso per il futuro soltanto da leggi approvate nelle forme e nei modi da esse previsti.
Prima di risolvere il problema, sono necessarie alcune premesse:
- Vincoli formali sono vincoli esclusivamente procedimentali;
- vincoli sostanziali attengono invece al contenuto in senso lato dell’atto normativo, sono quindi comprensivi tanto di vincoli nei confronti delle specifiche disposizioni, quanto dei vincoli alla capacità abrogativa del suddetto atto normativo.
vincolatività dei primi e derogabilità dei secondi.
La seconda premessa riguarda la necessità di valutare il problema degli auto-vincoli legislativi in maniera distinta dal punto di vista astratto.
I vincoli procedimentali (o formali) hanno carattere cogente; i vincoli sostanziali né sono del tutto privi in virtù del criterio cronologico in base al quale la norma successiva nel tempo, prevale su una norma anteriore di pari grado. In quest’ultimo senso e soltanto in questo è esatta l’affermazione secondo cui la validità sostanziale di una norma a differenza della validità formale, può essere stabilita soltanto da una norma di grado superiore. I vincoli sostanziali pur essendo in astratto ammissibili, sono in linea di principio derogabili.
Impostazione del problema nell’attuale ordinamento giuridico italiano: inammissibilità degli eventuali limiti procedimentali stabiliti da leggi ordinarie nei confronti di leggi successive alla luce delle norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo e della riserva in favore dei regolamenti parlamentari dalle stesse prevista; ammissibilità di limiti sostanziali e loro valore derogabile a meno che essi non siano riconducibili a principi ricavabili da norme costituzionali
Nell’attuale ordinamento giuridico italiano la situazione è molto diversa da quella fin qui designata poiché la costituzione da una parte, decide direttamente procedimento di formazione delle leggi e per l’altra ne limita in via esclusiva, l’esecuzione e l’integrazione alla fonte regolamento parlamentare: il carattere rigido della costituzione e la riserva di regolamento parlamentare escludono pertanto in modo tassativo che altre fonti possano disciplinare il procedimento legislativo. Ne consegue inammissibilità di auto-vincoli di carattere procedimentale, che sarebbero incostituzionali.
La conclusione diversa nell’ipotesi di vincoli procedimentali posti da una legge ordinaria nei confronti dei due atti con forza di legge espressamente previsti dalla costituzione, i decreti legge e il decreto legislativo. Al riguardo resta fermo pertanto quanto osservato in precedenza.
Quanto ai vincoli di carattere sostanziale alle considerazioni appena concluse sul piano astratto rimangono immutate anche con riferimento al diritto positivo italiano, l’unica eccezione è costituita da quelle leggi che siano legate alla costituzione da un particolare nesso: sono veramente ripetitive di disposizioni formalmente costituzionali
CAPITOLO 2
LE FONTI COSTITUZIONALI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO
1. Costituzioni flessibili e Costituzioni rigide. La rigidità dell’attuale Costituzione italiana ed il tipo di sistema di revisione costituzionale previsto dall’art. 138 Cost. La duplice funzione di garanzia di tale disposizione: garanzia della rigidità e della stabilità della Costituzione.
L’unica distinzione giuridicamente rilevante:
- la costituzione flessibile è caratterizzata dal fatto che la propria modifica non richiede un procedimento particolare ma può essere compiuta per mezzo di leggi ordinarie, dal che si può dire che, la costituzione flessibile è essa stessa una legge ordinaria o comunque ha lo stesso grado gerarchico di quest’ultima.
- La costituzione rigida è caratterizzata in negativo, dal fatto di non poter essere modificata dalla legge ordinaria e in positivo dal fatto che il procedimento della sua modifica è necessariamente diverso è più complesso è stata procedimento legislativo ordinario.
La precedente costituzione italiana il cosiddetto statuto Albertino concesso dal re Carlo Alberto di Savoia nel 1848 fu certamente una costituzione flessibile.
L’articolo 138 della nostra odierna costituzione, diversificando il procedimento della revisione costituzionale dal procedimento legislativo ordinario, attribuisce carattere rigido all’attuale costituzione italiana, ed esclude pertanto che essa possa essere validamente modificata, derogata o comunque contrastata da leggi ordinarie.
L’articolo 138 è collocato nel titolo VI della costituzione, “garanzie costituzionali”. Assicura altresì una maggiore stabilità nel tempo alle disposizioni costituzionali: stabilità che varia a seconda del grado di complessità della procedura di revisione costituzionale. Le classificazione dei possibili sistemi di revisione costituzionale sono molto numerosi.
Il sistema di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 può essere definito un sistema misto. L’organo titolare della revisione costituzionale è lo stesso organo al quale spetta la funzione legislativa ordinaria, ma l’approvazione delle leggi costituzionali avviene a seguito di una duplice deliberazione da parte di ciascuna camera con un intervallo non minore di tre mesi.
Inoltre la seconda deliberazione è necessaria o:
la maggioranza assoluta à la legge viene soltanto pubblicata e da tale momento comincia decorre il termine di tre mesi entro il quale può essere richiesto il referendum popolare, da parte di 1/5 dei membri di una camera, di 500.000 elettori di cinque consigli regionali.
due terzi dei componentiàla legge costituzionale definitivamente approvata dovrà essere successivamente promulgata e pubblicata.
– 2. Leggi costituzionali e leggi di revisione della Costituzione: posizione del problema della loro eventuale distinzione e possibili conseguenze che ne derivano. Critica delle opinioni secondo cui l’art. 138 Cost. distinguerebbe le leggi di revisione della Costituzione e le leggi costituzionali secondo l’oggetto proprio di ciascuna di esse.
La categoria delle leggi costituzionali è disciplinata in generale dall’art. 138 della costituzione il quale prevede nei loro confronti una procedimento di formazione più complesso rispetto al procedimento legislativo ordinario regolato dagli articoli 70 e seguenti. Tuttavia nella sua formulazione sembra introdurre almeno apparentemente, una distinzione tra leggi costituzionali e le leggi di revisione della costituzione, che tale articolo accomuna sotto il profilo procedimentale senza fornire altri connotati differenziali. Ciò ha fatto presumere l’esistenza di una distinzione per quanto riguarda l’oggetto tra i vari tipi di legge, facendo discendere una possibile separazione di competenza tra leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali, la cui violazione comporterebbe l’illegittimità della legge irrispettosa della propria sfera di competenza.
Le leggi di revisione della costituzione sono soltanto quelle leggi che, in conformità al proprio titolo o in dipendenza del significato globale delle prime disposizioni, si inseriscono, modificandolo, nel testo della costituzione.
Le leggi costituzionali, proprio perché non possono modificare il testo della costituzione non essendo leggi di revisione, possono però “rompere” e sospendere disposizioni della costituzione.
La contrapposizione non determinerebbe, però secondo alcune opinioni, l’invalidità di eventuali leggi costituzionali che, senza immettersi nel testo della costituzione, volessero creare disposizioni costituzionali stabili e fondamentali: essi sarebbero infatti, soltanto anticipazione di una futura legge di revisione e perciò come provvedimenti provvisori correttamente presi nella via della legge costituzionale.
La tesi indicata però fa sorgere alcune perplessità, poiché queste leggi costituzionali senza immettersi nel testo della così vogliono in realtà creare disposizioni stabili e non soltanto transitorie o di deroga. Sembra infatti difficile definire come provvedimento provvisorio un atto che pretende di porre in essere disposizioni stabili e che non presenta alcun elemento né formale nè sostanziale che suffraghi la sua ipotetica provvisorietà. Tale tesi infatti è stata respinta.
Un altro tentativo di rinvenire nell’articolo 138 una distinzione tra leggi di revisione e altre leggi costituzionali, è stato compiuto nel senso di ricomprendere il concetto di leggi di revisione oltre alle leggi che modificano la costituzione o leggi costituzionali già esistenti, anche le leggi costituzionali che il Parlamento adotti con libera scelta per disciplinare materie non regolate da precedenti fonti costituzionali coperte da riserve di legge costituzionale.
Leggi costituzionali sarebbero, residualmente, soltanto quelli la cui adozione è specificatamente prevista dalla stessa costituzione, articoli 71, 116 ecc… e che da quest’ultima sono vincolati ad un determinato contenuto, consistente nell’integrazione secondum costitutionem delle disposizioni costituzionali che le richiamano.
Da tali premesse definitorie si conclude per l’invalidità di quelle leggi costituzionali che, pur richiamandosi alle disposizioni costituzionali che le prevedono, non si limitano all’integrazione di queste ultime bensì pretendono di modificare, di sospendere o di derogare ad esse.
Come nel caso precedente anche questa seconda opinione sembra eccessiva perché considera leggi di revisione, quelle leggi costituzionali, che costituzionalizzano materie che altrimenti avrebbero potuto essere disciplinate dal legislatore ordinario. Il concetto di revisione infatti va riferito non tanto a variazioni in aumento del numero delle materie costituzionali, quanto piuttosto variazioni del contenuto normativo di quei testi.
Gli argomenti contro la tesi che sostiene l’esistenza di distinte sfere di competenze riservate alle leggi di revisione della costituzione e delle leggi costituzionali sono numerosi.
q In primo luogo, l’identità del procedimento di formazione previsto dall’articolo 138 sia per le leggi di revisione che per le leggi costituzionali, che costituisce un rilevante indizio di un eguale ambito di competenza di tali leggi.
q In secondo luogo sotto il profilo formale, mentre la numerazione delle leggi ordinarie e quelle leggi costituzionali viene tenuta distinta, ciò non si verifica delle leggi di revisione e le leggi costituzionali la cui numerazione è comune, sotto l’unica denominazione di leggi costituzionali; così come comune è la formula di promulgazione, sia delle leggi di revisione che delle leggi costituzionali.
q In terzo luogo sottostante profilo testuale, l’espressione le leggi di revisione della costituzione e le altre leggi costituzionali impiegata nell’articolo 138 fa presumere che anche le leggi di revisione rientrano nella categoria di leggi costituzionali; altrimenti sarebbero del tutto prive di senso l’uso dell’aggettivo “altri”.
q In quarto luogo sotto il profilo sostanziale, esistono disposizioni della costituzione che incidono anche su leggi costituzionali, le quali sono certamente anche leggi di revisione della costituzione. Una disposizione di questo genere è quella contenuta nell’art 132 della costituzione poiché le leggi dispongono espressamente la fusione di regioni esistenti nella creazione di nuove regioni, modificando implicitamente l’elencazione delle regioni italiane contenuta nell’articolo 131 della costituzione.
Gli argomenti addotti hanno spinto a ritenere che nel nostro ordinamento debba negarsi l’esistenza di sfere di competenza distinte per le leggi di revisione e per le leggi costituzionali, anche se essa avrebbe potuto trovare un germe di sviluppo nella terminologia differenziata dell’articolo 138.
Per un’ ulteriore conferma si può fare riferimento allo spirito dei lavori preparatori dell’articolo 138, dove nell’assemblea costituente l’onorevole Perassi, fa riferimento alla disposizione “altre leggi costituzionali”, il quale venne aggiunto nell’articolo 138 non per operare una separazione di competenza tra esse e leggi di revisione della costituzione bensì per evitare che la sola menzione di questi ultimi potesse comportare l’inapplicabilità delle procedure fissate dall’articolo 138, nei confronti di quelle leggi costituzionali, già previste da altre disposizioni della costituzione che non implicano revisione.
Ipotesi di riserve di legge costituzionale espressamente previste dalla Costituzione; critica della tesi secondo cui esisterebbe una generale riserva di legge costituzionale per la materia costituzionale. Ipotesi sulle quali l’intervento delle leggi costituzionali è implicitamente vincolato. I limiti delle leggi costituzionali.
Le altre leggi costituzionali alle quali si riferisce l’articolo 138 sono anzitutto quelle previste espressamente da specifiche disposizioni della costituzione, su determinati oggetti rispetto ai quali, quelle disposizioni danno luogo ad altrettanti casi di riserva di legge costituzionale.
Inaccettabile è la tesi secondo la quale le altre leggi costituzionali hanno ampliato il numero delle materie che pur non essendo contenute nella costituzione in senso formale, rivestono il carattere della costituzionalità materiale.
Tuttavia l’affermazione è smentita da un duplice punto di vista:
v In sede logica perché di per sé la circostanza che la costituzione abbia disciplinato solo in parte un oggetto, rimettendosi per le minute regole di attuazione di esecuzione alla legge, prova in via di principio che solo la parte dell’oggetto posto in costituzione è materialmente costituzionale.
v In sede di interpretazione testuale perché è la costituzione stessa in tali circostanze a rivestire rigidamente le leggi ordinarie ed in alcuni casi addirittura contrappone a questo diverso strumento la legge costituzionale.
In questo senso la previsione espressa da parte di disposizioni della costituzione, di materie riservate alle leggi costituzionali dovrebbe portare ad escludere che nè possano sussistere altre individuabili sulla base di un criterio così vasto così difficilmente definibile sul piano concreto quale quello della costituzione materiale. Inoltre dal rilievo che tra i casi di riserva di legge costituzionale sono comprese materie aventi carattere della costituzionalità materiale dovrebbe desumersi che soltanto per esse non per altri l’ordinamento ha inteso stabilire in via di principio la necessità e non invece la semplice facoltà di osservare tutto.
La negazione di una separazione di competenza tra leggi di revisione della costituzione e leggi costituzionali, comporta, che ogni legge costituzionale contiene in sé, una legge di revisione. Da ciò consegue che per esse sussistono i cosiddetti limiti della revisione costituzionale.
Resta altresì dimostrata la possibilità di rotture della costituzione cioè di deroga per fattispecie determinate ad una norma della costituzione, che rimane in vigore per tutte le altre fattispecie da esse regolate poiché, essendo la deroga nient’altro che un’abrogazione parziale, la potenziale capacità delle leggi costituzionali di abrogare le disposizioni della costituzione comporta un’eguale capacità di apportarvi deroghe.
Sembra pertanto che si possa escludere che nel nostro ordinamento le leggi costituzionali di deroga, incontrino in determinate ipotesi limiti diversi da quelli che si pongono per la revisione costituzionale. Per contro le uniche ipotesi nella quale sussistono per le leggi costituzionali limiti diversi ed aggiuntivi rispetto ai limiti che valgono per le leggi di revisione costituzionale sembra essere quella relativa alle leggi costituzionali, con le quali, ai sensi dell’articolo 116 della costituzione, sono stati adottati gli statuti delle regioni ad autonomia speciale.
Tali leggi attribuendo forme e condizioni particolari di autonomia alle cinque regioni elencate nell’articolo 116, devono ritenersi autorizzati, per il raggiungimento di quel fine, ad apportare deroghe soltanto alle disposizioni stabilite in generale, per tutte le regioni del titolo V, della costituzione. È da escludere la possibilità di derogare a quelle disposizioni dello stesso titolo V, che caratterizzano l’istituto regionale nelle sue linee fondamentali, perché deroghe del tipo indicato sono implicitamente vietate dall’articolo 116 che vincola gli statuti regionali speciali ad operare nell’ambito del concetto di autonomia programmato dall’articolo 5, e ribadito dall’articolo 115.
– 3. I limiti della revisione costituzionale:
È affermazione corrente è d’altronde incontestabile che la revisione costituzionale può incontrare dei limiti:
v I limiti testuali, si intendono tutti quei limiti ricavabili dal testo della costituzione, non importa se espressamente o implicitamente: un limite espresso può essere quello posto dall’articolo 139; un limite implicito può essere quello dell’articolo 2 della costituzione che fa riferimento ai diritti inviolabili.
v I limiti impliciti o taciti si intendono invece, tutti quei limiti che sarebbero per definizione connaturati al concetto stesso di ordinamento giuridico statale, talché essi sussisterebbero, sempre e comunque, del tutto indipendentemente dal fatto di essere o meno esplicitati nel testo della costituzione.
Un’ulteriore distinzione:
v Valore assoluto dei limiti della revisione costituzionale, significa ritenere che essi non possono in alcun modo essere legalmente superati nell’ambito dell’ordinamento al quale si riferiscono e che pertanto la loro violazione costituisce comunque un’atto rivoluzionario del quale consegue, in caso di successo, un mutamento dell’identità dello Stato.
v Valore relativo di limiti, significa ritenere che essi, pur essendo insuperabili per la normale funzione di revisione costituzionale, lo sono invece qualora si ricorra a revisioni aggravate o diverse rispetto a quella prevista dall’ordinamento.
Critica delle tesi che ammettono l’esistenza di limiti impliciti con valore assoluto. Il valore relativo del limite fissato dall’art. 139 Cost.: suoi possibili significati. L’interpretazione del divieto di revisione della forma repubblicana.
La teoria dei limiti taciti trova fondamento nell’affermazione della diversità e necessaria superiorità del potere costituente rispetto al potere di revisione costituzionale, in quanto potere costituito. Tale fondamento è però illusorio:
- se si considera il riferimento alla straordinarietà dell’organo costituente che non è più praticabile, laddove sussista una perfetta identità tra organo costituente e organo di revisione;
- la specialità del procedimento non può essere adottato a sostegno della superiorità del potere costituente rispetto quello di revisione quando quest’ultimo debba essere esercitato secondo procedimento più complesso di quello seguito in sede costituente.
Altre critiche si possono muovere se la diversità gerarchica tra potere costituente e potere di revisione costituzionale si volesse fondare sulla diversità di funzioni proprie di ognuno di essi, considerando la funzione costituente come una funzione caratterizzata da un illimitata libertà di produzione, a fronte di un più ristretto raggio di azione della funzione di revisione, che fondandosi sulla costituzione perciò traendo la propria origine dalla funzione costituente, non avrebbe titolo per sostituirsi a quest’ultima, ma potrebbe operare soltanto nell’ambito che le è stato assegnato.
Il presupposto della onnipotenza della funzione costituente è storicamente smentita dal fatto che vi era una decisione pre esistente che vincolava la funzione costituente, cioè la scelta della forma repubblicana nel referendum popolare. La conclusione della necessaria limitatezza del potere di revisione costituzionale è anch’essa storicamente smentita tanto da quelle ipotesi nelle quali è la stessa costituzione che prevede la possibilità di una revisione totale, quanto, inversamente, da quell’ipotesi nelle quali, volendosi vietare la possibilità di una revisione totale, tale divieto si è dovuto positivamente ed espressamente stabilire.
Gli sviluppi recenti della problematica in esame si spostano allo scopo di arrivare dimostrare la subordinazione della funzione di revisione alla funzione costituente. In questo senso, si ritiene che la funzione costituente desuma la propria superiorità nei confronti della funzione di revisione non tanto della propria il limitatezza originale, ma piuttosto in quanto strumento di espressione di principi fondamentali immodificabili in forma legale, pena il mutamento dell’identità dello Stato.
Tali principi sono individuati nella decisione totale unitaria sulla specie e forma di governo dello Stato, nei fini politici fondamentali sostenuti e attuati dalle forze politiche e nella limitazione e razionalizzazione della forza nelle norme interne della costituzione.
(TESI DI MERKL) La tesi indicata incontra un primo ordine di difficoltà, quando si tratta di individuare concreti singoli limiti impliciti della revisione costituzionale in uno specifico ordinamento. Si oscilla infatti da un estremo ad un altro: vi possono essere un limite tacito generale o troppo astratto, limiti taciti così dettagliati da riferirsi alla maggior parte delle disposizioni, limiti taciti che possono essere irrimediabilmente smentiti da quelle costituzioni che prevedono la propria revisione totale; oppure limiti alla revisione costituzionale difficilmente individuabili.
(TESI DI ROSS) La tesi della necessaria sussistenza di limiti taciti della revisione costituzionale dotati di valore assoluto è stata peraltro sostenuta partendo da presupposti completamente diversi da quelli fin qui considerati, e cioè da presupposti normativistici.
Un primo tentativo in tal senso parte dalla critica dell’automatica operatività del principio secondo il quale la legge posteriore deroga a quella precedente, per arrivare all’affermazione di diverso principio secondo cui la modificabilità di ciascun tipo di norme è condizionata all’esistenza di un’esplicita norma di deroga che per ciascun tipo prevede espressamente tale possibilità. L’illustrato tentativo deve considerarsi fallito poiché oltre alla impossibilità di riuscire ad individuare in concreto quale sia la norma che dispone la possibilità di deroga che costituisce il limite tacito alla revisione costituzionale, esso conduce inevitabilmente e contro ogni realtà storica a ritenere del tutto immodificabile quelle costituzioni flessibili che tacciono in ordine alla propria revisione.
Un secondo tentativo è rappresentato dalla tesi secondo la quale le norme sulla revisione costituzionale si porrebbero sempre come limite tacito legalmente insuperabile. A tale conclusione si darebbe attraverso una serie di proposizioni tra loro concatenate: la grundnorm dell’ordinamento giuridico la cui validità deve essere presupposta come norma finale suprema dell’ordinamento; una norma è valida se corrisponde alle condizioni di forma e di contenuto stabilite da una norma di grado superiore; è da escludere che una norma possa regolare le condizioni della propria validità poiché per necessità logica tali condizioni devono essere fissate da una norma di grado superiore; le regole per la modifica di una norma rientrano tra le disposizioni costitutive di essa e quindi le sono necessariamente superiori al pari delle condizioni per la sua formazione. Se l’applicazione di tali concetti conduce in regime di costituzione individuale nella norma sulla revisione la gronda norma dell’ordinamento.
Inoltre l’affermata automatica specularità tra condizioni di formazione e condizioni di modificabilità di uno stesso tipo di norme non sempre sussiste in diritto positivo e dunque non può essere assunta come regola generale. Un esempio è l’articolo 75 dove il popolo ha la facoltà di abrogare mediante referendum, ma prevede altre condizioni di modificabilità delle stesse.
Tuttavia al di là degli argomenti specifici fin qui addotti contro le diversi tesi che ammettono l’esistenza di limiti taciti della revisione costituzionale che attribuiscono ad essi valore assoluto, occorre rendersi conto che questa conclusione deriva dalla ricostruzione che ognuno ritenga di dare del concetto di ordinamento giuridico statale. La definizione di ordinamento giuridico statale accolta, è basato sul principio di affettività, e comporta le seguenti conseguenze: i limiti della revisione sono soltanto quelli testuali il loro valore è relativo e non assoluto, la loro violazione non determina la frattura della continuità dello Stato.
Nell’attuale ordinamento giuridico italiano il valore relativo dei limiti della revisione costituzionale è stato inteso in due sensi.
Interpretandosi in senso letterale i divieti di revisione contenuti in costituzione come disposizioni che escludono il ricorso in quelle determinate ipotesi alla procedura dell’articolo 138 della costituzione, si è ritenuto possibile superare i limiti testuali soltanto con un nuovo intervento dell’organo costituente e con le stesse modalità seguite al momento della formazione della costituzione.
L’articolo 139 della nostra costituzione, perciò, sarebbe superabile soltanto qualora il mutamento della forma repubblicana avvenisse ad opera di una referendum popolare istituzionale, analogo a quello del 2 giugno del 46. Questo risulta inapplicabile in quanto non si prevedono gli stessi strumenti ai quali si era ricorso alla nascita della costituzione. E quindi non è prevista la possibilità di indire un referendum popolare istituzionale. Occorrerebbe perciò preliminarmente modificare con legge costituzionale approvata ai sensi dell’articolo 138, il sistema di revisione costituzionale attualmente vigente aggiungendo o sostituendo ad esso lo strumento del referendum popolare istituzionale. La necessità di ricorrere ad un doppio grado di revisione appare ovvia. La presenza in costituzione di divieti espressi di modificare alcune disposizioni opererebbe nel senso di imporre la previa rimozione del divieto per incidere sulle disposizioni protette
All’obiezione secondo cui la tesi del doppio grado costituirebbe un artificio formalistico, poiché l’abrogazione della norma limitatrice determinerebbe già di per sé una violazione, si può ribattere in generale che la capacità di porre norme limitative, implica in generale la capacità di rimuoverle.
Un’obiezione opposta, vi è, secondo cui il doppio grado sarebbe inutile poiché la parità gerarchica tra costituzione e leggi di revisione consentirebbe la diretta modifica della norma garantita attraverso la deroga tacita alla norma imitatrice.
Se si accetta la premessa secondo la quale i limiti della revisione costituzionale sono soltanto quelli di tipo testuale, si deve verificare se oltre all’ipotesi espressamente prevista dall’articolo 139, siano rintracciabili in costituzione richiami testuali impliciti che consentono di definire ulteriori ipotesi di limiti. Tale quesito anche se la risposta ad esso sembra debba essere negativa, si pone soltanto a fronte dell’espressione “inviolabili” usata dall’articolo 2 della costituzione nei confronti dei diritti dell’uomo, successivamente specificate dagli articoli 13, 14, 15 e 24 della costituzione.
Si è infatti osservato che l’identificazione di inviolabili con il irrivedibili, richiede che si dimostri prima inequivocabilmente che la revisione equivale a violazione, il che in una costituzione rigida lo si può senz’altro dire solo per le modifiche apportate dall’attività legislativa ordinaria, ma nemmeno una mancanza di tale indicazione dimostrerebbe il contrario.
Tale equivalenza non è suffragata dall’esame dei lavori preparatori dell’articolo 2, non soltanto sulla base dell’argomento desumibile dal respingimento in assemblea della proposta di dichiarare sottratti a revisione le disposizioni della costituzione che ricorrono e garantiscono diritti di libertà, bensì anche dalla circostanza che nel dibattito attuale sull’articolo 2 nessuno degli oratori intervenuti accennò ad un possibile significato dell’aggettivo “inviolabili” come equivalente ad il “irrivedibili”.
Nessuno accenno ad una interpretazione dell’inviolabilità come irrivedibilità venne compiuto nel corso della discussione sugli attuali articoli 13, 14, 24 per contro, in riferimento all’articolo 15 va osservato che esso venne approvato dall’assemblea costituente in un testo diverso, dove le libertà e la segretezza non venivano dichiarati come inviolabili ma soltanto garantite.
L’aggettivo inviolabili fu inserito e successivamente pubblicato senza che su tale sostituzione terminologica, si espresse il presidente della commissione per la costituzione.
Infine occorre osservare che quando all’aggettivo inviolabile si è voluto attribuire il significato di rivedibili, ciò è stato fatto in modo esplicito ravvicinando e collegando tra loro le disposizioni costituzionali sulla revisione e sulla inviolabilità.
La mancanza o l’insufficienza di un richiamo testuale esclude perciò che nella nostra costituzione possono individuarsi altri limti della revisione in aggiunta a l’unico espressamente formulato dall’articolo 139, in relazione all’articolo 1. Tale divieto ha origine più politica che giuridica, nel senso che con esso si vuole riaffermare innanzitutto il definitivo ripudio di quel particolare tipo di monarchia che era quella dei Savoia, ma in una dimensione più ampia si atteggia altresì come rifiutano soltanto di una particolare monarchia, bensì in generale di una forma di governo monarchica.
Al di là di tali limiti piuttosto ovvi, occorre però accertare che non ve ne siano anche degli altri, desunti da un’analisi dei contenuti tipici della Repubblica rispetto ad altre forme di governo e in particolare la monarchia. Si è però esattamente osservato che non basta parlare di Repubblica o di monarchia per caratterizzare la forma di governo o una struttura dello Stato, poiché, di per sé, tanto la Repubblica quanto la monarchia possono assumere più vari contenuti, a seconda del particolare regime sul quale si basano.
Né più convincente sembra essere un altro tentativo, secondo il quale contenuti nella forma repubblicana vigente in Italia devono essere individuati con il riferimento al passato ordinamento costituzionale provvisorio tenendo conto delle sue caratteristiche istituzionali, così delineate dal decreto-legge del 1944 e del 1946. In base al quale nessun istituto dell’ordinamento costituzionale provvisorio ma soltanto la scelta Repubblica o monarchia effettuata con referendum popolare, si poneva come vincolante nei confronti dell’assemblea costituente. Se dunque è pressoché impossibile ricavare un concetto unitario di monarchia o repubblica, appare in qualche modo giustificata l’accettazione di un criterio distintivo, basato sull’ attività temporanea del presidente della Repubblica a fronte del carattere ereditario e vitalizio del ruolo di capo di Stato monarchico.
Appare confermato nel nostro ordinamento dal fatto che l’alternativa tra Repubblica o monarchia fu proposta al popolo indipendentemente da qualsiasi precisazione sulle implicazioni legali dei termini, sicché è da presumere che la Repubblica abbia in Italia il significato che le attribuisce correttamente dal popolo. In conclusione perciò il divieto di revisione della forma repubblicana stabilito dall’articolo 139 esclude che possano modificarsi direttamente le disposizioni della costituzione contenenti riferimenti alla Repubblica e la denominazione di costituzione repubblicana; che possa abolirsi la carica di presidente della Repubblica per tornare quella di capo di Stato monarchico; che pur mantenendosi formalmente le cariche di presidente della Repubblica, possono alterarsi nella sostanza i requisiti che lo caratterizzano, perciò posso stabilirsi che la carica di presidente della Repubblica è a vita o che ad essa si accede non in quanto eletti, bensì per diritto ereditario.
La giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di limiti della revisione costituzionale.
La giurisprudenza della corte costituzionale in tema di limiti alla revisione costituzionale si ricava, dalle decisioni della corte in riferimento alla sindacabilità delle leggi costituzionali per vizi sostanziali.
La giurisprudenza della corte sull’argomento in oggetto può suddistinguersi, sotto il profilo cronologico in 3 fasi:
- In una prima fase la corte cost. pur senza dichiararlo espressamente cerca di evitare di prendere posizione sul problema della sindacabilità del contrasto tra costituzione e disposizioni contenute in leggi costituzionali sent. N.6 del 1970.
- In una seconda fase la corte riconosce l’esistenza di principi supremi dell’ordinamento costituzionale, anche se tale riconoscimento non è direttamente strumentale alla sindacabilità delle leggi costituzionali, ma serve piuttosto ad ammettere la sindacabilità, in relazione a tali principi e non anche a norme formalmente costituzionali che di tali principi non costituiscano espressione o attuazione, di talune leggi che per pur avendo la forma della legge ordinaria, vengono dalla corte definite come leggi fornite di una particolare “copertura costituzionale”. Un esempio sono le leggi di esecuzione dei patti lateranensi o l’articolo 11 che prevede la limitazione di sovranità. In ambedue i casi la corte ritiene che le disposizioni pattizie, immesse nel nostro ordinamento, dalle citate leggi di esecuzione abbiano la capacità di erogare a norme formalmente costituzionali, fatta eccezione per il limite del rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano.
- In una terza fase, infine, la corte costituzionale afferma, esplicitamente nella sentenza n.1146 del 1988, l’esistenza di limiti taciti o naturali alla revisione costituzionale, identificandoli in quei principi dell’ordinamento costituzionale, ai quali aveva fatto riferimento nelle sue precedenti decisioni.
Nel testo della sentenza si afferma che: “la costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono e tanti i principi che la costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale forma repubblicana articolo 139, quanto i principi, che pur non essendo espressamente menzionati, appartengono all’assenza dei valori supremi sui quali si fonda la costituzione italiana.
I principi supremi dell’ordinamento costituzionale hanno una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale.
La sentenza in esame ha suggerito due considerazioni di fondo:
- La ferma volontà della corte di prendere posizione sul problema dell’esistenza o meno di limiti taciti alla revisione costituzionale, tale volontà si desume anche dalla inusuale secchezza dei termini usati, per affermare l’esistenza di tali limiti.
- In secondo luogo soprattutto, colpisce negativamente l’assoluta mancanza di motivazione a sostegno delle affermazioni così radicali e decise compiute dalla corte in tema di limiti della revisione costituzionale: senza critiche ai molti argomenti addotti in dottrina.
L’unico accenno di motivazione riguarda, infatti, la necessità di ammettere la competenza della corte a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale poiché, altrimenti, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della corte come difettoso o non effettivo. Tale argomento è servito a dimostrare che i principi supremi dell’ordinamento costituzionale costituiscono i limiti taciti della revisione costituzionale.
Restando sul piano delle sue fonti costituzionali, il Parlamento è l’organo al quale compete in via esclusiva oggi, come ieri all’assemblea costituente, di stabilire, con le procedure di cui all’articolo 138, eventuali limiti alla revisione costituzionale, aggiungendone di nuovi a quelli già previsti dalla costituzione o anche abrogando questi ultimi con procedure particolari qualora ad essi si attribuiscono valore soltanto relativo; la corte costituzionale è l’organo al quale spetta in via esclusiva di garantire il rispetto di tali limiti, attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale, di eventuali disposizioni contenute in una legge costituzionale contrastanti con quei limiti. In quest’ottica il Parlamento rappresenta l’organo di chiusura del sistema poiché soltanto ad essa spetta la competenza delle competenze, rinvenibile per l’appunto nell’ esercizio del potere di revisione costituzionale; la stessa esistenza della corte costituzionale divenne definitiva da una scelta politica del Parlamento.
Ma la tesi, fermata dalla corte costituzionale, secondo cui esistono limiti taciti alla revisione costituzionale, identificabili nei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, comporta che l’organo di chiusura del sistema non è più il Parlamento, ma la stessa corte, dal momento che a quest’ultima stabilire quando un determinato principio possa essere considerato come supremo e dunque tale da determinare l’illegittimità costituzionale di disposizioni formalmente costituzionali con esso contrastanti.
– 4. Il procedimento di formazione delle leggi costituzionali in seno alle Camere: :iniziativa, la prima deliberazione, il principio dell’alternatività della doppia deliberazione da parte di ciascuna Camera, la seconda deliberazione. –
La mancata previsione dell’articolo 138 di disposizioni relative al procedimento da seguirsi nell’ambito delle due deliberazioni da parte di ciascuna camera sta a significare che il procedimento di formazione delle leggi costituzionali segue la disciplina prevista dalla costituzione e dai regolamenti parlamentari per il procedimento di formazione delle leggi ordinarie.
L’analisi del procedimento di formazione delle leggi costituzionali:
v iniziativa: per quanto attiene all’iniziativa delle leggi costituzionali, la tesi che essa spetti a tutti i soggetti titolari dell’iniziativa legislativa ordinaria, con le stesse modalità e con gli stessi limiti eventualmente previsti per quest’ultima, si ricava sia dalla terminologia usata in costituzione che riferendosi alle leggi senz’altro le specificazioni non esclude le leggi costituzionali.Sul punto occorre soltanto ricordare che la legge del 30 dicembre 1986, ha abrogato la precedente legge 1957, secondo il quale l’iniziativa legislativa del consiglio non può essere esercitata per le leggi costituzionali, né per leggi tributarie, di bilancio, di delegazione legislativa ecc… Attualmente il CNEL ha la piena titolarità del potere di iniziativa sia nei confronti delle leggi ordinarie che delle leggi costituzionali, fatti salvi i limiti derivanti dai casi di iniziative legislative riservate ad altri soggetti.
v La fase della prima deliberazione da parte di ciascuna camera non pone problemi particolari in quanto si applicano le norme che disciplina il procedimento legislativo ordinario, compreso l’articolo 72 della costituzione, che è relativo all’obbligo di seguire la procedura normale di esame e di approvazione, cioè quello della commissione in sede referente.
In particolare è da ammettere la possibilità di deliberare la dichiarazione d’urgenza di una legge costituzionale in base all’articolo 73 comma 2, della costituzione ai fini della riduzione del termine di promulgazione, e in base al regolamento del senato, ai fini della riduzione dei termini per la presentazione della relazione, da parte della commissione in sede referente, per l’espressione dei pareri vincolanti da parte di altre commissioni.
L’articolo 69 (reg. delle camere), vieta la dichiarazione d’urgenza di progetti di legge costituzionale e dei progetti di legge riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica, sociale o economiche riferite ai diritti previsti dalla prima parte della costituzione.
La dichiarazione d’urgenza adottata in prima deliberazione non deve essere necessariamente rinnovata in seconda deliberazione poiché l’articolo 138 prevede una doppia deliberazione da parte di ciascuna camera sul progetto di legge costituzionale è non anche sulle forme che può assumere il procedimento di formazione di quest’ultimo.
La formula usata nell’articolo 138, relativamente all’intervallo non minore di tre mesi che deve intercorrere dalla prima alla seconda deliberazione, viene interpretata in applicazione del principio della alternatività delle deliberazioni di ciascuna camera e dunque abbandonando l’opposto principio della consecutività delle citate deliberazioni. Tale interpretazione è preferibile in quanto più conforme al principio della parità dei due rami del Parlamento, in base al quale sarebbe più corretto che una camera non proceda a una seconda deliberazione, senza che si conosca l’orientamento dell’altra, ma anche per evitare taluni rilevanti inconvenienti:
- il raddoppio del termine di 3 mesi;
- in secondo luogo nell’ipotesi in cui la seconda camera respinge prima deliberazione il testo approvato un duplice deliberazione dall’altra, si avrebbe non soltanto uno spreco di tempo, ma anche la anomala conseguenza per cui il mancato raggiungimento della maggioranza semplice nel corso della prima deliberazione della camera intervenuta per seconda priverebbe di effetti 2 deliberazioni, di cui una a maggioranza qualificata, della camera intervenuta per prima. Il termine dal quale comincia a decorrere intervallo di tre mesi per ciascuna camera è quella della prima deliberazione definitiva della singola camera.
v La seconda deliberazione non è la sede per valutazioni sulle singole disposizioni del progetto di legge costituzionale, ma ha la funzione di assicurare la necessaria ponderatezza all’approvazione di un atto di estremo rilievo, quale è sempre qualsiasi legge costituzionale, e contemporaneamente di verificare, a distanza di tempo dalla prima deliberazione, che la maggioranza non si è formatasi in maniera occasionale.
Sempre in relazione a tale fase si stabilisce che, dopo la discussione sulle linee generali, si passi direttamente alla votazione finale del progetto di legge, senza procedere alla discussione della votazione degli articoli. Vi è il divieto di proporre la questione pregiudiziale o quella sospensiva: esso infatti tende ad impedire l’uso di strumenti procedurali in grado di ritardare la conclusione del già di per sé lungo complesso procedimento di formazione delle leggi costituzionali.
v In seconda deliberazione:
- se si raggiunge la maggioranza dei 2/3 dei componenti di cui il presidente della camera e del senato deve fare espressa menzione nel messaggio all’altra camera o al governo, determina l’approvazione della legge costituzionale ed esclude la possibilità di richiedere l’indizione del referendum popolare. La legge è così promulgata dal presidente della Repubblica e successivamente pubblicata.
- Nel caso di approvazione a maggioranza assoluta, la legge costituzionale non viene promulgata, bensì direttamente pubblicata ai fini della decorrenza del termine di 3 mesi entro il quale può essere richiesta l’indizione delle referendum da parte di 1/5 dei membri di ciascuna camera, o di 500.000 elettori o di 5 consigli regionali. La promulgazione seguirà soltanto qualora l’esito del referendum, sia stato favorevole all’approvazione, o il citato termine di tre mesi sia decorso inutilmente.
5. La promulgazione delle leggi costituzionali: ipotesi di rifiuto assoluto.
La costituzione italiana non contiene disposizioni particolari che disciplinino la promulgazione delle leggi costituzionali, quindi in linea generale si considerano applicabili quelle delle leggi ordinarie artt. 73-74.
Art.73: secondo cui “Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dalla approvazione. Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti, ne dichiarano l’urgenza la legge è promulgata nel termine da essa stabilito.”
Art.74: secondo cui “Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione.
Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata.”
Quest’ultimo è di poco sicura applicabilità in riferimento alla possibilità del potere presidenziale di rinvio delle leggi costituzionali.
Prima di tutto, bisogna esaminare se esistono dei casi nei quali la promulgazione delle leggi costituzionali possa, essere rifiutata in assoluto dal presidente della repubblica.
In analogia con quanto si sosterrà con le leggi ordinarie, anche in quelle costituzionali è prevista la possibilità di rifiuto della promulgazione, in caso:
- di legge cosiddetta inesistente
- oppure quando la promulgazione comporta la possibilità di far valere nei confronti del presidente della repubblica la responsabilità per alto tradimento, o per attentato alla costituzione, art.90.
Il problema dell’ammissibilità del potere presidenziale di rinvio alle Camere delle leggi costituzionali.
Nel primo caso già dal testo dell’articolo che fa riferimento a termini di legge, se ne desume che non possono essere oggetto di rifiuto di promulgazione atti diversi che qualificandosi come leggi, non abbiano la benché minima parvenza per la quale si prevede il ricorso alla rifiuto della promulgazione.
Nel secondo caso il rifiuto di promulgazione costituisce diretta applicazione del principio generale secondo cui nessuno può essere obbligato a compiere atti che determinano una responsabilità penale nei propri confronti.
Con riferimento all’ipotesi di una legge costituzionale inesistente, inaccettabile è la tesi secondo cui se il vizio formale non consentisse di qualificare la legge promulgata, come una legge costituzionale, il presidente della Repubblica potrebbe però considerarla come legge ordinaria (vizo formale) o conseguentemente rinviarla alle camere qualora la giudicasse incostituzionale sotto il profilo sostanziale. Bisogna escludere l’applicabilità dell’istituto della conversione di un atto viziato in un altro atto, di diversa specie del quale ricorrono i requisiti formali
Passando ad esaminare il problema dell’ammissibilità nei confronti di leggi costituzionali del potere presidenziale di rinvio, si potrebbe innanzitutto addurre il principio ricavabile dal comma 2, dell’art. 74, in base al quale la promulgazione delle leggi deve seguire senza interruzione le eventuali nuove approvazioni da parte di ciascuna camera conseguente all’esercizio del potere di rinvio.
Tale principio, infatti, risulterebbe violato qualora una legge costituzionale fosse riapprovata dalle camere, a seguito del rinvio, a maggioranza assoluta, poiché in tal caso l’eventualità dell’intervento popolare, o la necessità di attendere la scadenza del termine di tre mesi dalla richiesta del referendum, escluderebbero la possibilità che all’approvazione da parte delle camere segua la promulgazione.
In realtà tale norma, riferendosi all’approvazione delle camere vuole intendere che normalmente l’approvazione delle camere è l’approvazione definitiva della legge, e quindi ammette implicitamente, che qualora la definitività dell’approvazione provenga da un evento successivo la promulgazione faccia seguito a questo evento.
L’articolo 74 stabilisce che il rinvio può essere compiuto soltanto nei confronti delle camere, tale potere va escluso quando il rinvio dovrebbe essere indirizzato al popolo oltre che alle camere. Nell’ipotesi in cui il popolo fosse in concreto intervenuto nel procedimento di formazione delle leggi costituzionali. L’argomento non è più probante e si esclude ogni sorta di contitolarità del popolo nella formazione delle leggi costituzionali e l’eventuale intervento popolare si ricostruisce come una mera condizione di efficacia della deliberazione delle camere.
Un limite generale al potere di rinvio delle leggi costituzionali scaturisce dalla seguente interpretazione dell’articolo 74 comma 1,: poiché tale disposizione stabilisce tassativamente che ciò che si può chiedere alle camere con il rinvio è soltanto una nuova deliberazione sulle leggi, il potere di rinvio deve ritenersi escluso tutte le volte che dal suo esercizio derivino o possono comunque derivare conseguenze diverse più gravose rispetto a quelle previste dall’articolo 74. Il che nei confronti delle leggi costituzionali, significa che il loro rinvio da parte del presidente della Repubblica è inammissibile qualora ciò comporti il rinnovo dell’intero e macchinoso procedimento.
L’unico caso nel quale il presidente della Repubblica può procedere al rinvio è quello relativo ad una legge costituzionale il cui contenuto sia tale da comportare, in caso di promulgazione della stessa, la responsabilità del presidente prevista dall’articolo 90 della costituzione, in tal caso il presidente, prima di rifiutare in assoluto la promulgazione, deve rinviare la legge alle camere preannunciando attraverso il messaggio che accompagna il rinvio, la propria intenzione di rifiutare la promulgazione ove la legge venga nuovamente approvata.
La disciplina del referendum popolare previsto dall’art. 138 Cost.; la sua qualificazione come requisito di efficacia e non come elemento costitutivo delle leggi costituzionali.
L’intervento popolare mediante il referendum, le cui modalità di attuazione sono disciplinate dalla legge del 25 maggio del 1970, n.352, può esplicarsi soltanto in presenza di determinati presupposti fissati dall’articolo 138.
- È necessario innanzitutto che la legge costituzionale sia stata provata in seconda deliberazione a maggioranza assoluta.
- Occorre inoltre, che entro 3 mesi dalla pubblicazione della legge costituzionale, il referendum venga richiesto da 1/5 dei membri della camera o da 5 consigli regionali o da 500.000 lettori.
La pubblicazione della legge costituzionale approvata dalle camere ma non promulgata dal presidente della Repubblica, ha una funzione diversa da quella tipica della pubblicazione, poiché in questo caso essa non incide sulla fase dell’entrata in vigore della legge, ma ha soltanto il più limitato scopo di rendere certo il momento nel quale comincia a decorrere il termine di tre mesi quale può essere richiesto il referendum popolare.
Sussistendo gli indicati presupposti, ha luogo il referendum al quale hanno il diritto di parteciparvi i cittadini in possesso dei requisiti necessari per essere elettore della camera dei deputati. A differenza della referendum abrogativo l’articolo 138, non prescrive una forma di partecipazione per la validità del referendum, bastando che la legge sia approvata dalla maggioranza di voti validi.
L’esito positivo della referendum rende possibile svolgimento delle altre fasi del procedimento;
l’esito negativo invece interrompe definitivamente l’iter della legge poiché essa non può più essere promulgata.
Il problema è di qualificare il valore dell’intervento popolare sulla leggi costituzionali. Alcuni considerano l’intervento del popolo nei confronti delle camere come una sorta di ratifica di diritto privato o di diritto internazionale. Un’altra tesi conduce paradossalmente ad affermare che la funzione della legislazione costituzionale spetta il in prima persona al popolo soltanto parzialmente alle camere. Non appare convincente il tentativo di ritenere che il consenso popolare, attraverso il referendum, possa essere considerato come elemento costitutivo della legge costituzionale.
Non appare convincente il tentativo di tenere comunque sussistente il consenso popolare espressamente ove il referendum abbia avuto esito positivo; tacitamente quando il referendum non sia stato richiesto. Infatti in quest’ultimo tentativo viene osservato che se il popolo acquista il diritto di esprimere la propria volontà, soltanto in forza dell’iniziativa di altri soggetti, il decorso del termine di 3 mesi per l’iniziativa senza che questa vi sia stata, non può significare che vi sia stato un consenso tacito del popolo, ma soltanto che essa non ha acquistato il diritto a concorrere alla formazione dell’atto.
Preferibile appare perciò la diversa tesi che ricostruisce come un’approvazione l’eventuale intervento popolare nei confronti delle leggi costituzionali, e cioè come un elemento incide esclusivamente sulla loro efficacia. Legge è perfetta dopo la seconda deliberazione delle camere la sua efficacia è temporaneamente sospesa e condizionata al fatto che il referendum non venga richiesto entro 3 mesi o, quando la richiesta intervenga, che il suo risultato sia favorevole.Tale tesi appare confermata sotto un duplice aspetto dalla lettera dell’articolo 138.
Infine è da ritenere che il divieto di assegnare alle competenti commissioni progetti di legge respinti prima di sei mesi dalla loro reiezione, non valga qualora la reiezione derivi dall’esito negativo del referendum.
CAPITOLO 3
LE LEGGI ORDINARIE
1.La legge nei regimi assolutistici e nei regimi democratici. La spinta alla delegificazione: tipi di delegificazione. La diversa posizione della legge negli ordinamenti a costituzione flessibile e negli ordinamenti a costituzione rigida. L’ambiguità dell’espressione “legge” e la necessità di distinguere tra leggi costituzionali, leggi ordinarie e leggi atipiche.
La legge è sempre stata nei regimi parlamentari la fonte più diffusa. Rappresenta il prodotto dell’esercizio della funzione legislativa, spettante al parlamento quale organo direttamente rappresentativo del popolo.
La sconfitta dei regimi assolutistici ebbe come conseguenza la lenta sostituzione degli stessi, con organi eletti dal popolo (assemblee o parlamenti), nel ruolo di soggetti ai quali spettava il potere di assumere le scelte fondamentali per la nazione. Parallelamente ciò ha comportato un progressivo esautoramento del potere del monarca a favore del parlamento.
Il progressivo consolidamento degli stati a regime parlamentare, ha influito direttamente sul ruolo del parlamento ed indirettamente sulla produzione delle leggi. Il parlamento è l’organo centrale nell’attuale ordinamento italiano.
Sono infatti sbagliate le affermazioni secondo le quali “se si diminuiscono i poteri del parlamento si riduce il ruolo di tale organo in favore di un potenziamento del governo, e dunque occorre mantenere inalterati i poteri del parlamento se si vuole che tale organo continui ad essere l’organo del sistema”. Tale affermazione può essere intesa in 2 sensi:
- In senso qualitativo, quest’affermazione è vera; è indubbio che il parlamento, deve mantenere tutti i suoi poteri dalla funzione legislativa alla funzione di indirizzo e controllo nei confronti del governo. Privare le camere di anche una sola di queste funzioni muterebbe gli attuali equilibri tra i poteri dello stato.
- In senso quantitativo, quest’affermazione è falsa; la riduzione quantitativa dell’esercizio della funzione legislativa non sminuisce in alcun modo il ruolo delle camere ma anzi lo potenzia. Ne deriva che la diminuzione del carico legislativo consentirebbe alle camere di esercitare in modo più costruttivo sia la stessa funzione legislativa che la funzione d’indirizzo e di controllo.
Le camere anche se potrebbero evitare di legiferare, in certi casi, attraverso la programmazione dei lavori parlamentari, di fatto sono impossibilitate a frenare le spinte provenienti da grovigli di micro-interessi trasversali, portati avanti cioè da parlamentari appartenenti a partiti diversi, ma uniti nel sostegno di un particolare interesse.
Lo strumento con il quale inizialmente si pensò di superare la situazione sin qui descritta fu quello della delegificazione consistente nell’approvazione di alcune leggi che, relativamente a grandi gruppi di materie non coperte da riserva di legge, declassassero ad un rango inferiore le disposizioni legislative che tali materie disciplinavano, consentendo l’eventuale successivo intervento del governo, mediante i regolamenti amministrativi. Questa speranza fu però un’ illusione e i motivi furono diversi: la ritrosia delle camere a rinunciare anche temporaneamente alla loro funzione legislativa; e la diffidenza dell’opposizione parlamentare.
Il fallimento del progetto di una delegificazione preventiva ed “a tappeto ” ha determinato l’introduzione di un diverso e più duttile meccanismo di delegificazione. L’art.17, comma2, della l.23 agosto 1988 n.400 “Disciplina dell’attività di governo e ordinamento della presidenza del consiglio dei ministri”à ha attribuito al governo la facoltà di adottare regolamenti amministrativi per la definizione delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla costituzione, per le quali le leggi, autorizzando la potestà regolamentare del governo, determinano le norme generali della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con effetto dell’entrata in vigore delle norme regolamentari.
Tuttavia il modello di delegificazione illustrato ha rappresentato il primo passo per un’accentuazione della crisi della legge e per il fiorire di ulteriori, anomali, modelli di delegificazione. Infatti le camere, da una parte, si sono attenute sempre meno ai requisiti previsti per adottare i regolamenti in delegificazione. Dall’altro il legislatore ha introdotto nuovi modelli di delegificazione e ha previsto la possibilità di delegificazione in favore di soggetti diversi dal governo; ha reso periodico il ricorso alla delegificazione.
Tale meccanismo ha creato una situazione normativa piuttosto confusa. I regolamenti in delegificazione, pur essendo atti formalmente inferiori alla legge sono di fatto in grado, di determinare l’abrogazione.à occorre quindi stabilire chiarezza.
Occorre comunque ricordare, la mutata posizione della legge nell’attuale ordinamento giuridico italiano rispetto al precedente. Mentre allora, in regime di costituzione flessibile, la legge era per definizione la fonte suprema onnipotente. Oggi la legge da un lato gerarchicamente subordinata alla costituzione ed alle leggi costituzionali, dall’altro incontra una serie di limiti derivanti da riserve di competenza, stabilite da norme costituzionali, in favore di fonti diverse.
2. cenni sul concetto di procedimento giuridico nella dottrina processualistica e nella dottrina amministrativistica. riserva in favore dei regolamenti parlamentari;
E’ ormai noto che una procedimento giuridico ricorra nei confronti della formazione della legge, infatti essa è atto finale risultante da una sequenza predeterminata di atti, rivolta al raggiungimento del risultato finale unitario per cui ogni atto (fase) della sequenza non può svolgersi se non si è concluso l’atto (la fase) precedente, e dunque il risultato finale non è raggiunto (o è invalido), se la sequenza non è stata rispettata. Tale procedimento rappresenta una forma tipica di azione dei pubblici poteri.
La teoria del procedimento è stato introdotto dalla dottrina amministrativistica, e ben prima prima nacque sul diverso terreno nell’esercizio la funzione giurisdizionale, per esigenze di garanzia di posizioni giuridiche soggettive.
La scienza del diritto amministrativo si è per prima posta sulla via della definizione del concetto di procedimento, a ciò verosimilmente spinta, dalla carenza di un compiuto ed organico sistema di legislazione positiva, realizzatosi soltanto di recente con l’approvazione della legge n.241 del 1990.
- teoria formalistica del procedimento concentra l’attenzione non già sulla serie materiale di atti che si susseguono nella dinamica che porta alla produzione dell’atto terminale, ma piuttosto sul modo del loro susseguirsi, con riguardo, ai nessi interni che legano insieme gli atti predetti.
- teoria sostanzialistica del procedimento. Considerando la serie procedimentale come unitariamente costitutiva dell’effetto ascritto all’atto finale, riconduceva il fenomeno del procedimento nella categoria dell’atto, procedimento.
Ne deriva dunque una scansione in fasi: la fase dell’iniziativa, fase preparatoria o istruttoria, fase della decisione, fase integrativa dell’efficacia.
Il nesso tra i diversi atti comporta che non sono soltanto necessari ma sono anche un obbligo.
Aspetti peculiari del procedimento legislativo: il suo fondamento costituzionale;
Tuttavia è fuori discussione che il procedimento legislativo sia costituito da una sequenza predeterminata di atti volti alla formazione dell’atto finale “legge”; così come è fuori discussione che tale procedimento si articoli in fasi.
La conclusione di una fase non determina alcun obbligo giuridico a procedere alla fase successiva poiché tanto l’inizio dell’esame di un progetto di legge, quanto il suo seguito dipendono interamente dalle scelte politiche delle maggioranze parlamentari, liberi di insabbiare il progetto lasciando ascritto all’ordine del giorno senza discuterlo oppure di arrivare alla sua votazione finale.
la caratteristica dell’apoliticità come elemento di maggiore differenziazione tra il procedimento legislativo, il procedimento amministrativo e il procedimento giurisdizionale.
Questa è la prima differenza del procedimento legislativo dai procedimenti amministrativi e giurisdizionali, essendo quest’ultimi caratterizzati da un effettivo obbligo a procedere a seguito del perfezionarsi della fase introduttiva.
Differenze ulteriori, riguardano innanzitutto le fonti.
Il procedimento amministrativo è disciplinato dalla legge;
Il procedimento legislativo è disciplinata dalla costituzione agli articoli 71,72, 73 e 74, e dall’articolo 64 e dai regolamenti parlamentari. L’articolo 72 stabilendo che accanto ad un procedimento cosiddetto normale caratterizzato dall’intervento delle commissioni in sede referente, i regolamenti parlamentari possono stabilire non soltanto procedimenti abbreviati per i progetti di legge dichiarati urgenti ma anche procedimenti speciali, caratterizzati dall’intervento delle commissioni con poteri deliberanti, nei confronti del progetto di legge nel suo complesso o nei confronti del solo articolato dello stesso. L’articolo 72 introduce con riferimento al procedimento legislativo dunque una riserva di regolamento parlamentare.
riserva in favore dei regolamenti parlamentari;
Riserva di regolamento parlamentare comporta ulteriori peculiarità per il procedimento legislativo rispetto agli altri procedimenti giuridici. Spetta infatti agli stessi organi che esercitano una funzione legislativa la competenza esclusiva a fissare le regole.
Il procedimento legislativo è per definizione un procedimento di tipo politico destinato, cioè a produrre atti che sono il frutto delle scelte politiche di organi anch’essi politici, quali sono le camere. La funzione legislativa è una funzione libera nel fine, fermo restando il rispetto delle norme poste da fonti di grado superiore. Conseguentemente il procedimento è disciplinato da poche norme inderogabili e da molte disposizioni elastiche nella loro applicazione come i regolamenti parlamentari.
3. Il potere di iniziativa legislativa: terminologia; la predisposizione alla presentazione degli atti di iniziativa legislativa riserva di legge costituzionale presente articolo 71; il principio del pari valore formale, sotto il profilo soggettivo degli atti di iniziativa legislativa i requisiti formali con particolare riferimento alla relazione illustrativa dalla cosiddetta relazione tecnica; i soggetti titolari: l’iniziativa governativa, parlamentari, regionale, popolare… L’articolo 133 comma uno della costituzione l’iniziativa riservata e di iniziativa vincolata.
Il potere di iniziativa legislativa può essere definito come il potere, attribuito a determinati soggetti dalla costituzione o da leggi costituzionali, di presentare disegni, proposte o progetti di legge all’una o all’altra camera. Tali i soggetti come si vedrà, sono il governo e il popolo, ciascun membro delle camere, i consigli regionali ed il Cnel.
Terminologia.
La costituzione parla dell’articolo 71 come di un progetto di legge, agli articoli 72,79,87 di disegni di legge, l’articolo 121 di proposta di legge.
Il senato qualifica come disegno di legge qualsiasi atto di iniziativa; alla camera i disegni di legge sono gli atti di iniziativa del governo, mentre le proposte di legge sono qualsiasi atto di iniziativa.
La predisposizione e la presentazione dell’atto di iniziativa.
La definizione del potere di iniziativa legislativa afferma che il suo esercizio si realizza in 2 momenti distinti ma collegati tra loro:
- il momento della predisposizione dell’atto da parte del soggetto competente
- il momento della presentazione dall’atto all’una o all’altra camera.
Per quanto riguarda l’importanza è prevalente il primo rispetto al secondo, che è soltanto un atto materiale, che però determina da un lato la qualificazione soggettiva dell’atto di iniziativa in sede parlamentare e dall’altro l’attivazione del procedimento legislativo. Di solito è il singolo proponente che prevede sia la predisposizione che la presentazione dell’atto. Può accadere che tali operazioni siano compiute disgiuntamente tra due diversi titolari del potere di iniziativa legislativa: in tali casi la qualificazione soggettiva dell’atto di iniziativa resta fissata con riferimento al soggetto che ha predisposto l’atto.
Il significato della riserva di legge costituzionale di cui all’articolo 71.
La riserva di legge costituzionale di cui all’articolo 71 è per un certo verso pleonastica poiché, anche in sua assenza, sarebbe del tutto evidente l’illegittimità di una legge ordinaria che volesse privare il potere di iniziativa legislativa alcuni dei soggetti ai quali tale potere attribuito dalla costituzione. Rende tassativa l’elencazione dei soggetti titolari del potere di via legislativa di quegli articoli 71,99, 121.
Il principio del pari valore formale degli atti di iniziativa legislativa.
Il potere di iniziativa legislativa configurato dalla costituzione italiana non è soltanto un potere a titolarità diffusa, ma anche un potere basato sul principio della parità formale dei singoli atti che ne sono concreta espressione, indipendentemente dal soggetto che di volta in volta quel potere abbia esercitato. L’articolo 72 nella parte in cui fa riferimento alle possibili varianti del procedimento legislativo, si riferisce al disegno di legge non importa da quale soggetto è presentato.
La possibilità che i regolamenti parlamentari prevedano, rispetto agli archetipi procedimentali dell’articolo 72, procedimenti più agili o limiti più complessi deve pertanto ammettersi soltanto in riferimento alla materia e non in relazione al proponente altrimenti sarebbe incostituzionale.
Gli atti di iniziativa come atti scritti
Gli atti di iniziativa legislativa sono atti scritti il cui testo deve essere suddiviso in articoli. Tale obbligo stabilito dalla costituzione: esplicitamente dall’articolo 71, comma 2 per quanto concerne i progetti di legge di iniziativa popolare; implicitamente per tutti progetti di legge senza distinzione, secondo cui ogni disegno di legge deve essere approvato dalla camera articolo per articolo e con votazione finale articolo 72
La relazione illustrativa.
Sulla base di una prassi risalente al periodo albertino e confermata in epoca repubblicana, tutti i progetti di legge sono accompagnati da una relazione scritta, inserita nell’atto di iniziativa prima dell’articolato, che ne illustra l’oggetto e la finalità. L’adempimento è espressamente previsto solo nei confronti degli atti di iniziativa popolare dalla legge 25 maggio 1970, n.352.
Non si può affermare che questo diverso trattamento determini l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, in quanto la riserva di regolamento parlamentare non coprirebbe la fase della formazione dell’atto di iniziativa; inoltre è un elemento oramai necessario per tutti gli atti di iniziativa legislativa non soltanto per quelli d’iniziativa popolare.
Relazione tecnica.
Una sottospecie molto particolare di relazione illustrativa è stato introdotto nell’ordinamento italiano dall’articolo 7 della legge del 23 agosto 1988 n.362, in attuazione dell’articolo 81 della costituzione, secondo il quale ogni legge che importi nuovi o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.
L’ articolo suddetto stabilisce, al comma 2, che i disegni di legge, gli schemi dei decreti legislativi e gli emendamenti di iniziativa governativa, che comportino conseguenze finanziarie, devono essere corredati da una relazione tecnica, predisposta dalle amministrazioni competenti e verificata dal ministero del Tesoro e del bilancio della programmazione economica, sulla quantificazione delle entrate e degli oneri recanti da ciascuna disposizione, nonché delle relative coperture.
Il regolamento del senato stabilisce che non possono essere assegnate alle competenti commissioni permanenti i disegni di legge di iniziativa governativa, di iniziativa regionale o del CNEL che comportino nuovi e maggiori spese oppure una diminuzione delle entrate e non siano corredati della relazione tecnica, sulla quantificazione degli oneri recati da ciascuna disposizione e delle relative coperture.
La V commissione permanente di bilancio e programmazione economica, può inoltre richiedere al governo la relazione tecnica per i disegni di legge di iniziativa popolare o parlamentare. La relazione deve essere trasmessa dal governo nel termine di 30 giorni dalla richiesta.
Al senato la relazione tecnica costituisce una condizione di procedibilità dei progetti di legge per i quali è prevista, e vieta agli atti di iniziativa che ne sono privi, l’assegnazione alle commissioni permanenti da parte dello stesso presidente.
Alla camera non vi è alcuna disposizione analoga ma è da ritenere che il controllo sulla sussistenza della relazione tecnica, rientri nel potere di controllo del presidente della camera, sull’ammissibilità e sulla procedibilità dei documenti a lui presentati.
Le norme che impongono l’obbligo della relazione tecnica per i soli progetti di legge del governo, dei consigli regionali e del CNEL, non contrastano con il principio del pari valore dei diversi atti di iniziativa legislativa. Infatti dai lavori parlamentari dell’articolo 11, oltre che della sua formazione letterale, si evince piuttosto chiaramente che spetta in prima persona al governo, al regioni ed alle CNEL di predisporre la relazione tecnica.
Infatti si può dire che le disparità di trattamento si verificherebbe al contrario qualora l’obbligo della predisposizione della relazione tecnica, fosse previsto indistintamente per tutti i soggetti titolari del potere di iniziativa legislativa, dal momento che ben diverse sono le risorse tecnico-amministrative di soggetti burocraticamente strutturati, quali il governo, le regioni ed il CNEL rispetto a quelle di soggetti che tale struttura non hanno, quali i singoli parlamentari ed il popolo.
- L’iniziativa legislativa governativa, pur se giuridicamente di pari valore rispetto all’iniziativa di altri soggetti, ha in teoria una valenza ben maggiore, sul piano politico poiché il governo, in quanto organo che ha come finalità istituzionali quella di realizzare il programma illustrato al momento la sua presentazione alle camere dispone in Parlamento di una maggioranza precostituita, che dovrebbe pertanto assicurare ai disegni di legge governativi notevoli probabilità di approvazione.
Tuttavia nella pratica l’esistenza di governi politicamente non omogenei di pari valore tende a favorire le divisioni all’interno della maggioranza parlamentare e quindi a ridurre la sua capacità di deliberativa. Ne deriva una sempre maggiore difficoltà che ha contribuito al ricorso di strumenti e meccanismi alternativi, quali l’uso spropositato del decreto-legge o la prassi di leggi omnibus.
Questi atti di iniziativa del governo sono il frutto di uno specifico procedimento di formazione: proposte in consiglio dei ministri di un testo redatto in articoli da parte di uno più ministri, deliberazione del consiglio, decreto del presidente della Repubblica di autorizzazione alla presentazione del disegno di legge alle camere
Per quanto attiene ai poteri del presidente della Repubblica in sede di autorizzazione alla presentazione del disegno di legge governativo, occorre distinguere le varie ipotesi. Quando l’atto di iniziativa manchi dei requisiti essenziali della sua stessa esistenza o il suo contenuto concreti per il capo dello Stato le fattispecie dell’attentato alla costituzione o dell’alto tradimento, il presidente della Repubblica può rifiutarsi in modo definitivo di concedere l’autorizzazione.
Quando quest’ultimo non condivide, il contenuto dell’atto di iniziativa per valutazioni di merito, può soltanto invitare il governo ad un riesame dell’atto, salvo dover concedere l’autorizzazione al governo, che mediante una nuova delibera del consiglio dei ministri, insista sul mantenimento del testo originario.
Quando il dissenso del capo dello Stato si basa su motivazioni di illegittimità costituzionale è controverso se egli debba limitarsi, come nell’ultimo caso, ad una richiesta di riesame del testo da parte del governo, o se possa, come nei primi 2 casi illustrati, giungere ad un rifiuto assoluto dell’autorizzazione. La prima soluzione sembra preferibile, perché il presidente della Repubblica ha pur sempre un’ulteriore possibilità di intervento in sede di promulgazione della legge.
Questo potere governativo incontra dei limiti peculiari dipendenti dalle possibili situazioni nelle quali può trovarsi il governo nei confronti del Parlamento:
- Può esservi una mancanza di fiducia parlamentare nel caso di governo dimissionario,
- oppure il mancato perfezionamento dell’acquisizione della stessa, governo in attesa della fiducia.
In ordine al primo punto, se normalmente gli atti di iniziativa del governo sono il frutto di scelte politiche, non mancano casi nei quali l’atto di iniziativa, più o meno politicamente neutro, è un atto dovuto: come nel caso di disegni di legge di conversione del decreto-legge e disegni di legge di approvazione del bilancio dello Stato.
In ordine al secondo punto, mentre nel caso del governo dimissionario è ragionevole pensare che esso non gode più della fiducia delle camere, nel caso del governo in attesa della fiducia la certezza riguarda soltanto la circostanza che il governo non ha ancora la fiducia, senza che ciò escluda la possibilità di ottenerla. Gli atti di iniziativa cosiddetti dovuti devono ritenersi comunque ammissibili; tutti gli altri atti di iniziativa devono ritenersi preclusi al governo dimissionario in quanto quest’ultimo ha rinunciato all’attuazione del programma politico, che invece sono consentiti al governo in attesa della fiducia.
- L’iniziativa parlamentare secondo l’articolo 71, appartiene a “ciascun membro delle camere”. Il potere è oggi attribuito al singolo parlamentare o a gruppi di parlamentari.
L’iniziativa dei parlamentari non consente la scelta del ramo del Parlamento al quale presentare una proposta di legge: i deputati possono presentare proposte di legge soltanto alla camera, mentre i senatori possono presentare proposte di legge soltanto al senato. Questa è oramai una norma consuetudinaria.
Per quanto riguarda l’istituto della “presa in considerazione”, quest’ultimo era di epoca statuaria venne recepito in epoca repubblicana, all’interno del regolamento della camera che ne aveva limitato di efficacia sulle proposte di legge di iniziativa parlamentare, comportanti un onere finanziario. I dubbi sulla sua costituzionalità però ha portato all’abrogazione delle citate disposizioni.
Le proposte di legge d’iniziativa parlamentare sono sempre più numerose o molto bassa è la loro percentuale di approvazione. Perché non hanno in partenza il sostegno come accade per il governo, di una maggioranza parlamentare precostituita. Talvolta le proposte di iniziativa parlamentare, tendono a tutelare interessi particolari, circoscritti all’area geografica dove il parlamentare è stato eletto; tendono a stimolare le decisioni della maggioranza che può contrapporsi ad esse.
- L’iniziativa della CNEL è disciplinato dall’articolo 99, comma 3, secondo cui la legge fissa i limiti e i principi entro il quale il potere può essere esercitato. La legge del 30 dicembre del 1986, n.936, prevede, tuttavia il potere di iniziativa legislativa del CNEL senza avvalersi della facoltà di cui sopra. Si deve pertanto ritenere che iniziativa del Cnel sia oggi l’iniziativa del tutto libera
- L’iniziativa popolare è disciplinato in primo luogo dall’articolo 71 comma 2 della costituzione, secondo il quale il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno 500.000 elettori, di un progetto redatto in articoli.
L’art. 49, della legge del 25 maggio 1970 n. 352 prevede l’obbligo della redazione in articoli del progetto di iniziativa popolare, l’obbligo per i proponenti di allegare al testo una relazione che ne illustri la finalità e le norme; e l’art. 48 stabilisce che il progetto corredato dalla firme degli elettori proponenti, sia presentato al presidente di una delle due camere, e alla camera adita spetti il compito di provvedere alla verifica e al computo delle firme dei richiedenti al fine di accertare la regolarità della richiesta.
Quanto ai limiti sono rinvenibili in riferimento a quelli del referendum abrogativo articolo 75, o individuati come riferimento alle leggi meramente formali e alle leggi di autorizzazione. Il potere di iniziativa legislativa spettante al popolo consiste concretamente nella possibilità di attivare un procedimento da cui eventuale conclusione dipende esclusivamente dalle camere. Ne consegue la legittimità di qualsiasi intervento da parte dell’iniziativa popolare, con l’unica eccezione dei casi di iniziativa riservata.
Quanto all’obbligo, che graverebbe sulla camera adita, di deliberare sul progetto di iniziativa popolare, si concretizza non nell’obbligo di deliberare, ma più limitatamente in quello di dare inizio al procedimento legislativo.
Sul piano operativo si può osservare che il ricorso all’iniziativa popolare avviene di solito ad opera di partiti e movimenti che non sono rappresentati in Parlamento, o come strumento sostitutivo dell’iniziativa parlamentare. In questo secondo caso si ritiene che iniziativa popolare in quanto sottoscritta da almeno 500.000 elettori, abbia una valenza politica, di freno o di stimolo, nei confronti della maggioranza del governo, superiore a quella che potrebbe avere una corrispondente iniziativa parlamentare.
Infine per i progetti di legge di iniziativa popolare non vale il principio della decadenza al termine della legislatura, degli atti di iniziativa legislativa che non siano state ancora approvati definitivamente dalle due camere. Il regolamento della camera stabilisce infatti che non è necessaria la loro rappresentazione. La ratio di tale norma risiede soltanto nella difficoltà materiale di accogliere nuovamente 500.000 firme necessarie alla ripresentazione nella nuova legislatura del progetto di iniziativa popolare difficoltà che non sussiste per altri atti di iniziativa.
- Potere di iniziativa alle regioni
L’articolo 121 comma 2, della costituzione, attribuisce il potere di iniziativa legislativa alle regioni senza fissare alcun limite al riguardo limitandosi a specificare che il relativo esercizio spetta al consiglio regionale. La citata norma costituzionale è di immediata applicazione da ciò consegue che ciascuna regione, può in concreto esercitare l’iniziativa legislativa.
Gli statuti di alcune regioni ad autonomia speciale limitano l’iniziativa delle suddette regioni alla materia di particolare interesse per la regione. Viene da chiedersi a questo punto se debba ritenersi esteso tale limite anche a tutte le altre regioni, siano esse ad autonomia ordinaria o speciale.
Riguardo al rapporto tra regioni a statuto ordinario e speciale, queste ultime hanno maggior autonomia rispetto alle seconde. Sarebbe del tutto contraddittorio nei confronti di tali principi ritenere che la situazione si ribalti a proposito di uno solo dei poteri nei quali si realizza l’autonomia regionale, il potere di iniziativa legislativa. La necessità di evitare tale contraddizione consiglia pertanto di accettare la soluzione secondo cui anche tutte le regioni a statuto ordinario possono esercitare l’iniziativa legislativa soltanto su materie di particolare interesse della regione.
Le proposte di leggi regionali devono essere approvato dal consiglio regionale, successivamente presentate dal presidente della giunta al ramo del Parlamento indicato dal consiglio nella sua deliberazione, o in mancanza scelto dallo stesso presidente della giunta.
Tale procedura ha subito una deroga, in quanto i progetti di legge approvati dal consiglio regionale vengono inviati dal presidente della giunta regionale al governo, affinché questi provveda alla presentazione del progetto
Articolo 133, comma 1 della costituzione, stabilisce che il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove province, avviene “su iniziativa dei comuni”. Si pone proprio il problema dell’espressione “su iniziativa dei comuni”, trattandosi di stabilire se con tali espressioni i costituenti avessero voluto attribuire ai comuni un potere di iniziativa legislativa in senso proprio o un semplice potere di richiesta, come condizione per l’esercizio di atti di iniziativa da parte di altri soggetti.
La chiave per la soluzione è rintracciabile nello stesso testo al comma 1 dell’articolo 133, quest’ultimo se viene assunto per via ipotetica come vero, porta a considerare la precedente espressione, come potere riservato ad un soggetto specifico, i comuni. Si potrà giungere alla conclusione che si riconosce a queste ultime un potere riservato; le camere non potrebbero approvare una legge per il mutamento di una circoscrizione senza l’intervento preliminare della maggioranza dei comuni interessati.
Se il comma 1 attribuisce un potere di iniziativa legislativa, questo riferendosi esclusivamente ai comuni dovrà essere necessariamente un potere di iniziativa legislativa riservato. Se però si riesce a dimostrare che altri soggetti diversi dai comuni possono presentare proposte di legge, sarà facile dedurre che non soltanto non si tratta di un caso di iniziativa riservata, ma anche che non si tratta di un caso di attribuzione del potere di iniziativa legislativa.
Nella prassi parlamentare infatti ormai non si consolidata l’ammissibilità di atti di iniziativa legislativa, per l’istituzione di nuove province, e proposte da soggetti diversi dai comuni. Questo è anche riscontrabile nel lavoro al riguardo svolto dalla corte costituzionale.
È pertanto da ritenere che l’articolo 133, comma 1, attribuisca ai comuni non un potere di iniziativa legislativa bensì un potere di semplice richiesta, il cui esercizio è stato considerato alla stregua di una condizione necessaria talvolta per l’assegnazione alle competenti commissioni delle proposte.
- Iniziativa riservata.
Riguardo il potere di iniziativa legislativa, esistono casi nei quali esso può essere esercitato soltanto da uno o più soggetti determinati. In tali casi si parla di iniziativa riservata ed il problema che subito si pone riguarda la definizione di criteri per individuare le singole fattispecie nelle quali tale figura ricorre.
Un tentativo di definire un criterio di carattere generale è quello secondo cui sarebbe riservata al governo l’iniziativa di tutte le leggi di autorizzazione e di approvazione, in quanto tali leggi presuppongono un organo diverso dal Parlamento, il cui atto deve essere autorizzato o approvato, ma non esclude di per se che un soggetto diverso dal governo possa avere la disponibilità di tale atto e che pertanto decida, in caso di inerzia del governo, di presentare un proprio atto di iniziativa legislativa.
Si pensi, come si è già verificato nella prassi, ad un atto di iniziativa parlamentare una legge di autorizzazione alla ratifica del trattato internazionale, art.80, qualora sia disponibile il testo del trattato sottoscritto dal governo e quest’ultimo non abbia presentato un proprio disegno di legge. In realtà affinché vi sia una iniziativa riservata al governo, occorre che tale atto si trovi nella disponibilità del suo governo.
L’individuazione dei casi di iniziativa legislativa riservata deve compiersi innanzitutto sulla base del diritto positivo e più specificatamente con riguardo alle disposizioni formalmente costituzionali che riservano ad uno o più soggetti l’esercizio del potere di iniziativa legislativa su determinati oggetti. L’esigenza che tali disposizioni abbiano natura formalmente costituzionale è intuitiva, ogni caso di riserva dell’iniziativa in favore di un soggetto, costituisce automaticamente una limitazione del potere di iniziativa degli altri soggetti titolari; potere che essendo ad essi attribuito in modo pieno da disposizioni costituzionali, può essere validamente limitato soltanto da disposizioni di pari grado. Pertanto eventuali disposizioni di legge ordinaria, che stabiliscano iniziative legislative riservate sono illegittime, a meno che non sia possibile interpretarle riduttivamente come disposizioni che si limitano a ribadire ed esplicitare nei confronti di determinati titolari, del potere di iniziativa legislativa, una competenza che tuttavia resta propria, anche di tutti gli altri titolari.
Si ha iniziativa riservata,:
- quando la riserva è espressamente stabilita da una disposizione costituzionale. Tale ipotesi ricorre nel caso dell’articolo 81, comma 1, secondo il quale le camere approvano ogni anno il bilancio del rendiconto consuntivo presentati dal governo; dall’articolo 77 secondo il quale, quando il governo adotta sotto sua responsabilità provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle camere.
Nella dizione bilanci rendiconto consuntivo, dell’articolo 81, devono intendersi ricompresi i disegni di legge relativi al bilancio di previsione, annuale e pluriennale, ed al rendiconto generale, nonché in quanto essi funzionalmente e strutturalmente connessi, il disegno di legge finanziaria ed il disegno di legge per l’assestamento del bilancio dello Stato.
Nei soli casi di riserva espressa, la tassatività della norma che tale riserva stabilisce sembra essere tale da escludere comunque ogni altro possibile argomento tendente, in caso di inerzia del soggetto competente ad esercitare l’iniziativa, a consentire interventi sostitutivi da parte di altri soggetti titolari del potere di iniziativa legislativa, ciò vale in particolare per la presentazione del disegno di legge di conversione di un decreto-legge che l’articolo 77 della costituzione riserva al governo.
A fronte di tale previsione espressa nell’ipotesi in cui il governo non adempisse al proprio obbligo, la circostanza della conoscibilità del testo del decreto-legge derivante dalla sua pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, non è in questo caso argomento sufficiente a consentire ad altri soggetti la presentazione di un progetto di legge per la conversione del decreto.
- Si ha inoltre iniziativa riservata, quando la riserva sia implicitamente ricavabile dal testo di una disposizione costituzionale. Quando al governo spetta l’iniziativa delle leggi regolatrici dei rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni religiose diverse dalla cattolica così come prescrive l’articolo 8.
- Infine si ha iniziativa riservata, sia pure in senso tecnico, quando in assenza di disposizioni costituzionali, disciplinanti l’eventuale riserva, la predisposizione di un progetto di legge su un determinato oggetto, presuppone nel soggetto proponente la conoscenza la disponibilità di specifici dati e documenti. E semplificando si può dire che se l’articolo 81 non avesse riservato al governo l’iniziativa delle leggi di approvazione del bilancio dello Stato, sarebbe comunque spettata al governo in quanto unico organo, che dispone di dati degli strumenti tecnici, necessari per la predisposizione del bilancio.
Un discorso più ampio e necessario per iniziativa delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, di cui all’articolo 80, poiché in passato vi è stata una divisione piuttosto netta in dottrina in ordine alla qualificazione o meno di tale iniziativa come riservata al solo governo.
Gli argomenti a sostegno della tesi sono due: l’uno, di carattere generale, derivante dal principio secondo cui l’autorizzazione può essere richiesta soltanto dal soggetto titolare del diritto della potestà di compiere l’atto soggetto ad autorizzazione; l’altro derivante dal dato di fatto secondo cui soltanto il governo in quanto soggetto che ha negoziato il trattato, ha la conoscenza legale del testo di quest’ultimo, da allegare al disegno di legge con il quale si chiede l’autorizzazione alla ratifica. Tuttavia in questo caso però si può anche dire che i trattati multilaterali, sono dei testi che possono essere conosciuti da tutti i soggetti titolari del potere di iniziativa o perché predisposti da una organizzazione internazionale, perché si configura un trattato aperto già in vigore presso altri Stati.
Infine, ai sensi della legge dell’11 dicembre del 1984, tutti trattati i quali la Repubblica italiana si obbliga nelle relazioni internazionali devono essere comunicate alle presidenze delle due camere a cura del ministero degli affari esteri, non oltre un mese dopo la loro sottoscrizione: derivando da quest’ultima norma la concreta possibilità di conoscere il testo di qualsiasi trattato soggetto a legge di autorizzazione alla ratifica, direttamente da parte dei singoli parlamentari ed indirettamente, per il tramite di questi ultimi da parte degli altri soggetti titolari del potere di iniziativa legislativa
Iniziativa vincolata
L’iniziativa legislativa è qualificabile anche come vincolata o dovuta esempi di tali casi sono: i disegni di legge di conversione dei decreti legge, disegni di legge di approvazione del bilancio preventivo delle rendiconto consuntivo dello Stato, il disegno di legge di concessione dell’esercizio provvisorio del bilancio dello Stato, il disegno di legge finanziaria e di disegni di legge comunitaria e in senso lato tutti gli atti di iniziativa legislativa relativi a leggi che la costituzione definisce necessaria per la loro attuazione.
Controversa è la qualificazione come atto di iniziativa vincolata del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, di cui all’articolo 80.
La tesi affermativa spiega la doverosità di tale atto di iniziativa sulla base di una norma di diritto internazionale, in base alla quale gli Stati, i cui parlamenti abbiano concluso un trattato, sono tenuti a manifestare la propria volontà in ordine al trattato, utilizzando o negando la ratifica; da ciò discendono nella fattispecie l’obbligo del governo di esercitare l’iniziativa legislativa onde consentire alle camere di pronunciarsi sull’autorizzazione alla ratifica del trattato.
La tesi contraria,ritiene che l’obbligo previsto può essere comunque soddisfatto da una comunicazione del governo alla controparte internazionale non voler più addivenire alla ratifica del trattato; il riconoscimento di tale facoltà al governo non può essere considerato in contrasto con l’articolo 80, poiché tale norma imporrebbe l’intervento ed il consenso delle camere solo ai fini dell’instaurazione di un vincolo pattizio per lo Stato italiano, e non richiederebbe invece una decisione parlamentare, anche per la rinuncia a aderire ad un accordo.
Tuttavia l’intervento parlamentare, infatti, non ha soltanto la funzione di controllare l’operato del governo ma è anche volto ad evitare che dall’azione e dall’inerzia di quest’ultimo possono derivare sul piano della politica estera conseguenze definitive per lo Stato italiano nei confronti di altri soggetti internazionali, come inevitabilmente avverrebbe se si ammettesse il governo dopo aver concluso un trattato, fosse poi libero di non esercitare la relativa iniziativa legislativa.
Le norme che prevedono espressamente o implicitamente, l’ipotesi di iniziativa vincolata non devono necessariamente essere contenute in disposizione formalmente costituzionali.
Poiché non si verifica la limitazione del potere di altri soggetti. È una necessaria specularità di tipo logico-giuridico tra iniziative riservate e iniziativa vincolata. La coincidenza del carattere riservato e quello vincolato di un atto di iniziativa legislativa sembra sussistere esclusivamente quando tale coincidenza sia positivamente stabilita da una norma.
4. Il potere di ritiro
Il presupposto del potere di ritiro degli atti di iniziativa legislativa.
Si deve partire dall’affermazione secondo la quale anche se non vi è una norma che prevede espressamente il potere di ritiro di progetti di legge, il suddetto potere costituirebbe sempre comunque il necessario corrispettivo dell’iniziativa.
La libertà di scelta, che si concreta con il potere di ritiro, del soggetto proponente può distinguersi a seconda che: si riferisca all’esercizio dello stesso potere di iniziativa o all’oggetto dell’iniziativa o, alle regolamentazioni che di tale oggetto si vuole proporre. Pertanto mentre la mancanza di tutte le misure indicate libertà di scelta determina l’inammissibilità del potere di ritiro, la presenza anche solo di una di esse ne consente l’esercizio.
Nell’ordinamento italiano la carenza totale di libertà di scelta per i proponenti sembra sussistere nei confronti dei disegni di legge, di approvazione del rendiconto consuntivo dello Stato e di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali: tali disegni di legge, non possono essere ritirati.
Dalla premessa secondo cui il potere di ritiro trova il suo fondamento in un minimo di libertà contenuto del potere di iniziativa legislativa, deriva che i titolari del potere di iniziativa sono gli stessi titolari del potere di ritiro.
- Per quanto attiene al potere di ritiro del governo, bisogna compiere qualche precisazione circa la possibilità che esso venga esercitato:
- dal governo dimissionario àl’esercizio del potere di ritiro deve essere ritenuto ammissibile poiché il governo ritardando i propri disegni di legge, giacenti in Parlamento, non riafferma, inammissibilmente, un programma politico da presumere oramai bocciato bensì procedere ad eliminare in sede parlamentare, le tracce dei residui di quel programma.
- dal governo nominato, ma ancora in attesa della fiducia. occorre distinguere tra
- il ritiro dei propri disegni di legge che il governa in attesa della fiducia avesse presentato alle camere, per chiarire il programma politico. Nella prima ipotesi il ritiro deve ritenersi ammissibile, poiché così come i disegni di legge presentati tra la nomina e la fiducia valevano a chiarire il programma, che il governo avrebbe esposto alle camere, allo stesso modo il loro ritiro può essere determinato dalla volontà sopravvenuta di modificare tale programma, prima del dibattito sulla fiducia o da possibili dubbi circa la scarsa chiarezza dei disegni di legge presentati, in ordine alla individuazione ed alla specificazione del programma originario.
- ritiro di disegni di legge presentato dal precedente governo. Nella seconda ipotesi il potere di ritiro è probabilmente inammissibile. Nella prassi il governo all’atto delle proprie azioni programmatiche che introducono il dibattito sulla fiducia, è solito annunciare non già quali dei disegni di legge del precedente governo intenda ritirare bensì quale intenda fare propri, comunicando in tal modo alle camere di essere politicamente interessato a che soltanto alcuni dei disegni di legge giacenti in Parlamento proseguano il loro iter legislativo. Questo la duplice funzione di chiarire il programma del governo prima della fiducia e di produrre nei confronti dei disegni di legge non fatti propri gli stessi effetti pratici delle ritiro.
Ritiro dei progetti di legge di iniziativa parlamentare
Titolare del potere di ritiro di una proposta di legge di iniziativa parlamentare è il singolo parlamentare; qualora l’iniziativa sia stata esercitata da più parlamentari, il potere di ritiro è condizionato alla volontà concorde di tutti proponenti, poiché il dissenso anche di uno solo di essi farebbe venire meno il presupposto potere di ritiro, e cioè l’identità tra il soggetto esercitante il ritiro, ed il soggetto che ha esercitato la corrispondente iniziativa legislativa.
Il ritiro scaturisce necessariamente da un atto esplicito, in caso di decesso del parlamentare che abbia presentato una proposta di legge, tale proposta non decade né si intende tacitamente ritirata;
la stessa soluzione vale altresì per le proposte di legge presentate da parlamentari, l’elezione dei quali, non sia stata convalidata. Questa affermazione presuppone che il potere di ritiro possa legittimamente essere esercitato da parte dei parlamentari anche antecedentemente alla convalida della loro elezione, poiché entrano immediatamente nello esercizio delle funzioni con la proclamazione della loro elezione.
- Il ritiro dei progetti di legge di iniziativa popolare, il principio della corrispondenza tra il soggetto che ha esercitato l’atto di iniziativa legislativa e il soggetto che esercita il ritiro di tale atto comporta che il progetto di legge popolare può essere ritirato soltanto ad opera della volontà unanime degli stessi 50.000 o più firmatari di quel progetto.
La diversa tesi sembra ritenere possibile una ritiro con numero di firme tali da ridurre al di sotto di 50.000 il numero dei firmatari del progetto di legge, ciò però determinerebbe l’inaccettabile conseguenza di consentire indirettamente il ritiro di un progetto ad opera di soggetti numericamente inferiori. Non può neppure parlarsi, di decadenza del progetto di legge, poiché rimane validamente iscritto all’ordine del giorno dell’una o dell’altra camera, per forza propria ed indipendentemente dalle vicende che possono coinvolgere il proponente.
Infine, il ritiro di atti di iniziativa legislativa, rispetto ai quali sussiste una dissociazione tra il soggetto titolare dell’atto, ed il soggetto al quale spetta la materiale presentazione alle camere di tale atto, deve avvenire anche esso secondo il medesimo schema dissociato: l’atto di ritiro può essere deciso soltanto del primo soggetto e, deve essere trasmesso dal secondo soggetto al presidente, del ramo del Parlamento presso cui era stato presentato il progetto di legge.
Forma del ritiro.
La corrispondenza tra iniziativa e ritiro implica ancora che l’atto di ritiro debba rivestire la stessa forma dell’antecedente atto di iniziativa: la vincolatività della forma garantisce, che il soggetto autore dell’atto di ritiro di un progetto sia lo stesso che ha proposto l’atto di iniziativa.
Nei confronti del ritiro dei disegni di legge del governo si è ravvisato un’eccezione al principio dell’identità di forma, sostenendosi la non necessità dell’autorizzazione del presidente della Repubblica. Tale eccezione non sembra condivisibile, poiché dal momento che l’intervento del presidente della Repubblica, ha una funzione di controllo quanto meno sulla regolarità del procedimento di formazione dell’atto di ritiro, l’autorizzazione presidenziale attesta che l’atto di ritiro è stato effettivamente deliberato dal consiglio dei ministri.
La soluzione è diversa per quei casi nei quali il governo non esercita il proprio potere d’iniziativa ma deve soltanto presentare all’una o all’altra camera, progetti di legge e di iniziativa di altri soggetti.
Il governo non può formalmente procedere al ritiro del progetto di legge, se non abbia prima acquisito il consenso del titolare o se non sia stato da quest’ultimo sollecitato in tal senso, l’atto di ritiro di quanto formalmente trasmesso dal governo, e sostanzialmente deciso da un soggetto diverso viene direttamente comunicato dal presidente del consiglio alla camera o al senato senza bisogno della deliberazione del consiglio dei ministri, ed il decreto di autorizzazione del presidente della repubblica.
Il termine per l’esercizio del potere di ritiro
Un’ulteriore precisazione riguarda la determinazione del momento entro il quale esso può essere esercitato. Anche se tale termine non è indicato da nessuna disposizione, la prassi è nel senso che il ritiro di un progetto di legge è ammissibile, purché avvenga prima della sua approvazione finale da parte della camera alla quale è stato presentato l’atto di iniziativa.
La richiesta di trasferimento di un disegno di legge da un ramo all’altro del Parlamento.
Allude alla richiesta da parte del governo, nei confronti della camera alla quale è stato presentato un disegno di legge, di trasferire quest’ultimo all’altra camera, di solito per ragioni di connessione della materia con altri disegni di legge, oppure per motivi di urgenza in relazione alla programmazione dei lavori parlamentari predisposta da ciascuna camera.
Il disegno di legge di cui si richiede la restituzione al governo per essere presentato all’altro ramo del Parlamento ed è contestualmente cancellato dall’ordine del giorno della camera che ha provveduto alla restituzione. Inizialmente la restituzione veniva deliberata dall’assemblea; attualmente la prassi era ormai consolidata nel senso che il presidente dell’assemblea si limita a dare comunicazione del provvedimento di restituzione già attuato: pertanto, la richiesta del governo produce effetti automatici e non vi è alcuna discrezionalità da parte dell’assemblea.
Da tale procedimento balza agli occhi, un’evidente discrepanza tra:
- ciò che il governo richiede, ovvero il trasferimento del disegno di legge presso l’altro ramo del Parlamento,
- e ciò che la camera concede ovvero la restituzione del disegno di legge.
Tale discrepanza è in parte giustificabile in quanto la camera adita non potrebbe operare essa stessa un trasferimento poiché la possibilità di relazione tra le due camere, nell’ambito del procedimento legislativo è quella che si attua mediante la trasmissione dall’uno all’altro ramo del Parlamento di progetti di legge già approvati da uno dei rami suddetti.
Non si comprende perché non possa essere richiesta direttamente la restituzione, non potendo questa essere interpretata come un atto di ritiro, in quanto esistono delle notevoli differenze: il ritiro pone nel nulla il precedente atto di iniziativa, la richiesta di trasferimento implica soltanto la revoca della presentazione di tale atto, gli impedisce di produrre i suoi effetti.
In riferimento alla procedura seguita nella prassi per la richiesta di trasferimento di un disegno di legge da parte del governo possiamo dire che non è necessaria la ripetizione della procedimento di formazione dell’atto di iniziativa. Trattandosi infatti, di rinnovo non dell’atto di iniziativa ma soltanto della presentazione dello stesso, non è necessaria la deliberazione del consiglio dei ministri, né l’autorizzazione del presidente della repubblica, bastando la sola richiesta del presidente del consiglio d’intesa con il ministro proponente.
Inoltre è possibile richiedere il trasferimento anche nell’ipotesi nelle quali non sussiste il potere di ritiro dal momento che gli argomenti che spingevano ad escludere la possibilità di esercitare il potere di ritiro non valgono per la richiesta di trasferimento: quest’ultima non è condizionata dalla mancanza dalla presenza nell’atto di iniziativa di una dose di libertà e inoltre non interrompe il procedimento legislativo ma ordina semplicemente un trasferimento della sede.
Nella prassi non pare che le richieste di trasferimento di progetti di legge siano mai state avanzate da soggetti diversi dal governo. Qualora una tale eventualità si verificasse, la soluzione dovrebbe certamente essere negativa. Tale potere non sembra potersi riconoscere ad altri soggetti con potere di iniziativa legislativa, poiché non hanno come il governo potere di indirizzo politico.
La richiesta di restituzione per ripresentare l’atto all’altro ramo del Parlamento subisce la limitazione del previo accordo tra governo e del soggetto che ha predisposto uno specifico atto di iniziativa legislativa. Nel caso in esame il governo, in quanto esercita il potere esclusivo dal quale scaturisce un impegno sanzionabile, sotto il profilo della responsabilità politica, potrebbe legittimamente rifiutarsi di accedere alla richiesta del proponente di trasferire il progetto di legge presso l’altra camera. In tal caso si può parlare quindi di accordo necessario.
La sorte finale dei progetti di legge può essere di vari tipi:
- positiva, qualora il progetto di legge risulti approvato in un identico testo dalle due camere al termine del procedimento: in tal caso, come si vedrà più oltre, la legge è trasmessa, per il tramite del governo, al presidente della Repubblica per la promulgazione, e successivamente al Ministro di grazia e giustizia per la pubblicazione in gazzetta ufficiale.
- Negativa, qualora il progetto di legge sia respinto dall’una o dall’altra camera, in tal caso: il progetto di legge viene cancellato dall’ordine del giorno della camera che lo ha bocciato.
- Interlocutoria qualora il progetto di legge non venga mai esaminato in sede parlamentare oppure venga esaminato, ed eventualmente anche approvato, da una camera ma non si giunga all’approvazione finale da parte delle 2 camere: in tal caso il progetto di legge resta iscritto all’ordine del giorno della camera che lo sta esaminando o che poi dovrebbe esaminarlo.Tale iscrizione all’ordine del giorno non è a tempo indeterminato poiché alla scadenza della legislatura con l’inizio della nuova, si verifica la decadenza di tutti gli atti non definitivamente approvati.
Il suddetto principio è da ritenere oramai di natura consuetudinaria e si giustifica per il fatto che ad ogni rinnovo elettorale potrebbero esprimere orientamenti politici diversi, che per tale ragione non devono essere in alcun modo vincolati, da atti precedentemente compiuti dalle vecchie camere.
Il principio sopperisce piuttosto all’esigenza essenzialmente di ordine pratico di evitare l’ingolfamento dell’attività parlamentare a seguito della sopravvivenza delle già tanto numerose iniziative legislative.
Le eccezioni al principio della decadenza per fine legislatura
Analogamente, il principio della decadenza di fine legislatura dei progetti di legge non definitivamente approvati dalle due camere non vale in tre casi:
- Il primo è quello relativo ai progetti di legge di iniziativa popolare presentati nelle camere della precedente legislatura per i quali, ai sensi dei regolamenti della camera e del senato, non è necessaria la ripresentazione all’inizio della nuova legislatura.
- Il secondo è quello relativo ai progetti di legge approvati dalle due camere, ma ad esse rinviati dal presidente della Repubblica per una nuova deliberazione a norma dell’articolo 74 della costituzione. Questo secondo caso fa riferimento al parere espresso dalla giunta per il regolamento della camera e del senato. Ciò comporta che il provvedimento legislativo inviato dal capo dello stato, qualora nella precedente legislatura abbia iniziato il proprio iter in senato, non dovrà essere ripresentato: bensì soltanto nuovamente assegnato alle commissioni competenti per materia, fermo restando la procedura dell’articolo 136 comma 2 del regolamento del senato.
- Il terzo caso è quello relativo ai disegni di legge di conversione dei decreti legge. Il punto è affrontato e risolto dalla stessa legge del 31 gennaio del 1926, n. 100 che all’articolo 3 dispone espressamente: “in caso di chiusura della sessione, all’apertura della nuova sessione, il disegno di legge per la conversione si ritiene ripresentato dinanzi alla camera, presso cui era pendente per l’esame.” Attualmente, l’annuncio del mantenimento del all’ordine del giorno dei suddetti disegni di legge della nuova legislatura viene fatto dal presidente della camera o del senato: a norma dell’articolo 77.
Non si riesce a comprendere tuttavia da quale norma contenuta nell’articolo 77, si possa ricavare il principio della permanenza nella nuova legislatura di disegni di legge in questione. Il mantenimento all’ordine del giorno di disegni di legge di conversione dei decreti legge, può solo in parte dipendere, dall’esigenza di non dover rinnovare tutto il lavoro parlamentare, al riguardo eventualmente compiuto dalle vecchie camere, sottraendo così tempo prezioso dalle nuove camere ai fini della loro conversione. Infatti potrebbe il giorno stesso della convocazione delle camere neo-elette, il governo vorrebbe ripresentare il disegno di legge e contestualmente richiederne l’applicazione del procedimento abbreviato previsti dall’articolo 107 del regolamento alla camera e 81 del senato, qualora ricorrano i presupposti fissati da tali disposizioni, e ciò che il disegno di legge sia già stato approvato dalla camera, oppure che l’esame in sede referente da parte della commissione sia anch’esso già concluso con l’approvazione della relazione.
Il motivo del mantenimento all’ordine del giorno dei progetti di legge di inziativa parlamentare è semplicemente un’altra difficoltà di raccogliere nuovi 500.000 firme richieste dalla costituzione.
I motivi che stanno alla base del mantenimento dell’ordine del giorno delle leggi rinviate al capo dello Stato alle camere per una nuova deliberazione sono più consistenti delle precedenti. Innanzitutto in questo caso non si tratta di progetti di legge ancora all’esame delle camere ma di legge vera e propria, in quanto risultante dall’approvazione dell’ identico testo da parte della camera e del senato, anche se ancora inefficace per la mancanza della promulgazione e della pubblicazione.
5.Gli effetti della presentazione dell’atto di iniziativa
La presentazione di un atto di iniziativa legislativa produce una serie di effetti:
- L’attivazione del procedimento legislativo.
La presentazione di un progetto di legge, comporta: il suo annuncio in assemblea da parte del presidente della stessa, la sua stampa e distribuzione, la sua assegnazione alla commissione competente per materia.
La tesi secondo la quale la presentazione ad una delle camere determinerebbe l’obbligo a carico di quest’ultima di giungere comunque ad una deliberazione definitiva, non importa se favorevole o contrario, su progetto di legge, non sembra accettabile, poiché non tiene conto del fatto che le camere sono organi collegiali squisitamente politici e quindi liberi di scegliere i testi da approvare quel che mette da parte dopo un primo esame.
- Un altro effetto prodotto dalla presentazione di un atto di iniziativa è quello di predeterminare la qualificazione giuridica, legge ordinaria legge costituzionale, dell’eventuale legge approvata al termine del procedimento. Ciò potrebbe sembrare una banalità, ma così non è, perché nella prassi, il principio in questione subito deroghe in una duplice direzione: nel corso del procedimento, progetti di legge ordinaria si sono trasformati in progetti di legge costituzionale che all’inverso progetti di legge costituzionale sono stati declassati progetti di legge ordinaria. In un caso si è addirittura tentato di declassare un progetto di legge costituzionale durante la seconda delle due deliberazioni previste dall’articolo 138; tentativo palesemente illegittimo. In altri casi il mutamento della qualificazione giuridica del progetto di legge è avvenuta una volta in seno alla commissione in sede referente; talvolta in un momento successivo, quando il progetto era in discussione in assemblea.
Un’obiezione è quella secondo la quale un eventuale cambiamento o declassamento della legge cambierebbe la scelta effettuata dal titolare dell’iniziativa. Ma la scelta della forma dell’atto di iniziativa si pone come un limite soggettivo dipendente dalla volontà del soggetto proponente il quale, se non è d’accordo al successivo mutamento di forma ha a disposizione un mezzo efficace e di effetto immediato quale il potere di ritiro del progetto di legge; il mancato ritiro, perciò, costituisce la prova della volontà implicita del proponente di acconsentire al mutamento della qualificazione giuridica in itinerari del progetto di legge.
Altra obiezione riguarda i disegni di legge del governo, secondo il quale il mutamento in itinere della loro qualificazione impedirebbe al presidente del repubblica di intervenire in sede di autorizzazione alla presentazione, come invece non sarebbe avvenuto se il governo avesse dovuto procedere alla presentazione di un nuovo disegno di legge.
- Ulteriore effetto derivante dalla presentazione di un atto di iniziativa come stabilito dall’articolo 79 del comma 3 della costituzione, secondo cui, in ogni caso l’amnistia e indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente la presentazione del disegno di legge.
I poteri di controllo sui progetti di legge dei presidenti d’assemblea
Prima dell’annuncio in assemblea dell’avvenuta presentazione di un progetto di legge conseguentemente alla sua stampa, distribuzione e assegnazione alla commissione competente, il presidente dell’assemblea deve preliminarmente compiere alcuni controlli sull’atto di iniziativa, l’esito positivo dei quali rappresenta una condizione indispensabile per poter procedere alla serie di operazioni di cui sopra.
Il regolamento del senato afferma che spetta al presidente il potere di giudicare sulla ricevibilità dei testi.
Nel regolamento della camera manca una disposizione di questo tipo, ma si può ricavare un principio analogo sulla base di una interpretazione analoga dell’articolo 89 della camera.
L’esito del controllo presidenziale sull’eventuale carattere sconveniente dei testi nei quali si concretizza l’atto di iniziativa legislativa in senso stretto, (l’articolato), in senso lato (articolato e la relazione illustrativa dello stesso), incide certamente sulla ricevibilità dell’atto: ciò significa che il presidente a suo insindacabile giudizio, non deve accettare ma restituire ai proponenti progetti di legge, che tanto nel testo dell’articolato, quanto in quello della redazione, presenti i caratteri negativi di cui sopra.
Ciò fa intendere che i progetti di legge devono rispettare dei requisiti formali.
Il problema è se questi requisiti formali devono essere considerati come condizioni di ricevibilità o improcedibilità della progetto di legge, ma in questo caso la situazione tende a divenire confusa. La confusione vi è sia in ordine alla distinzione tra illegittimità formale e in esistenza dell’atto; dai quali derivano improcedibilità e la irricevibilità; sia in che cosa consiste l’improcedibilità.
Quest’ultimo può consistere nel divieto per il presidente di assegnare il progetto di legge alla competente commissione, o come divieto per la commissione alla quale il progetto è stato assegnato di concludere l’esame, o di approvare lo stesso in caso di assegnazione in sede legislativa, fin tanto che la situazione di procedibilità non sia stata risolta.
Date le notevoli difficoltà e allo stato sulla base della prassi vigente, sono ritenuti irricevibili gli atti: per mancanza di requisiti formali oggettivi, i progetti di legge orali, quelli scritti ma il cui testo non sia redatto in articoli, privi della relazione illustrativa.
Lo stesso si può dire per la mancanza di requisiti formali soggettivi per i progetti di legge presentati da un soggetto non ricompreso da quelli previsti dalla costituzione; un soggetto titolare che non sia competente a proporre quel particolare atto di iniziativa, in quanto riservato con altro soggetto specifico, (iniziativa riservata); un parlamentare la cui identità personale non sia stata verificata con sicurezza; un numero di cittadini inferiore a 50.000.
Anche progetti di legge delle regioni che non risultino approvati dai rispettivi consigli regionali e dei disegni di legge del governo, non approvati dal consiglio dei ministri o privi del decreto del presidente della Repubblica di autorizzazione alla presentazione.
È invece dubbio se debbano considerarsi come casi di irricevibilità oppure di improcedibilità tutte con le fattispecie nelle quali un progetto di legge deve essere accompagnato da pareri, richieste o proposte di soggetti diversi dal proponente. Anche per i casi nei quali un progetto di legge deve contenere in allegato un testo al quale fa riferimento l’articolato del progetto stesso: come il testo del decreto-legge allegato al disegno di legge di conversione ecc… Ma qualsiasi fosse la scelta tra irricevibilità o improcedibilità questo non comporterebbe delle conseguenze rilevanti.
Il presidente dell’assemblea deve esercitare i propri poteri di controllo fin qui illustrati, con la massima prudenza ed imparzialità, sottoponendo senza esitazioni al voto dell’assemblea tutti i casi per i quali egli nutra dubbi sulla soluzione da adottare.
È da escludere invece qualsiasi tipo di sindacato da parte del presidente dell’assemblea sulla legittimità sostanziale delle disposizioni, contenute negli atti di iniziativa legislativa.
In primo luogo perché esistono organi interni delle due camere specificatamente competenti a valutare la legittimità dei progetti di legge: le commissioni.
In secondo luogo perché ciascun parlamentare può proporre nei confronti di un progetto di legge la questione pregiudiziale di costituzionalità, e qualora venga approvato dall’assemblea, fa sì che il progetti di legge non venga più discusso. Perché le camere sono un’assemblea di natura squisitamente politica e la loro capacità decisionale non può essere esclusa o anche soltanto limitata da precedenti decisioni di propri organi, come presidenti.
Nel punto di improcedibilità temporanea.
Nel regolamento del senato e della camera sono contenute delle disposizioni per le quali non possono essere assegnate alle commissioni, progetti di legge che riproducono sostanzialmente il contenuto di progetti di legge precedentemente respinti, se non siano trascorsi sei mesi dalla data della reiezione. La ragione di tale norma risiede nell’opportunità di evitare che le camere discutano continuamente un argomento già deciso in senso negativo, se non dopo un lasso di tempo tale da far presumere almeno la possibilità teorica, di un mutamento della volontà politica delle camere al riguardo. La suddetta causa di improcedibilità non opera nei confronti di tutti progetti di legge: sono esclusi:
- i disegni di legge e di approvazione degli statuti delle regioni ad autonomia ordinaria.
- I disegni di legge di conversione dei decreti legge che riproducono il contenuto di precedenti progetti di legge respinti dalle camere.
- I progetti di legge che intendono regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti,anche qualora si tratti di una sanatoria per così dire integrale ed a prescindere dalla causa della decadenza del decreto-legge.
6. l’assegnazione dei progetti di legge.
Dopo le verifiche effettuate sul progetto di legge, quest’ultimo viene annunciato in una prima seduta dell’assemblea, viene inserito nell’ordine del giorno generale, stampato e distribuito, nel più breve tempo possibile e quindi assegnato ad una commissione competente.
Al senato tale compito è di competenza del presidente.
Alla camera l’assegnazione è diversa a seconda che si tratti di un’assegnazione in sede referente: la decisione spetta al presidente ma essa può essere ribaltata dall’assemblea; in sede legislativa, e in sede redigente, il presidente ha soltanto il potere di proposta nei confronti dell’assemblea, anche se le modalità procedurali variano a seconda che si tratti di un’assegnazione in sede legislativa o in sede redigente.
L’assegnazione può avvenire nei confronti di: una sola delle commissioni permanenti esistenti presso i rami del Parlamento; o di due di tali commissioni (assegnazione a commissioni riunite), quando non sia possibile individuare una competenza prevalente di una sola commissione; ad una commissione speciale istituita per l’occasione, ove ve ne sia ravvisato l’opportunità.
Gli eventuali conflitti di competenza sono risolti dal presidente dell’assemblea.
Le funzioni dell’atto di assegnazione di progetti di legge:
- Individuare la commissione (o le commissioni), competente per materia, decidere in quale sede, referente, legislativa o redigente, la commissione che dovrà procedere all’esame.
Trasferimenti di sede
Ci possono essere dei trasferimenti di sede anche nel corso del iter legislativo. Il trasferimento della sede referente, alla legislativa o redigente, può venire su richiesta della commissione che esamina il progetto di legge in sede referente, con l’assenso del governo. Il trasferimento da sede legislativa alla sede referente, avviene nei casi di suddetta remissione del progetto di legge all’assemblea: su richiesta del governo di 1/10 di membri dell’assemblea o di 1/5 della commissione; ma quando la commissione di merito intenda proseguire nella discussione disattendendo i pareri di altre commissioni ai quali regolamenti attribuiscono efficacia vincolante.
Pareri
All’atto di assegnazione di un progetto di legge, il presidente dell’assemblea può decidere che su tale progetto debba essere acquisito il parere di altre commissioni: quando il contenuto del progetto di legge ha degli aspetti che rientrano nella competenza di altre commissioni. E la fissazione di un parere può anche avvenire successivamente all’atto di assegnazione, previo consenso del presidente.
I pareri possono essere:
- vincolanti à Per quanto riguarda i pareri vincolanti, cioè quelli che un soggetto deve acquisire ed al quale deve uniformarsi, salvo la possibilità di rinunciare ad adottare la sua competenza.
- tale parere non può dirsi vincolante in sede referente perché può essere superato dalla decisione dell’assemblea;
- in sede legislativa o redigente, sono tenute ad uniformarsi, ma si se vogliono dissociare le conseguenze possono essere diversi:
- la commissione può rinunciare al seguito della discussione
- se invece la commissione intende procedere alla discussione, disattendendo il parere contrario, il progetto è automaticamente rimesso all’assemblea ed il procedimento legislativo si trasforma da speciale ad ordinario con mutamento nell’assegnazione del progetto alla commissione, non più legislativa, ma dalla sede redigente a quella referente.
- obbligatorià obbligatori sono i pareri che il presidente dell’assemblea è tenuto a prevedere sulla base di norme del regolamento, all’atto dell’assegnazione di un progetto di legge alla commissione competente nel merito e che quest’ultima deve acquisire.
- facoltativi.à Il parere facoltativo s’intende il parere che una commissione di merito può liberamente richiedere ad un’altra commissione; il parere facoltativo può essere previsto dal presidente in base ad una propria valutazione discrezionale, potere in questo caso non richiesto dal soggetto competente nel merito (la commissione), ma da un soggetto terzo (il presidente).
I pareri delle commissioni filtro e di pareri rinforzati.
Pareri obbligatori e vincolanti sono quelli delle cosiddette commissioni-filtro, di quelle commissioni, cioè, che devono controllare determinati aspetti dei progetti di legge, ritenuti particolarmente importanti, affari costituzionali, bilancio e lavoro. Pareri facoltativi, ma anche vincolanti (pareri i rinforzati).
Termini per l’espressione dei pareri.
Si prevede la possibilità della loro proroga da parte della commissione di merito. Il decorso del termine senza che il parere sia stato espresso consente alla commissione di merito di procedere:
al senato tale principio viene applicato senza eccezioni a prescindere dalla sede nella quale il progetto è esaminato, in quanto si ritiene che la scadenza del termine senza che sia dato un parere, si desume la volontà della commissione di non esprimere alcun parere;
alla camera invece il principio non viene ritenuto applicabile per quanto concerne i pareri vincolanti espressi su progetti di legge all’esame del commissioni, in sede legislativa. Si determina la non perentorietà dei termini fissati dei suddetti pareri, questo alla camera può determinare l’allungamento dei tempi dell’approvazione.
I regolamenti prevedono altresì diverse formule per i pareri:
nulla osta l’ulteriore corso del progetto, parere favorevole, contrario, favorevole con osservazioni, favorevole condizionatamente a modifiche specificatamente formulate.
La differenza tra le due ultime formulazioni consiste nel fatto che nel primo caso la commissione di merito è libera di recepire o meno le osservazioni formulate nel pareri, nel secondo essa vincola all’accoglimento delle modifiche, che la commissione consultata ha posto come condizione del parere favorevole.
Il procedimento legislativo normale è nelle sue linee generali dell’articolo 72 comma 1, della costituzione, secondo cui ogni disegno di legge presentato ad una camera è secondo le norme del suo regolamento esaminato da una commissione poi dalla camera stessa, che approva articolo per articolo e con votazione finale. Per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione dei bilanci e i consuntivi, è previsto specificatamente in maniera obbligatoria il procedimento normale.
Da ciò deriva la riserva di legge d’assemblea che ha incontrato dei problemi in ordine all’interpretazione delle fattispecie alle quali deve applicarsi, con particolare riferimento all’espressione disegni di legge in materia costituzionale.
- Tale espressione è stata interpretata in riferimento alle leggi formalmente costituzionali previste dall’articolo 138 della costituzione.
- Per quanto attiene alle altre fattispecie dell’articolo 72 occorre innanzitutto osservare il divieto di approvazione in sede legislativa o redigente di un progetto di legge sussiste non soltanto quando il progetto nel suo complesso riguardi una delle suddette fattispecie, ma anche quando ciò si verifichi una singola disposizione del progetto stesso. L’esempio più frequentemente rappresentato dai progetti di legge cosiddetti di delegazione mista, in quanto contenenti sia disposizioni di immediata applicazione, sia disposizioni che prevedono una delega legislativa al governo ai sensi dell’articolo 76: l’assegnazione di tali progetti di legge alle commissioni in sede legislativa o redigente è possibile soltanto previo “stralcio” del secondo tipo di disposizioni dal testo del progetto di legge.
- Per quanto riguarda leggi in materia elettorale e comprendono qualsiasi legge che si riferisca alle elezioni, non importa se si tratti di elezioni politiche o amministrative.
- Anche in riferimento alle leggi di bilancio e leggi finanziarie. Per le procedure di discussione e approvazione del bilancio di uno Stato, e in base all’espressione “bilanci consuntivi” deve intendersi comprensiva anche dei disegni di legge finanziaria, e del disegno di legge di concessione dell’esercizio provvisorio e del disegno di legge per l’assestamento del bilancio dello Stato. Non sono invece assimilabili ai suddetti disegni di legge quelli cosiddetti collegati alla manovra di finanza pubblica, poiché si tratta di normali disegni di legge
Casi di riserve d’assemblea previsti dai regolamenti parlamentari
I casi di riserva di legge d’assemblea non sono soltanto quelli previsti dall’articolo 72, a questi costituiscono un limite minimo, tale da consentire ai regolamenti parlamentari la possibilità di ampliare la gamma dei casi previsti dalla citata norma costituzionale. I regolamenti parlamentari che possono in positivo “stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni”, si deve ritenere che tale facoltà ricomprenda anche la possibilità di stabilire in negativo, in quali casi tale deferimento escluso. Occorre pertanto esaminare i regolamenti parlamentari abbiano ampliato i casi di riserva di legge all’assemblea.
Due casi ulteriori di riserve di legge all’assemblea:
- disegni di legge di conversione dei decreti legge
- i disegni di legge rinviati alle camere dal presidente della Repubblica, ai sensi dell’articolo 74 della costituzione. Il regolamento della camera impone l’assegnazione in sede referente dei suddetti disegni di legge che devono essere dunque esaminati secondo il procedimento normale.
Il regolamento della camera contiene una norma di carattere generale in tema di riserva di legge d’assemblea. Esso stabilisce infatti che quando un progetto di legge riguardi questioni che non hanno speciale rilevanza di ordine generale, il presidente può proporre alla camera che il progetto sia assegnato a una commissione permanente o speciali in sede legislativa, per l’esame e l’approvazione. Questa disposizione consente di ampliare i progetti di legge con riserva d’assemblea, ma attribuisce anche al presidente della camera il potere di stabilire quando un progetto debba essere assegnato in sede legislativa.
Legge comunitaria alla camera
- Tra i casi di progetti di legge riservati all’assemblea dai regolamenti parlamentari deve annoverarsi anche il disegno di legge comunitaria, cioè un disegno di legge che dà attuazione, con cadenza annuale, agli obblighi di tipo normativo derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’unione europea. Tali obblighi consistono nell’attuazione a livello interno delle cosìdette direttive comunitarie, attuazione che può avvenire mediante diversi strumenti normativi: normazione diretta, delegazione legislativa, delegificazione, attuazione in via amministrativa e nelle materie di competenza regionale, indicazione delle disposizioni di principio alle quali devono attenersi le leggi regionali.
In questo caso interviene una specifica commissione permanente la commissione “politiche dell’unione europea”. L’articolo 126 ter, secondo cui il disegno di legge comunitaria è assegnato in sede referente alla commissione “politiche dell’unione europea” e, per l’esame delle parti di rispettiva competenza, alle commissioni competenti per materia, dimostra che alla camera il disegno di legge comunitaria costituisce un caso ulteriore di riserva di legge d’assemblea.
Legge comunitaria al senato.
Al senato vi è la “giunta per gli affari delle comunità europee”, che ha una competenza generale sulle materie direttamente connesse all’attività e agli affari della comunità europea ed all’attuazione degli accordi comunitari, l’intervento di quest’ultima nel procedimento di formazione del disegno di legge comunitaria avviene soltanto a titolo consultivo nei confronti della commissione, alla quale spetta la competenza primaria, I commissione affari costituzionali in sede referente.
L’articolo 35 del regolamento del senato, nei casi di riserve di legge d’assemblea in modo più ampio rispetto a quello della camera, e quindi sembra avere un maggior valore tassativo, tale cioè da non consentire, interpretazioni estensive che comportino l’ampliamento del numero dei casi di riserve di legge d’assemblea.
- Un ultimo caso di disegno di legge riservata all’assemblea, sembra essere quello dei disegni di legge per la concessione dell’amnistia e dell’indulto disciplinato dall’articolo 79. Le leggi del 6 marzo 1992 n. 1, ha radicalmente mutato l’assetto normativo: l’amnistia l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera e ogni suo articolo nella sua votazione finale.
A. Il procedimento normale.
Il procedimento normale si articola in:
- una fase preparatoria, che si svolge nella competente commissione ed
- in una fase deliberativa, che si svolge assemblea.
I regolamenti parlamentari prevedono il caso che progetti di legge vertenti sullo stesso oggetto, siano stati presentati tanto alla camera quanto al senato. In questo caso per evitare un dispendio di tempo i presidenti delle rispettive camere raggiungono delle possibili intese per decidere presso quale camera l’esame debba cominciare.
La camera ha introdotto un nuovo organo permanente denominato “comitato per la legislazione”, che è composto di 10 deputati, scelti dal presidente della camera in modo da garantire la rappresentanza paritaria della maggioranza e dell’opposizione.
È presieduto il turno da uno dei suoi componenti, per la durata di sei mesi ciascuno.
Qualora ne sia fatta richiesta da almeno 1/5 dei loro componenti, le commissioni trasmettono al comitato i progetti di legge affinché esso esprima parere sulla qualità dei testi legislativi, con riguardo all’omogeneità, alla semplicità, alla chiarezza e proprietà nella formulazione, nonché all’efficacia di essi, per la semplificazione e il riordinamento della legislazione vigente. Il parere è richiesto non prima della scelta del testo adottato come base per il seguito dell’esame, se è espresso nei confronti di una commissione in sede referente, è stampato ed allegato alla relazione per l’assemblea. Su richiesta di uno o più membri del comitato che abbiano espresso opinioni dissenzienti, le pareva contro di esse delle loro motivazioni.
Qualora le commissioni che procedono in sede referente non intendano adeguare il testo del progetto di legge alle condizioni contenute nel parere del comitato, debbono indicare le ragioni della relazione per l’assemblea.
La commissione in sede referente.
La commissione interviene in sede referente, intendendosi con tale espressione l’esame da parte della commissione del singolo progetto di legge ad essa assegnato, oppure di più progetti di legge aventi lo stesso oggetto.
Alla camera l’articolo 79, relativo all’esame in sede referente di progetti di legge è stato integrato da una serie di disposizioni tendenti a migliorare la qualità e l’efficacia di testi legislativi.
La commissione provvede infatti ad acquisire gli elementi di conoscenza necessari, dal governo in relazione ai seguenti aspetti: la necessità dell’intervento legislativo; la conformità della disciplina proposta alla costituzione, e alla normativa europea, alle competenze delle regioni e alle autonomie locali; la definizione degli obiettivi e la congruità dei mezzi individuati per consentirgli; l’ inequivocità e chiarezza del significato delle definizioni.
La discussione in sede referente:
- è introdotta dal presidente della commissione o, da un relatore incaricato. In ragione del carattere informale, le eventuali eccezioni pregiudiziali, sospensive o dirette non possono essere sottoposte a votazione; di esse dovrà però farsi menzione nella relazione della commissione.
- Dopo aver proceduto ad un esame preliminare del progetto di legge nel suo complesso, la commissione passa all’esame ed alla votazione dei singoli articoli, nonché degli eventuali emendamenti presentati dai componenti della commissione o anche da parlamentari che non le facciano parte;
- la commissione può nominare un comitato ristretto composto in modo da garantire la partecipazione proporzionale delle minoranze, al quale affida l’ulteriore esame per la formulazione delle proposte relative al testo degli articoli. Nell’ipotesi di un esame abbinato a diversi progetti di legge, la necessità di avere un unico testo di riferimento comporta la necessità della scelta di un testo base che viene compiuta dalla commissione, al termine dell’esame preliminare: testo base che può essere quello di uno dei progetti di legge o un testo unificato di tutti progetti di legge elaborato dalla relatore.
La conclusione dell’esame in sede referente.
L’esame in sede referente si conclude con una votazione di un testo per la successiva discussione l’assemblea (testo della commissione), dando mandato al relatore di predisporre una relazione scritta (la relazione di maggioranza), che verrà stampata, e distribuita insieme alle eventuali relazioni di minoranza.
La commissione nomina altresì un comitato composto da 9 membri alla camera, da 7 al senato in modo da garantire la partecipazione proporzionale delle minoranze, per la discussione davanti all’assemblea ed in particolare per esprimere il proprio parere sui emendamenti, che in tale sede saranno presentati.
La discussione in assemblea.
L’esame in assemblea disciplinato dai regolamenti parlamentari. L’esame in assemblea avviene secondo l’ordine di priorità stabilito in sede di programmazione dei lavori parlamentari e comprende: la discussione sulle linee generali del progetto e la discussione degli articoli.
v Le discussione sulle linee generali, che può essere variamente limitata nei tempi nel numero degli interventi, verte sul progetto di legge nel suo complesso ed in essa intervengono i relatori, il rappresentante del governo ed i singoli parlamentari; al termine della discussione i relatori del governo possono replicare.
La questione pregiudiziale e la questione sospensiva
Tuttavia la discussione non può avere luogo e deve essere rinviata in caso di approvazione della questione pregiudiziale, quella cioè che un dato argomento non debba discutersi, o della questione sospensiva, quella cioè che la discussione debba rinviarsi al verificarsi di determinate scadenze. Tali questioni possono essere proposte dai parlamentari prima che si entri nella discussione oppure, anche nel corso della discussione.
Le suddette questioni hanno carattere incidentale e la discussione non può proseguire se non dopo che l’assemblea si sia pronunziata su di esse. Nel corso di più questioni pregiudiziali ha luogo un’unica discussione.
Quanto alla votazione, al senato essa è unica anche se vi sono più questioni pregiudiziali;
alla camera invece si svolge una votazione sull’insieme delle questioni pregiudiziali sollevate per motivi di costituzionalità e una votazione su un insieme di elevate per motivi di merito.
Nel corso di più questioni sospensive, dopo lo svolgimento di un’unica discussione, il meccanismo di votazione è lo stesso sia alla camera sia al senato: prima si vota sulla sospensione e poi se la sospensione risulta provata, sulla sua durata.
Gli ordini del giorno.
Possono essere presentati ordini del giorno, recanti istruzioni nei confronti del governo, in ordine al contenuto del progetto di legge.
Gli ordini del giorno vengono svolti dai proponenti; su di essi esprimono il proprio parere il relatore ed il rappresentante del governo; quest’ultimo può dichiarare di accogliere o di non accogliere l’ordine del giorno, o di accoglierlo come semplice raccomandazione; il proponente può rinunciare alla votazione oppure insistere per il suo svolgimento.
v Poi si passa alla discussione degli articoli, che consiste nell’esame di ciascun articolo e del complesso degli emendamenti e degli articoli aggiuntivi ad esso, proposti: possono altresì essere presentati subemendamenti cioè emendamenti ad emendamenti.
Il potere di presentare e di ritirare emendamenti spetta al governo, gli emendamenti; gli articoli aggiuntivi che comportino nuove spese o diminuzioni di entrate, devono essere preliminarmente trasmessi alla commissione di bilancio. Le votazioni si svolgono prima sugli emendamenti proposti al singolo articolo e poi sull’intero articolo, nel testo risultante dalle eventuali modifiche approvate. Quando sia stato presentato un solo emendamento e questo sia soppressivo dell’intero articolo, si pone ai voti il mantenimento del testo.
La votazione degli emendamenti
Qualora siano stati presentati emendamenti ad uno stesso testo, essi sono posti in votazione cominciando da quelli che più si allontanano dal testo originale: prima quelli interamente soppressivi, poi quelli parzialmente soppressivi, quindi quelli modificativi ed infine quelli aggiuntivi; nel caso il testo sia suscettibile di essere separato in più parti con proprio significato, si può richiedere la votazione per parti separate.
La votazione degli articoli
Dopo l’approvazione degli articoli ed una volta concluse le eventuali dichiarazioni di voto ha luogo la votazione finale sul progetto di legge. La votazione finale avviene a scrutinio palese; tuttavia qualora ne sia fatta richiesta da un prescritto numero di senatori e di deputati alcune leggi sono votate a scrutinio segreto.
Il coordinamento del testo approvato.
Prima della votazione finale vi è un’eventuale coordinamento del testo approvato, consistente nella verifica della correttezza formale delle disposizioni approvate, della loro compatibilità reciproca, nonché della loro conciliabilità con lo scopo della legge. Il coordinamento, sollecitato da una serie di soggetti previsti dai regolamenti, prima della votazione finale, consistente fondamentalmente nell’approvazione da parte dell’assemblea delle modifiche rese necessarie dall’opera di coordinamento. Il regolamento della camera prevede che l’assemblea può, autorizzare il presidente al coordinamento formale del testo approvato.
Caratteristiche dell’intervento sono fatto che: è successivo alla votazione finale del progetto; le modifiche vengono decise autonomamente dal solo presidente; fa riferimento a mere correzioni di forma.
Il computo degli astenuti alla camera ed al senato
Il progetto di legge s’ intende approvato quando esso, ai sensi dell’articolo 64 comma 3, sia stato votato a maggioranza dei presenti. La determinazione della maggioranza non avviene allo stesso modo nel Parlamento a causa del diverso meccanismo del computo di coloro che si astengono dalla votazione:
ü alla camera gli astenuti non vengono computati ai fini della determinazione del quorum di maggioranza;
ü al senato invece gli astenuti vengono computati.
La conseguenza pratica è che al senato l’astensione eleva il quorum di maggioranza e dunque ne rende più difficile il raggiungimento.
La “navette” di progetti di legge dai due rami del Parlamento.
Il progetto di legge approvato viene trasmesso dal presidente all’altro ramo del Parlamento mediante un messaggio, un documento, cioè, che attesta solennemente che il progetto è stato approvato in quel determinato testo e la cui funzione è quella di rendere possibile il seguito del procedimento presso la camera la seconda camera. Qualora quest’ultima:
ü approvi il progetto senza apportarvi modifiche, la legge viene trasmessa anche in questo caso con un messaggio dal presidente della camera in questione al governo, che a sua volta lo trasmette al presidente delle Repubblica, per la promulgazione.
ü Qualora la seconda camera introduca delle modifiche, il progetto ritorna alla prima camera e non è escluso che, in caso di ulteriori modifiche introdotte da quest’ultima, il progetto debba ancora proseguire nella sua corsa tra le due stazioni rappresentate dalla camera e da senato: nella prassi è detta navette. Un modesto argine al manifestarsi di tale fenomeno è posto dai regolamenti parlamentari secondo i quali nel corso dell’esame in seconda lettura le deliberazioni possono riguardare soltanto le disposizioni modificate dall’altra camera, così si procede alla votazione finale.
Non esiste un principio di corrispondenza procedimentale in ordine all’esame del progetto di legge da parte delle due camere. Ciascuna di esse è libera di seguire il procedimento normale o un procedimento speciale a prescindere dalla scelta al riguardo compiuta dall’altra camera; camere libere di adottare lo stesso procedimento seguito in prima lettura o pure un procedimento diverso.
B. Il procedimento legislativo speciale o decentrato, è quello caratterizzato dall’intervento delle commissioni in sede legislativa o deliberante. Tutte le fasi si svolgono all’interno della commissione competente. Nel procedimento in questione si ha una sostituzione integrale della commissione nei confronti dell’assemblea. Le stesse fasi discussione generale, discussione e votazione di articoli, e votazione finale; gli stessi strumenti procedurali, l’ordine del giorno, così le questioni pregiudiziali e sospensive di emendamenti; e possono essere espressi pareri da parte di commissioni in sede consultiva.
Richiesta di trasferimento di sede.
Si può avere un’assegnazione iniziale di un progetto di legge alla competente commissione in sede legislativa, oppure un’assegnazione successiva, a seguito della richiesta di trasferimento di sede avanzata dalla commissione alla quale il progetto di legge era stato originariamente assegnato in sede referente.
Alla camera il trasferimento è deliberato dall’assemblea su proposta del presidente, preceduta dalla richiesta unanime dei rappresentanti dei gruppi parlamentari in commissione o di più di 1/5 dei componenti la commissione stessa, dall’assenso del governo ed ai pareri espressi dalle commissioni “filtro”.
Al senato il trasferimento è deciso dal presidente senza bisogno di consultare l’assemblea, su richiesta unanime di commissioni, con l’assenso del governo ed a condizioni che le commissioni filtro abbiano espresso parere favorevole.
I limiti dell’intervento delle commissioni in sede legislativa sono i limiti di materia e i limiti procedurali. Di materia sono già stati analizzati. I limiti procedurali consistono nella facoltà di attribuita al governo e ad 1/10 dei componenti di ciascuna camera e ad 1/5 delle commissioni, di chiedere che un progetto di legge, assegnato a commissioni in sede legislativa, sia trasferito alla stessa in sede referente, determinandosi in tal modo il passaggio dal procedimento speciale al procedimento normale in precedenza illustrato.
La suddetta richiesta è detta “remissione all’assemblea”, e può essere avanzata in seno alla commissione fino al momento della votazione finale ed ha valore vincolante, nel senso che il presidente del ramo del Parlamento in questione deve immediatamente provvedere alla nuova assegnazione in sede referente.
Il meccanismo avviene in maniera automatica qualora la commissione in sede legislativa non voglia aderire ai pareri espressi da commissioni filtro o alla camera dei pareri rinforzati.
alla camera ciò comporta la ripresa sin dall’inizio dell’intero procedimento normale, mentre al senato vi sono due possibilità: che il progetto di legge sia discusso e votato dall’assemblea oppure che esso sia sottoposto all’assemblea esclusivamente per la sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto. Tale procedimento coincide con l’intervento delle commissioni in sede redigente.
Un altro procedimento speciale è quello che si svolge nella commissione in sede redigente.
Indirettamente previsto dall’articolo 72, nel quale si realizza una ripartizione di competenze la commissione e l’assemblea: non in ordine alle funzioni spettanti tali organi, bensì in ordine alla stessa funzione deliberativa, che viene riservata alla commissione nei confronti dei singoli articoli ed all’assemblea nei confronti di progetto di legge nel suo complesso.
Al senato: un progetto di legge può essere assegnato ad una commissione in sede redigente per la deliberazione dei singoli articoli, riservandosi all’assemblea la votazione finale con sole dichiarazioni di voto. I limiti materiali e procedurali sono gli stessi così come lo è la richiesta di remissione e la possibilità di trasferimento.
Alla camera la disciplina regolamentare è diversa: a) l’assegnazione del progetto di legge in sede redigente è sempre successiva, e mai iniziale; b) La competenza dell’assemblea non riguarda soltanto la votazione finale del progetto di legge, ma anche la votazione dei singoli articoli così come formulati dalla commissione e dunque l’emendabile; c) non è previsto l’assenso del governo per la richiesta di trasferimento in sede redigente del progetto di legge, da parte della commissione che lo sta esaminando in sede referente; d) non è prevista la facoltà da parte di alcun soggetto di richiedere la remissione in assemblea del progetto di legge, ne sussistono ipotesi di remissione automatica.
I procedimenti abbreviati per i progetti di legge urgenti.
L’articolo 72 comma 2, prevede infine che regolamenti parlamentari stabiliscono procedimenti abbreviati per i progetti di legge dei quali è dichiarata l’urgenza. Tende ad abbreviare il termine di promulgazione della legge, senza incidere sulle precedenti fasi del procedimento che si sono svolte all’interno delle due camere; ed è un atto bicamerale che deve essere approvato a maggioranza assoluta da ciascun assemblea. I meccanismi per velocizzare procedimenti dichiarati urgenti sono fondamentalmente basati sulla riduzione dei termini previsti dal regolamento.
7.Gli elementi che caratterizzano il procedimento legislativo tipico.
Secondo l’articolo 72, vi deve essere:
a) La presentazione di un progetto di legge;
b) l’intervento di una commissione nell’esercizio di una delle competenze (ref, legisl, redig);
c) la discussione del progetto di legge in commissione o in assemblea;
d) la votazione articolo per articolo;
e) la votazione finale del progetto di legge nel suo complesso
Le deliberazioni circa un progetto di legge, non sono valide se non è presente la maggioranza dei componenti di ciascuna camera e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la costituzione non prescriva una maggioranza speciale.
L’articolo 72 attribuisce e riserva nel modo più pieno, ai regolamenti parlamentari, il compito di fissare ulteriori modalità di svolgimento del procedimento legislativo. Utilizza infatti la formula, “secondo le norme del suo regolamento”, ciò rafforza la riserva di regolamento e specifica anche gli spazi d’ intervento dei regolamenti parlamentari.
Le varianti procedimentali introdotte dai regolamenti parlamentari.
Nulla impedisce che i regolamenti parlamentari, stabiliscano norme particolari per la discussione di determinati e specifici progetti di legge. Ma non si è di fronte a procedimenti atipici, in quanto vengono pertanto a mancare, i tre elementi che sembrano caratterizzare il concetto di fonte atipica: la presenza di una variante, interna o esterna del procedimento tipico; una variazione in più o in meno di una forza attiva o passiva di tale fonte; una competenza non più tendenzialmente generale ma specializzata.
I regolamenti parlamentari prevedono variazioni procedimentali nei confronti:
ü dei disegni di legge di conversione dei decreti legge,
ü delle leggi rinviate le camere per una nuova deliberazione del presidente della Repubblica,
ü dei disegni di legge finanziaria di approvazione del bilancio dello Stato,
Prima di esaminare le varianti procedimentali relative alla legge di bilancio e alla legge finanziaria occorre definire queste ultime.
L’articolo 81 si limita a stabilire che le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati dal governo; che con una legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese; che, qualora la legge suddetta non venga approvata entro il 31 dicembre, come precisa legge di contabilità dello Stato, le camere possono concedere al governo, approvando una specifica legge, l’esercizio provvisorio del bilancio per periodi non superiori complessivamente ai 4 mesi.
Il bilancio dello Stato è un documento contabile di previsione a cadenza annuale redatto in termini di competenza: esso si riferisce all’anno successivo ed indica le entrate e le uscite che lo Stato prevede, rispettivamente, di incassare e di spendere in tale periodo. Il bilancio può essere di competenza quando pone a confronto le entrate accertate, ma non ancora riscosse e le spese impegnate ma non ancora pagate. Può essere di cassa e pone a confronto entrate riscosse spese pagate. Per quanto riguarda il bilancio dello Stato esso è di competenza, ma non è detto che nel corso dell’anno il governo effettivamente riesca ad incassare a spendere tutto ciò che aveva previsto; verificandosi in tal caso, il fenomeno di residui attivi se riferito alle entrate accertate non ancora riscosse, un fenomeno di residui passivi, se riferito a spese impegnate ma non ancora pagate.
La legge di approvazione del bilancio non può stabilire nuove entrate e nuove spese e dunque il bilancio di previsione si limita a contabilizzare quanto stabilito al riguardo dalle singole leggi vigenti; nell’ambito di queste ultime, quelle che stabiliscono le maggiori spese devono indicare in base all’articolo 81, i mezzi per farvi fronte. Qualora le camere non riescono ad approvare la legge di bilancio entro il 31 dicembre, esse possono approvare con legge l’esercizio provvisorio: tale istituto al quale si può ricorrere per un periodo non superiore a 4 mesi, consente al governo di riscuotere e spendere somme, in ciascuno dei mesi per i quali l’esercizio provvisorio è stato concesso, per un importo pari al dodicesimo di quelle previste nel bilancio non ancora approvato.
il rendiconto consuntivo, contiene l’indicazione di ciò che lo Stato ha incassato e speso nell’anno precedente ed è anch’esso approvato con legge sulla base di una relazione di accompagnamento data dalla corte dei conti.
Bilancio pluriennale
Oltre al bilancio annuale, il governo deve presentare anche il bilancio pluriennale, di durata non inferiore ai tre anni, che non è giuridicamente vincolante e che viene costantemente aggiornato sulla base dei bilanci annuali;
DPEF è il documento di programmazione economico-finanziaria, nel quale il governo indica le linee fondamentali di politica economica che intende perseguire ed i disegni di legge cosiddetti “collegati”, che a tale scopo si impegnano a presentare;
Disegno di legge finanziaria
Venne in una prima fase istituita dalla l. n. 486 del 1978 per dare maggiore elasticità alla manovra finanziaria del governo infatti, a fronte del divieto, previsto dall’articolo 81 della costituzione, di stabilire nuovi tributi e nuove spese con legge di approvazione del bilancio, era stato indispensabile ricorrere ad una legge che introducessi tutte le necessarie variazioni in termini di entrate e di uscite, variazioni da riportare subito dopo nel bilancio, senza violare così il limite costituzionale dell’articolo 81.
Poiché la l. n. 486 del 1978 consentiva alla legge finanziaria di innovare la legislazione di spesa e di istituire nuove imposte e poichè quest’ultima fruiva, di una corsia preferenziale in sede parlamentare, essa divenne ben presto una legge omnibus, una legge, nella quale venivano inseriti più disparati provvedimenti settoriali che ben difficilmente avrebbero potuto giungere in porto così rapidamente al di fuori di quel contesto; una legge che alimenta così confusamente la spesa pubblica, invece di coordinarla e di programmarla e sulla quale veniva spesso posta la questione di fiducia, era lontana dai principi del ‘78.
Con la legge 362 del 1988 si tentò di porre rimedio alla situazione che si era venuta a creare e lo strumento fu quello della riduzione della capacità della legge finanziaria di introdurre variazioni alle entrate e delle spese. La legge finanziaria non potè più istituire nuove imposte e stabilire nuovi spese. La sua capacità innovativa fu delimitata all’introduzione di mere le variazioni quantitative e di adeguamento rispetto a voci di entrata e di spesa già previste dal altre leggi. Tuttavia a questo corrispose all’enorme aumento dei disegni di legge “collegati” alla manovra finanziaria di disegni di legge che il governo indicava nel documento di programmazione economico finanziaria che subito doveva presentare al Parlamento.
La l. 208 del 1999 ha avuto soprattutto lo scopo di coordinare la manovra economico finanziaria del governo per rispettare i vincoli, derivanti in sede comunitaria del cosiddetto patto di stabilità, nei confronti di tutti gli Stati membri.
Il procedimento di esame del disegno di legge di bilancio e dei disegni di legge finanziaria.
Prevedono il seguente calendario:
Entro il 30 giugno il governo presenta alle camere il documento di programmazione economico- finanziaria DPEF, definisce la manovra di finanza pubblica per il periodo compreso nel bilancio pluriennale; le commissioni di bilancio di ciascuna camera, sentito il parere delle altre commissioni permanenti, per le parti di loro competenza, e della commissione parlamentare per le questioni regionali, presentano alle rispettive assemblee una relazione; ciascuna assemblea discute il DPEF, sulla base del suddetta relazione, e lo approva votando una risoluzione che può contenere integrazioni e modifiche del documento stesso.
Entro il 30 settembre il governo presenta il disegno di legge di approvazione del bilancio e il disegno di legge finanziaria;
Entro il 15 novembrei disegni di legge collegati alla manovra di finanza e le commissioni permanenti di ciascuna camera iniziano un pre-esame degli stati di previsione di rispettiva competenza; allo stesso tempo le commissioni di bilancio di ciascuna camera, iniziano l’esame generale dei disegni di legge di bilancio.
Dal momento dell’effettiva distribuzione dei testi e iniziò la “sessione di bilancio”, intendendosi con tale termine un arco temporale di 45 giorni per la camera investita per prima e di 35 giorni per la camera che interviene per seconda.
Per rispettare i tempi, la camera sospende ogni deliberazione da parte dell’assemblea e delle commissioni in sede legislativa, su progetti di legge che comportino nuove o maggiori spese o diminuzione di entrate; possono tuttavia essere adottate le deliberazioni relative alla conversione di decreti legge, ai disegni di legge collegati, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali o di ricevimento o attuazione di atti normativi della comunità europea.
Al senato la normativa è per un verso più restrittiva, perché il divieto riguarda non l’esame, ma la stessa possibilità di iscrivere all’ordine del giorno della commissione e dell’assemblea dei progetti di legge che comportino variazioni di spese e di entrate, ma non si applica all’esame degli altri progetti di legge, aventi carattere di assoluta indifferibilità, secondo le determinazioni adottate all’unanimità dalla conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari.
Il disegno di legge di approvazione del bilancio ed il disegno di legge finanziaria sono assegnati congiuntamente per l’esame generale alla commissione di bilancio, per l’esame delle parti di rispettiva competenza dei singoli stati di previsione, alle commissioni competenti per materia entro i termini fissati dai regolamenti parlamentari, queste ultime trasmettono in relazione ad eventuali emendamenti alla commissione di bilancio, che a sua volta, approva e trasmette la propria relazione generale all’assemblea. Gli emendamenti possono essere compensativi, cioè che prevedono da una parte una diminuzione delle entrate e dall’altra una corrispettiva diminuzione delle spese, oppure non compensativi quando comportano variazioni di singoli stati di previsione delle entrate o delle uscite.
All’assemblea dopo aver discusso congiuntamente i due disegni di legge, procede alla votazione dei singoli articoli del disegno di legge e di approvazione del bilancio, senza però votarlo nel suo complesso; subito dopo si procede, sia alla votazione degli articoli, che alla votazione finale del disegno di legge finanziaria.
Il governo, a seguito dell’approvazione di tale disegno di legge, presenta la cosiddetta “nota di variazione”, un provvedimento cioè tendente a riversare nel bilancio le determinazioni assunte con l’approvazione del disegno di legge finanziaria. Poi via di nuovo la votazione finale del disegno di legge, di approvazione del bilancio, nel testo così modificato.
Il contenuto della legge comunitaria.
Bisogna ricordare che l’unione europea, alla quale l’Italia partecipa come membro, emana norme direttamente obbligatorie nei singoli Stati membri.
Lo strumento utilizzato è il regolamento comunitario, quest’ultimo si applica automaticamente negli Stati membri; ulteriore strumento è la direttiva la cui applicazione è condizionata all’attuazione che ciascuno Stato membro, è tenuto ad assicurare nel proprio ambito interno.
La direttiva vincola gli Stati membri solo per il risultato da raggiungere, lasciandoli liberi di adottare le misure di attuazione più consono all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato. Sempre tenendo presente le eccezioni come le direttive dettagliate che, avendo contenuto estremamente preciso, sono da considerarsi direttamente applicabili, soprattutto in ragione della scadenza del termine per il loro recepimento da parte degli Stati membri,
La legge comunitaria è legge dello Stato italiano, istituita con l. 9 marzo 1989 n. 86, meglio nota come “legge la pergola”, che con cadenza annuale, dà attuazione alle direttive comunitarie con vari strumenti normativi: normazione diretta, delega legislativa, delegificazione, attuazione in via amministrativa nelle materie di competenza regionale, indicazione delle disposizioni di principio non derogabili da parte delle leggi delle regioni ad autonomia ordinaria.
La caratteristica principale attribuita dalla legge la pergola alla legge comunitaria, è senza dubbio quella della sua annualità: entro il 31 gennaio di ogni anno il governo deve avere effettuato una ricognizione della normativa comunitaria, non auto-applicabile e non ancora attuata, e presentare alle camere il disegno di legge comunitaria.
Il procedimento di esame del disegno di legge comunitaria
I regolamenti parlamentari prevedono speciali procedure di collegamento con l’attività degli organismi comunitari internazionali per consentire un’incisiva partecipazione del legame non soltanto in fase discendente, di attuazione e recepimento di norme comunitarie, ma anche nella fase ascendente quindi di formazione delle norme stesse, a tal fine sono state istituite presso la camera e il senato delle commissioni permanenti come la commissione “politiche dell’unione europea.”
Tale commissione ha competenza riguardo l’attività e gli avvenimenti della comunità europea, ed in attuazione degli accordi comunitari esercita funzioni materiali, consultive, conoscitive, e legislative.
La funzione legislativa esercitata da queste commissioni, coadiuvati dalle commissioni competenti per materia, è di fatto circoscritto all’esame della legge comunitaria. Il disegno di legge comunitaria è assegnata in sede referente alla commissione politiche dell’unione europea e per l’esame delle parti di rispettiva competenza, alle commissioni competenti per materia decorsi 15 giorni dall’assegnazione alle commissioni competenti per materia.
La commissione politiche dell’unione europea, alla quale vengono trasmesse le relazioni delle commissioni competenti per materia, illustrate da un relatore, e le eventuali relazioni di minoranza, nei successivi 30 giorni, conclude l’esame dei disegni di legge comunitaria, predisponendo una relazione generale dell’assemblea, alla quale sono legate le relazioni di maggioranza delle altre commissioni.
La fase successiva in assemblea ove la discussione sulle linee generali del disegno di legge comunitaria, avviene congiuntamente con l’esame della relazione annuale sulla partecipazione dell’Italia all’unione europea, si svolge senza ulteriori variazioni rispetto al procedimento “normale”.
8.la promulgazione della legge.
L’articolo 87, si limita ad attribuire al presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi; l’articolo 73, fissa il termine entro il quale la legge deve essere promulgata;
l’articolo 74 attribuisce al presidente della Repubblica il potere, da esercitarsi entro il termine previsto per la promulgazione e comunque l’alternativa a quest’ultima, di chiedere con messaggio motivato alle camere, una nuova deliberazione della legge: qualora quest’ultime la riapprovano senza modifiche, il presidente della Repubblica è obbligata a promulgare.
Sanzione e promulgazione.
La sanzione implica soggettivamente la qualificazione del capo dello Stato come organo legislativo e oggettivamente la sua partecipazione all’esercizio della funzione legislativa.
La promulgazione dove il PdR non partecipa all’esercizio della funzione legislativa, né sotto il profilo formale poiché quest’ultimo è riservato in via esclusiva alle camere, né sotto quello sostanziale nel senso che soltanto alle camere spetta di determinare il contenuto della legge.
Le funzioni della promulgazione
La promulgazione auspica contemporaneamente diverse funzioni:
ü Una funzione di attestazione dell’esistenza della legge, laddove si dà conto che sussiste il requisito fondamentale di riconoscibilità della legge e cioè l’approvazione da parte dei due rami del Parlamento;
ü una funzione documentale solenne, laddove si riproduce il testo della legge che dovrà essere successivamente pubblicato in tale redazione;
ü una funzione intimatoria laddove si ordina ai soggetti pubblici competenti di porre in essere successivi adempimenti necessari ed ai destinatari di prestare osservanza.
I limiti alla doverosità della promulgazione.
q La promulgazione è un atto dovuto, ma tale doverosità incontra dei limiti:
- relativi se sospendono temporaneamente tale carattere di doverosità. Il limite relativo è costituito dall’esercizio da parte del presidente della Repubblica del potere di rinvio della legge alle camere per una nuova deliberazione. Si tratta di un limite poichè l’esercizio di tale potere sospende il dovere di promulgare; si tratta di un limite relativo poiché l’eventuale deliberazione delle camere rende nuovamente operante quel dovere.
- assoluti se lo escludono del tutto. I limiti assoluti, escludono del tutto la doverosità della promulgazione, non sono espressamente previsti dalle disposizioni costituzionali, che disciplinano la promulgazione, ma sono implicitamente ricavabili dal sistema. Tale limite coincide con il divieto di promulgazione della legge, quando quest’ultima non può essere considerata tale ad esempio: non può essere qualificato come legge un atto approvato da sola camera, articolo 70. Inoltre inesistente è quella legge che pur essendo approvata con un procedimento legislativo ordinario, disponesse di modificare la forma repubblicana, quest’ultimo non sarebbe neanche incostituzionale, in quanto la modifica non può essere apportata neanche da legge costituzionale e quindi deve essere considerata come inesistente.
q Il secondo limite prevede che: in applicazione del principio generale secondo cui nessuno può essere obbligato a compiere un atto che determina in capo al soggetto agente, la responsabilità penale, il presidente della Repubblica è tenuto a non promulgare leggi che, per il loro contenuto globale parziale configurano gli estremi dell’alto tradimento e dell’attentato alla costituzione.
Il rifiuto di promulgazione.
Qualora venga in gioco il primo limite il presidente Repubblica si trova in una situazione per così dire bloccata: non può e non deve promulgare perché non c’è una legge da promulgare. in questo caso l’unico strumento formale a disposizione del presidente della Repubblica per informare le camere della sua impossibilità di promulgare, è il ricorso del messaggio presidenziale così come previsto dall’articolo 87.
Invece per quanto riguarda il secondo limite, in questa ipotesi il presidente del Repubblica non può semplicemente rifiutarsi di promulgare ma deve rinviare alle camere chiarendo nel messaggio di rinvio perché a suo giudizio, il contenuto della legge, in tutto o in parte, configura il reato di alto tradimento e di attentato alla costituzione. Salvo poi ove le camere riapprovino legge nel testo originario a non promulgare la legge, valendosi eventualmente anche in questo caso di un messaggio ai sensi dell’articolo 87.
Il rifiuto di promulgazione si risolve semplicemente in un comportamento omissivo.
Termine di promulgazione e dichiarazione di urgenza della legge
L’articolo 73 dispone che le leggi sono promulgata dal presidente della Repubblica entro un mese dalla loro approvazione, tuttavia il comma 2 aggiunge che, se le camere, ciascuna maggioranza assoluta dei propri componenti ne dichiarano l’urgenza, la legge è promulgata nei termini da essa stabilita. Il termine di promulgazione è pertanto variabile alla duplice condizione che ciascuna camera deliberi a maggioranza assoluta l’ urgenza della legge e che nel testo di quest’ultima venga inserita la disposizione, che in concreto fissa un termine diverso da quello che in generale è stabilito all’articolo 73.
L’individuazione del dies a quo.
La determinazione concreta del periodo durante il quale deve procedersi alla promulgazione, pone il problema di individuare a partire da quando inizia tale periodo, ovvero dies a quo. A fronte di una chiara espressione dell’articolo 73, “entro un mese dall’approvazione”, si è sostenuto che in realtà debba intendersi come equivalente ad “approvazione comunicata”, altri invece ritengono che il dies a quo coincide con la data del messaggio di trasmissione del presidente della camera che è intervenuto per ultima e chi invece lo fa coincidere con il momento in cui tale messaggio viene ricevuto dal presidente della Repubblica.
Il termine di 30 giorni, per la promulgazione da parte del presidente della Repubblica, l’obbligo del ministro guardasigilli di pubblicare le leggi subito dopo la promulgazione, e il termine di 15 giorni dalla pubblicazione per l’entrata in vigore sono tutte norme accomunate dall’identica finalità: garantire tutelare la sollecita attuazione della volontà delle camere. Una volta accertato che il termine di cui si sta discutendo esplica funzioni di garanzia non soltanto nei confronti del presidente della Repubblica, ma anche nei confronti delle camere, si tratta ora di dire quale delle due funzioni sia prevalente. Una decisione che si basa sulla disposizione dell’articolo 73 in base al quale, “se le camere ciascuna maggioranza assoluta dei propri componenti, dichiari l’urgenza, la legge è promulgata nei termini da essa stabilita”. Soltanto le camere possono abbreviare senza limitazioni cronologici la promulgazione. Quindi rappresenta una garanzia soprattutto nei confronti delle camere.
Tale esempio comporta le seguenti conclusioni:
Il dies a quo coincide sempre con il giorno dell’approvazione della legge, da parte della camera che interviene per ultima. Il presidente della Repubblica può usufruire di 30 giorni soltanto nella misura in cui tale periodo non risulti di fatto abbreviato da un eventuale ritardo nella trasmissione del messaggio, che attesta l’intervenuta approvazione parlamentare.
Il termine di promulgazione, a valore perentorio per il presidente della Repubblica quando la legge gli sia stata trasmessa entro tale termine, in tal caso indipendentemente dall’effettivo periodo di tempo che risulta a sua disposizione, presidente deve promulgare entro il termine di 30 giorni, computati dal giorno dell’approvazione.
Il termine ha invece valore ordinatorio per il presidente quando la legge gli sia stata invece trasmessa oltre 30 giorni dall’approvazione: in tal caso egli deve promulgare comunque e subito la legge.
Poiché è stabilita una procedura a carico di ciascuna camera per abbreviare il termine di promulgazione, se ne deduce che deve considerarsi illegittima qualsiasi riduzione del termine che non sia quella speciale procedura.
L’obbligo di trasmissione immediata della legge il presidente della Repubblica.
Il presidente della camera che approva per ultima la legge è obbligato a firmare il messaggio di trasmissione ed a trasmetterlo al presidente della Repubblica il giorno stesso dell’approvazione della legge, secondo quanto disposto dall’articolo 73.
L’unico motivo giuridico in grado di determinare uno sfasamento cronologico tra data di approvazione della legge e la data del relativo messaggio presidenziale di trasmissione, è infatti rinvenibile nell’esigenza di coordinamento formale del testo approvato.
Gli effetti dell’adempimento di tale obbligo
Se il presidente della camera che interviene per ultima non rispetta l’obbligo di firmare e di trasmettere il messaggio il giorno stesso dell’approvazione delle leggi, le reazioni del presidente del Repubblica possono essere varie:
q qualora il presidente della Repubblica ritenga di avere comunque malgrado il ritardo, un periodo di tempo ragionevole di riflessione, potrà comportarsi dal punto di vista sostanziale, come se il ritardo non ci fosse stato, e dunque promulgare o rinviare la legge alle camere ove sussistano gli estremi. Fermo restando la possibilità di far rilevare il presidente della camera che ha determinato il ritardo e l’illegittimità di tale comportamento, attraverso un messaggio articolo 87.
q Qualora il presidente del Repubblica ritenga invece che il ritardo sia stato tale da impedire una seria riflessione sulla legge, egli potrà sollevare il conflitto tra poteri dello Stato, di fronte alla corte costituzionale, sostenendo che la riduzione del termine di 30 giorni è illegittima, perché non realizzata nelle forme e nei modi previsti dall’articolo 73 co.2, e dunque tale da ledere la propria competenza. Potrebbe tuttavia comunque scegliere una via più semplice rinviare la legge alle camere, chiedendo una nuova deliberazione, dalla quale decorrerà il nuovo termine di promulgazione.
L’articolo 74 attribuisce altresì al presidente della repubblica, prima della promulgazione, il potere di chiedere un messaggio motivato alle camere una nuova deliberazione della legge.
Il rinvio presidenziale alle camere.
Le modalità essenziali dell’esercizio del potere di rinvio: da un lato esso non può mai essere una “rinvio bianco”, privo cioè della relativa motivazione; dall’altro esso è cronologicamente collegato alla promulgazione, nel senso che il rinvio è in linea di principio possibile finché non sia scaduto il termine per promulgare. Dall’articolo 89 si desume in ordine alla necessità che il messaggio di rinvio sia controfirmato dal ministro competente: in questo caso il messaggio è da qualificare come atto presidenziale in senso stretto la controfirma ha funzione di mera autenticazione.
L’eventuale dichiarazione d’urgenza deliberata da ciascuna camera a maggioranza assoluta comporta la sola conseguenza che: il presidente della Repubblica, se vorrà esercitare il potere di rinvio dovrà farlo entro un termine ridotto.
I possibili motivi del rinvio.
Circa la motivazione delle rinvio la dottrina ha affermato che quest’ultimo può essere esercitato per motivi di legittimità e di merito, per motivi di legittimità e di merito costituzionale, o soltanto per motivi di legittimità.
La posizione del capo dello Stato come limite alla rinvio per motivi di merito.
L’articolo 74 non esclude motivazioni basate sul merito. Tuttavia un limite all’esercizio del potere di rinvio per motivi di merito, deriva dalla posizione attribuita dalla costituzione al capo dello Stato, caratterizzata dall’elemento dell’imparzialità e comunque tale da escludere che il presidente della Repubblica con le osservazioni di merito non sottintenda in realtà compiere scelte politiche che parte.
In dottrina si è sostenuta l’inammissibilità del rinvio delle leggi di conversione dei decreti legge in generale o quando ciò comporti in generale la scadenza del termine di 60 giorni fissato dall’articolo 77. analizzando più approfonditamente il sistema si può giungere alla seguente conclusione:
I limiti generali del potere di rinvio.
Il metodo da seguire per risolvere il problema della determinazione dei limiti del potere di rinvio, non soltanto nei confronti delle leggi ma anche per altri casi, deve partire dalla definizione di due principi: il fondamento ed il limite generale del potere di rinvio fissati ambedue, come si è già accennato in precedenza dall’articolo 74 della costituzione.
Il fondamento del potere di rinvio risiede nel principio del parallelismo tra tale potere e il potere di promulgare la legge: quando l’articolo 74 dispone che il presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, con un messaggio motivato alle camere può richiedere una nuova deliberazione, stabilisce che là dove c’è promulgazione, c’è anche possibilità di rinvio.
L’articolo 74 fissa appositamente 2 limiti generali all’esercizio del potere di rinvio.
Innanzitutto il rinvio, per i tempi nei quali viene esercitato per le diverse fattispecie alle quali può in concreto riferirsi, deve essere tale da consentire la possibilità comunque della nuova deliberazione da parte delle camere. Il primo limite generale del potere di rinvio è perciò il seguente:
q poiché il rinvio, sulla base dell’articolo 74, non può tramutarsi da impedimento temporaneo in veto, il suo esercizio e inammissibile tutte le volte che esso, non consentendo una nuova deliberazione delle camere, comporta la caducazione della legge.
q In secondo luogo poiché ciò che si può chiedere alle camere con il rinvio è soltanto nuova deliberazione sulla legge, esso deve ritenersi escluso tutte le volte che dal suo esercizio derivino necessariamente conseguenze diverse o più gravose rispetto a quella tassativamente prevista dall’articolo 74.
L’applicazione del primo limite non soltanto nei confronti delle leggi, consente di risolvere il problema dell’ammissibilità del potere delle rinvio, non soltanto nei confronti delle leggi di conversione ma altresì nei confronti di tutte quelle leggi per l’approvazione delle quali sia previsto un termine perentorio. Ad esempio le leggi di bilancio, leggi finanziarie e le leggi di autorizzazione alla ratifica del trattato internazionale. In tutti quei casi, il rinvio deve essere considerato inammissibile con l’approvazione parlamentare, sia intervenuta l’ultimo giorno utile, o quando sia lo stesso rinvio ad essere stato esercitato in tale data.
Il riesame in sede parlamentare della legge rinviata.
La fase del riesame parlamentare della legge inviata dal presidente della Repubblica, non costituisce per essi un obbligo ma un semplice onere. Le camere si pongono nei confronti della legge rinviata esattamente come si pongono nei confronti di qualsiasi altra legge: in questo secondo caso ciascuna camera è libera di approvare o respingere il progetto di legge, o di non deliberare su di esso, come in altri casi. A riprova di ciò sta il fatto che il regolamento della camera del senato stabiliscono che il riesame delle leggi rinviate al presidente della Repubblica, debba avvenire ab initio, con il procedimento legislativo normale, e con riserva di legge dall’assemblea.
In particolare la camera o il senato possono e non debbono limitare la discussione alle parti che formano oggetto del messaggio. Vi è inoltre la possibilità di presentare ed eventualmente approvare emendamenti che non debbono perciò essere necessariamente collegati alle modifiche suggerite dal presidente della Repubblica. Nel caso d’introduzione di nuove disposizioni nel testo di legge, è da ritenere possibile che il presidente della Repubblica non sia obbligato a promulgare le leggi ma possa rinviarle nuovamente alle camere.
In conclusione bisogna esaminare il problema della qualificazione della promulgazione come:
q elemento che attiene alla perfezione o
q all’efficacia delle leggi.
La prima tesi, poggia su un solo argomento: il fatto che la legge assuma la data della sua promulgazione, con ciò ritenendosi dimostrato che la fase della perfezione si completa con la promulgazione e che la fase dell’integrazione dell’efficacia comincia dalla pubblicazione.
A sostegno della seconda tesi si sono addotti tutti i seguenti argomenti: gli articoli 73,74 e 87, usano l’espressione legge e non espressione disegno di legge; nell’ipotesi in cui le camere abbiano deliberato l’urgenza, la disposizione che in concreto riduce il termine di promulgazione produce effetti, con ciò dimostrando che la legge è perfetta già dal momento dell’approvazione parlamentare; tanto l’articolo 70, esclude qualsiasi partecipazione del capo dello Stato alla determinazione del contenuto della legge.
In conclusione sembra comunque preferibile ricostruire una promulgazione come elemento di efficacia della legge, efficacia che si realizza in maniera progressiva attraverso il compimento di tre stadi successivi alla definitiva approvazione della legge, da parte delle camere: la promulgazione, la pubblicazione e la decorrenza dell’eventuale periodo di Vacatio legis.
9. La pubblicazione della legge.
La pubblicazione della legge è disciplinata dall’articolo 73 della costituzione; dall’articolo 10 delle disposizioni sulla legge in generale del codice civile; dalla legge dell’11 dicembre 1984 n.839.
L’articolo 73, “disponendo che le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscono un termine diverso”. L’espressione subito dopo la promulgazione ci consente di individuare con un’accettabile grado di approssimazione il momento a partire dal quale la pubblicazione può essere effettuata, non è altrettanto chiaro per quanto riguarda il momento entro il quale deve essere compilata. L’articolo 12 della citata legge n.839 precisa che comunque la pubblicazione non deve avvenire oltre 30 giorni dalla promulgazione. Tuttavia non comporta però l’illegittimità costituzionale della legge tardivamente pubblicata, ma soltanto possibili conseguenze in termini di responsabilità politica e giuridica nei confronti dell’organo, (il ministro di Grazia e giustizia), competente a pubblicare le leggi
La variabilità del termine per l’entrata in vigore è istituzionalmente consacrata dalla norma contenuta nella seconda parte dell’articolo 73, che consente alle singole leggi di modificare il termine ordinario di 15 giorni della vacatio legis. Tale modificabilità è analoga a quella prevista per i tempi di promulgazione.
La procedura per la pubblicazione delle leggi.
Gli originali delle leggi sono trasmessi al Ministro di grazia e giustizia, che vi appone il proprio visto e il sigillo dello Stato; se però egli incontra qualche difficoltà riguardo alla forma esteriore della legge, sospende il visto e l’ apposizione del sigillo e ne fa relazione al presidente del consiglio che decide, sentito il consiglio dei ministri. Com’è stato esattamente osservato, con il sigillo del ministro ha fatto un vero riscontro formale il documento in cui il testo della legge contenuto, con l’apposizione del sigillo dello Stato consacra l’acquisizione del documento stesso agli atti ufficiali.
Il sistema di pubblicazione delle leggi, cosìddetta doppia pubblicazione: la legge oltre ad essere pubblicata nella raccolta ufficiale degli atti normativi è altresì pubblicata nella gazzetta ufficiale inoltre, finché non se ne provi l’esattezza, mediante esibizione di un atto autentico, rilasciato dal ministro guardasigilli o dall’archivio di Stato, il testo di legge, pubblicato sia nella raccolta che nella gazzetta ufficiale, si presume conforme all’originale e costituisce testo legale delle leggi anzidette. Gli originali delle leggi, inseriti nella raccolta ufficiale sono affidati alla custodia del ministro guardasigilli il quale, cessata la necessità di conservarli presso il ministero, cura la consegna all’archivio centrale dello Stato. Nell’ipotesi di errori di stampa si dispongono le correzioni necessarie.
La legge n.839 del 1984 razionalizza la pubblicazione delle leggi sulla gazzetta ufficiale, e contiene inoltre alcune particolari disposizioni.
q Quando una legge disponga la soppressione, l’aggiunta o la sostituzione di uno o più parole nel corpo di una presistente espressione normativa, il ministro di grazia e giustizia provvede alla pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, in calce al provvedimento modificativo, anche l’intera norma nel nuovo testo risultante dalle modifiche apportate, le quali sono stampate in modo caratteristico.
q Quando la legge abbia subito diverse e complesse modifiche, il ministro competente può predisporre, per la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale un testo aggiornato della legge, nel quale le modifiche apportate sono stampate in modo caratteristico e ne è specificata la fonte.
q Quando la legge contenga rinvii numerosi o comunque complessi, a preesistenti disposizioni normative, il presidente del Consiglio dei Ministri trasmette, unitamente alla legge da pubblicare, il testo delle norme alle quali è operato il rinvio.
Gli estremi dei lavori preparatori delle leggi sono pubblicate, mediante le annotazioni in calce al testo della legge, come lo sono anche le circolari esplicative delle leggi.
La citata legge 839 contiene nell’articolo 5, disposizioni di notevole rilievo a proposito dei decreti legge e delle leggi di conversione.
q Nel caso di decreti legge convertiti con modificazioni si predispone un testo integrato con le modificazioni introdotte dal Parlamento, stampate nel modo caratteristico; tale testo è pubblicato in gazzetta ufficiale.
q Se il disegno di legge di conversione è respinto, la deliberazione è comunicata al presidente della camera o senato al Ministro di grazia e giustizia, il quale provvede immediatamente alla relativa pubblicazione in gazzetta ufficiale.
Doppio pubblicazione.
E’ un sistema secondo il quale vi è: una pubblicazione nella raccolta Ufficiale, e quella nella gazzetta Ufficiale, costituiscono un tutto unico e la loro posizione è uguale, in relazione agli effetti che da essi scaturiscono, e l’attuazione di entrambe è essenziale perché la pubblicazione si produca in modo efficace.
Funzione della pubblicazione.
Meno problematico è definire il rapporto intercorrente tra la fase della pubblicazione e le precedenti fasi dell’approvazione parlamentare e della promulgazione della legge. In questo senso la funzione della pubblicazione si rinviene nella conoscibilità dell’esistenza degli atti normativi, più che del loro contenuto precettivo. Oggi la pubblicazione è considerata come uno dei momenti assieme alla Vacatio legis, nei quali di solito si articola la fase dell’integrazione dell’efficacia della legge, la legge è da considerarsi quindi già perfetta con l’approvazione parlamentare e con la promulgazione. Ma in caso di contrasto tra norme si applica il criterio cronologico per l’abrogazione e occorre guardare per stabilire, la successione di leggi nel tempo, al momento in cui la legge diventa perfetta dunque, secondo quanto si è cercato di sostenere, data nella quale interviene l’approvazione definitiva da parte delle camere.
10. La possibile incidenza del diritto comunitario sul procedimento legislativo.
Il procedimento legislativo subisce una serie di interferenze da parte delle fonti comunitarie talvolta in maniera diretta, talvolta indirettamente attraverso il recepimento delle stesse da parte di fonti dell’ordinamento italiano.
CAPITOLO IV
ATTI CON FORZA DI LEGGE
1. Forza e il valore di legge.
La costituzione italiana prevede l’esistenza di atti con forza di legge, vale a dire atti formalmente diversi dalla legge che si pongono, uno sullo stesso piano delle leggi ordinarie.
Con i termini “forza di legge” “valore di legge”e con “valore legislativo” che si rinvengono all’interno della costituzione, si intendono significati equivalenti e quindi del tutto intercambiabili.
In dottrina le espressioni sono però impiegati in maniera differente:
q “forza di legge” ci si riferisce alla capacità della legge (ciò che la legge può fare),e
q “valore di legge” seconda ci si riferisce al particolare regime giuridico, (al trattamento):
E’ importante perché soltanto le leggi e gli atti con forza di legge:
- possono costituire l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, compiuto dalla corte costituzionale ed
- essere sottoposte a referendum abrogativo.
Problema:
Accertare se gli atti con forza di legge siano soltanto quelli espressamente previsti dalla costituzione, oppure se anche ad altre atti normativi con la forza si debba riconoscere.
Due le tesi relative alla definizione del concetto di forza di legge:
Il presupposto della forza di legge è il concetto di fonte primaria, quella fonte cioè, che non ha al di sopra di sé alcun altra norma ad eccezione di quelle di grado costituzionale.
Per avere forza di legge deve anche essere in grado di operare nell’ambito attribuito dalla costituzione alla legge e dunque deve possedere la stessa efficacia, in termini di capacità abrogativa, di quest’ultima.
Elementi caratteristici degli atti con forza di legge sono due: la primarietà e la raffrontabilità in termini di equipollenza alla legge.
v La definizione della fdl basata sul criterio gerarchico come fdl in senso attivo e in senso passivo.
Per tale tesi vi è un presupposto implicito: il concetto della legge come atto a competenza generale dotato di una forza omogenea, che è il concetto tipico della legge in regime di costituzione flessibile. In senso attivo –> in base alla quale basandosi sul criterio cronologico, una legge posteriore deroga ad una legge anteriore. In senso passivo–> capacità della legge di resistere ai tentativi di abrogazione.
Oggi la nostra costituzione rigida ha modificato il concetto di legge che non ha più una forza intesa come efficacia sostanziale, omogenea, come approvato dall’esistenza di leggi cosiddette atipiche, ma soprattutto perché non è più un atto competenza generale o illimitata. Il legislatore ordinario non ha la competenza delle competenze: perché gli è precluso di intervenire su oggetti già disciplinati dalle norme costituzionali o coperte da riserve di legge costituzionali; perché non può disciplinare quelle materie riservate da norme costituzionali ad altre fonti diverse dal leggi costituzionali e dalle leggi ordinarie.
esempio
Il nuovo testo dell’articolo 117 ne è un esempio per quanto riguarda la limitazione della legge statale, a legiferare su determinate materie, elencate con competenza esclusiva. Mentre attribuisce alla legge regionale la competenza residuale-generale su ogni materia non espressamente riservata alle leggi statali o oggetto di potestà legislativa concorrente.
Inoltre si può fare riferimento all’apparente soluzione contraddittoria in ordine all’attribuzione o alla negazione della forza di legge ai regolamenti parlamentari: i regolamenti parlamentari non hanno forza di legge in senso attivo perché non possono abrogare le leggi; hanno forza di legge in senso passivo perché esistono soltanto i tentativi di abrogazione compiuti nei loro confronti di fonti inferiori alla legge, ma addirittura a quelli compiuti dalla legge stessa.
La contraddittorietà di risultati dipende da un motivo molto semplice. La definizione della forza di leggi come forze attiva e passiva presuppone il principio della gerarchia, come principio regolatore tra atti normativi; perciò essa funziona come rapporto tra un determinato atto normativo, del quale sia ignota la forza, e la legge sia regolato da quel principio in termini di superiorità, parità o inferiorità; non funziona più quando un rapporto sia regolato dal principio della competenza.
A fronte di tutto ciò non sembra convincente l’operazione di porre al di fuori della legge tutte quelle fonti cui rapporti nei confronti della legge non siano disciplinati dal principio della gerarchia, come invece ritiene invece la tesi secondo la quale, elemento sostanziale degli atti con forza di legge sarebbe la loro raffrontabilità alla legge in termini di equipollenza.
v La definizione della forza di legge basato sul criterio della competenza:
In questo senso, proprio tenendo conto che i rapporti tra le fonti sono disciplinate talvolta dal principio suddetto ma talvolta dal diverso principio della competenza, si è aggiunta un ulteriore definizione basata sul criterio della competenza: atti con forza di legge sarebbero anche quelli autorizzati da una norma costituzionale a disciplinare determinate materie ad essi riservati sulle quali debbono ritenersi esclusi l’intervento della stessa legge; con espressioni più semplici, potrebbe anche di dirsi che gli atti autorizzati ad intervenire in via esclusiva su quelle materie che prendono il posto delle leggi e quindi sono considerati equivalenti ad essa. Le due definizioni sono complementari nel senso che la prima serve ad accertare la forza di legge quando il rapporto di un atto con la legge, sia regolato dal principio della gerarchia, mentre la seconda adempie la stessa funzione quando il suddetto rapporto sia regolato dal principio della competenza.
v Critica di altri definizione della forza di legge.
Esistono altre tesi. La più nota ribalta la premessa, secondo cui la dimostrazione della forza di legge di un atto, intesa come capacità basata sul principio della gerarchia o sul principio della competenza, deriva la sindacabilità di tale atto da parte della corte costituzionale. Quest’ultima non sarebbe conseguenza bensì presupposto della dimostrazione del primo. Tuttavia per evitare confusione si precisa che l’oggetto del sindacato di legittimità costituzionale da parte della corte, sono tutti quegli atti per i quali l’ordinamento italiano non prevede un diverso sindacato.
Sarebbero quindi residualmente, atti soggetti a controllo della corte costituzionale, tutti gli atti di altri soggetti pubblici per i quali non siano previste apposite forme di controllo.
La prima Critica che scaturisce è quello di un eccessivo ampliamento degli atti ai quali si riconosce la forza di legge.
In secondo luogo perché la questione parte da un presupposto indimostrato e cioè che nell’attuale ordinamento italiano non possono esistere atti sottratti ad una qualche forma di sindacato giurisdizionale di legittimità.
Infatti in tal caso il problema è proprio quello di comprendere se esistono atti che possano essere sottratti alle varie forme di sindacato giurisdizionale in quanto sottoposti esclusivamente ad altre forme di controllo o addirittura di autocontrollo. Un esempio sono i regolamenti parlamentari che alla luce di una sentenza della corte costituzionale si è ritenuto che fossero inammissibili i giudizi di legittimità, compiuti dalla corte costituzionale, in dipendenza del della particolare posizione di indipendenza che la costituzione attribuisce a ciascuna camera, in quanto organi che costituiscono espressione immediata della sovranità popolare.
Un ulteriore esempio nel quale gli atti sono sottratti al controllo di legittimità da parte della corte costituzionale sono: i casi di contrasto di atti con forza di legge con norme comunitarie direttamente applicabili nel nostro ordinamento, tale contrasto è risolto in quanto spetta ai singoli giudici mediante la disapplicazione della norma legislativa italiana e l’applicazione della norma comunitaria.
La giurisprudenza della corte dei conti in tema di forza di legge.
La corte non ha mai compiuto una scelta netta in tema di forza di legge. La corte ha innanzitutto ammesso la sindacabilità dei due unici atti:
- i decreti legislativi ed
- i decreti legge ai quali la costituzione attribuisce espressamente forza di legge.
- Anche i decreti legislativi di attuazione degli statuti delle 5 regioni ad autonomia speciale.
Altri decreti sono approvati dal presidente del consiglio dei ministri ed emanati dal presidente della Repubblica. Tali decreti sono previsti da disposizioni contenute in tutti gli statuti speciali, hanno ad oggetto oltre all’attuazione della disciplina statuale, anche il trasferimento degli uffici del personale statale alle regioni per le materie di competenza di queste ultime. In tutti i casi, l’adozione dei decreti legge da parte del governo, adozione che costituisce espressione di una potestà normativa permanente secondo quanto affermato dalla corte costituzionale, è condizionata al parere preventivo o alla proposta di commissioni paritetiche formate da rappresentanti statali e da rappresentanti regionali. Tale potestà qualificata come una competenza legislativa atipica dirette a specificare le disposizioni statuarie ed in conseguenza di ciò i suddetti decreti prevalgono nei confronti della legge ordinaria dello Stato. La corte ha escluso inoltre la sindacabilità dei regolamenti amministrativi e del regolamento da essa stessa adottato e dai regolamenti.
4.esempi di atti aventi forza di legge: decreti legislativi
Il combinato disposto da gli articoli 76, e 77 prevede l’istituto della delegazione legislativa: articolo 77, stabilisce che “il governo non può senza delegazione delle camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria”; l’articolo 76 stabilisce che “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.
Motivi del ricorso alla delegazione legislativa
Tale situazione può determinarsi quando le camere ritengono di non avere il tempo necessario, in relazione al calendario dei propri lavori oppure quando la suddetta normativa richiede competenze tecniche che le camere non possiedono, a differenza del governo; e per motivi squisitamente politici. Le occasioni suddette non sono tassative e le camere possono ricorrere allo strumento della delegazione legislativa quando meglio credono, fatti salvi i limiti giuridici all’uso della delegazione e ricavabili dall’ordinamento.
La legge come unico strumento per conferire la delega legislativa.
La formulazione degli articoli 76 e 77 della costituzione, non fa espresso riferimento alla legge come unico strumento, con il quale la forza delle camere possono delegare il governo ad adottare atti legislativi con forza di legge. L’interpretazione delle suddette disposizioni ha sempre conferito esclusivamente alla legge questa delega.
L’articolo 72, rafforza la garanzia rappresentata dal necessario il ricorso alla legge, prescrivendo la cosiddetta riserva di legge d’assemblea, obbligo, cioè per ciascuna camera di approvare il disegno di legge di delegazione, ricorrendo al procedimento caratterizzato dall’intervento delle commissioni in sede referente, ed escludendo invece la possibilità di ricorrere al procedimento caratterizzato dall’intervento delle commissioni in sede deliberante ed in sede redigente.
Art.5 Legge n.400 del 1988, vieta la possibilità di conferire deleghe legislative mediante decreto-legge anziché, con strumento della legge, sulla base di due argomenti:
- la necessità che il soggetto delegante sia distinto dal soggetto delegato, perché comporta una minore funzione di controllo;à Il primo argomento non sembra del tutto convincente poiché la funzione di controllo sul governo è comunque esercitabile da parte delle camere in sede di conversione del decreto legge
- l’insussistenza degli strumenti straordinari di necessità ed urgenza di cui all’articolo 77. àDecisivo appare invece il secondo argomento.
Del grado di vincolatività del divieto art. 15 della legge n. 400 del 1988, si può osservare che il limite in questione pur essendo espressamente formulato in una legge ordinaria, è tuttavia ricognitivo di un principio, direttamente posto dalla costituzione e come tale inderogabile da parte di atti aventi forza di legge.
La corte costituzionale con la sentenza n.63 del 1988 ha affermato che l’atto di conferimento al governo della delega legislativa può avvenire solo con legge; la corte però non ha ritenuto illegittimi interventi mediante decreti legge volti a prorogare il termine fissato dalla legge di delegazione o a derogare a taluni principi e criteri direttivi stabiliti da quest’ultima.
Un problema riguarda la determinazione dell’ oggetto, del trasferimento in capo al governo:
- della stessa funzione legislativa del Parlamento
- del semplice esercizio di quest’ultima
- o una funzione normativa del tutto nuova.
Indipendentemente da ciò vi è un importante conseguenza pratica che dell’esercizio della delega legislativa scaturisce dal rapporto tra Parlamento e governo: la possibilità di revoca della delega tanto mediante una legge che abroghi espressamente la precedente legge di delegazione, (cosiddetta revoca espressa), quanto mediante una legge che, pur non contenendo la suddetta disposizione di abrogazione espressa, disciplini in sostanza, in tutto o in parte, l’oggetto della delega stessa, prima che il governo abbia adottato il decreto legislativo, (revoca tacita).
I caratteri
Imperatività à comporta l’obbligo giuridico in capo al governo di dare concreta attuazione alla delega ricevuta;
- Il primo requisito è condivisibile. L’unica conseguenza in caso di inottemperanza vi è sul piano politico, fino all’estremo rimedio della revoca della fiducia e delle conseguenti dimissioni del governo.
Istantaneità à impone al governo di procedere alla suddetta attuazione con unico atto e non con una serie di atti.
- Il secondo requisito è oggi smentito da una specifica disposizione legislativa dall’articolo 14 della legge 400 del 1988, la quale stabilisce infatti che: se la delega legislativa si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata disciplina, il governo può esercitarla mediante più atti successivi per uno o più degli oggetti predetti.
L’uso frazionato del potere delegato
Nella prassi si registrano casi di leggi di delegazione che espressamente consentono al governo un uso frazionato del potere delegato, oppure che stabiliscono addirittura un termine per l’esercizio cosiddetto normale della delega, ed un termine entro il quale il governo può adottare uno o più decreti noti come decreti correttivi, per modificare la disciplina adottata con il primo decreto, ove ciò si renda necessario sulla base delle prime esperienze applicative, al fine di meglio adeguarla ai principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delega.
Le deleghe miste
Accanto alle leggi di delega che sono definite come meramente formali dal momento che non contengono disposizioni pienamente efficaci erga omnes, nella prassi si riscontrano abbastanza spesso le leggi di deleghe miste, in quanto prescriventi oltre alle disposizioni che disciplinano la delega vera e propria, anche disposizioni di immediata applicazione che si riferiscono alla stessa o una diversa materia rispetto a quella oggetto della delega.
I limiti generali delle leggi di delega legislativa.
Si possono escludere dalla possibilità di delega, tutte quelle ipotesi caratterizzate
- profilo sostanziale: dell’esistenza di un rapporto di controllo tra le camere e il governo, oltre al caso esaminato del conferimento della stessa delega legislativa, l’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, legge di conversione dei decreti legge, l’approvazione del bilancio preventivo e consuntivo dello Stato, l’istituzione per legge di commissioni parlamentari di inchiesta, la deliberazione dello stato di guerra ed il conferimento al governo di poteri necessari;
- profilo formale: inoltre tutte quelle ipotesi nelle quali la costituzione non si limita a stabilire una riserva di legge ma indica espressamente che gli eventuali interventi legislativi devono necessariamente essere adottati dalle camere. Una convincente invece la tesi che esclude la possibilità di una delega legislativa nel caso di leggi rinforzate.
Un limite particolare introdotto dalla legge del 27 luglio del 2000 n.212 secondo il quale l’adozione di norme interpretative “in materia tributaria” può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando con tale disposizione l’interpretazione autentica. L’espressione “legge ordinaria” usata nella citata disposizione intende delimitare il potere di interpretazione autentica, escludendo che esso venga esercitato mediante decreto-legge o decreto legislativo. Tale limite però essendo stabilito dalla legge ordinaria senza copertura costituzionale è dunque derogabile da un atto con forza di legge.
Il procedimento di formazione dei decreti legislativi.
Art.14 legge n.400 del 1988: i decreti legislativi adottati dal governo ai sensi dell’articolo 76 della costituzione sono emanati dal presidente della Repubblica con la denominazione di decreto legislativo e con l’indicazione, nel preambolo, della legge di delegazione, della deliberazione del consiglio dei ministri e degli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione.
L’emanazione del decreto legislativo deve avvenire entro il termine fissato dalla legge di delegazione; il testo del decreto legislativo adottato dal governo è trasmesso al presidente della Repubblica, per l’emanazione almeno 20 giorni prima della scadenza del termine suddetto. Se la delega legislativa si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata disciplina il governo può esercitarla mediante più atti successivi per uno o più degli oggetti predetti in relazione al termine finale stabilito dalla legge di delegazione, il governo informa periodicamente le camere sui criteri che segue nell’organizzazione dell’esercizio della delega. In ogni caso, qualora il termine previsto per l’esercizio della delega ecceda i 2 anni, il governo è tenuto a richiedere il parere delle camere sugli schemi dei decreti delegati.
Il parere è espresso dalle commissioni permanenti delle 2 camere competenti entro 60 giorni, impiegando specificamente le eventuali disposizioni non ritenute corrispondenti alle direttive della legge di delegazione. Il governo, nei 30 giorni successivi esaminato il parere, ritrasmette con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni i testi alle commissioni per il parere definitivo che deve essere espresso entro 30 giorni.
Ai sensi dell’articolo 16 della legge n.400 del 1988 i decreti legislativi e i decreti legge non sono più soggetti al controllo preventivo di legittimità alla corte dei conti. Fatta eccezione per i caso nei quali queste ultime comportino delle conseguenze finanziarie.
I limiti art.76 dei principi e criteri direttivi, dell’oggetto definito e del tempo limitato.
Quanto ai limiti dei decreti legislativi stabiliti dell’articolo 76, oggi siamo dinanzi ad una situazione più elastica rispetto ai limiti in questione. Quest’elasticità è spiegata dalla tendenza al decentramento della funzione legislativa, per consentire al Parlamento almeno in teoria, la massima concentrazione sulle grandi scelte politiche.
- Il limite degli oggetti definiti, è spesso sfumato, com’è dimostrato dalle deleghe, che la stessa corte costituzionale ha altresì ammesso ampie deleghe.
- In ordine al limite dei principi correttivi e direttivi vi è il problema dell’ammissibilità di deleghe totalmente vincolate, tali da rendere i corrispondenti decreti legislativi meri decreti provvedimento. La corte costituzionale ha affermato che non può riflettersi sulla legittimità delle leggi di delegazione, il modo con il quale il legislatore delegato abbia esercitato la delegazione e che sia in ipotesi tale da precludere ogni margine di attività libera.
Si sono riscontrate leggi di delegazione che, per quanto attiene la determinazione dei principi e dei criteri direttivi, si sono limitati a rinviare al contenuto di un altro atto normativo primario, ad elementi e dati di tipo tecnico, o all’attuazione di direttive comunitarie.
La determinazione dei principi e criteri direttivi si ricava dall’interpretazione delle finalità della delega, ricavabili oggettivamente dalla legge di delegazione o soggettivamente dalle intenzioni del legislatore delegante, oppure perché ha il compito di colmare la lacuna contenuta nella legge di delegazione, sviluppando e completando le scelte accennate dalle camere.
Il termine della delega
Quanto al termine della delega prescritta dall’articolo 76, la corte costituzionale ha affermato “che ne dalla lettera né dalla ratio ispiratrice della norma in esame, volta a precludere la facoltà di conferire al governo deleghe legislative a tempo indeterminato, è dato di trarre alcun elemento da cui si argomenti l’obbligo di determinare in forme tassative la durata del potere delegato.” In uno qualunque dei modi che consentono di individuare, l’indicazione di un evento futuro ma certo, il momento iniziale e quello finale del termine.
Il termine iniziale, il dies a quo, si era fatto coincidere con la data di entrata in vigore della legge di delegazione. Ma in questo caso deve esigersi un rigoroso adempimento dell’obbligo, imposto al potere esecutivo dell’articolo 73, di procedere alle operazioni necessarie a rendere efficace la legge medesima subito dopo che sia intervenuta la pubblicazione, senz’altro indugio oltre quello richiesto dall’espletamento dell’attività materiali, necessari per la pubblicazione. Il termine della delega deve intendersi rispettato qualora prima della sua scadenza il decreto legislativo sia stato emanato dal presidente della Repubblica. L’obbligo per il governo di trasmettere il capo di Stato il testo del decreto legislativo almeno 20 giorni prima della scadenza deve intendersi come termine a carattere direttivo.
I limiti ulteriori.
Oltre a quelli stabiliti dall’articolo 76, vi sono altri specifici limiti, ai quali il governo deve attenersi nella formulazione dei relativi decreti legislativi.
Si è concretizzata dalle possibilità soprattutto della previsione di un parere, quasi sempre soltanto obbligatorio ma in un caso vincolante, sugli schemi di decreti legislativi predisposti dal governo espresso dalle competenti commissioni parlamentari permanenti, talvolta integrate da esperti non parlamentari, oppure da una commissione bicamerale istituita dalla legge di delega. Fin dal 1975 collegi di delega hanno previsto il meccanismo del doppio parere. L’ipotesi di deleghe per l’esercizio delle quali sia previsto un termine superiore ai due anni.
Sindacato della corte costituzionale sull’eccesso di delega
La corte a suo tempo investita della questione di legittimità costituzionale di un decreto legislativo che si assumeva illegittimo, in quanto contrastante con alcuni dei limiti contenuti nelle leggi di delega ai sensi dell’articolo 76, esaminò preliminarmente l’ammissibilità della questione in relazione alla propria competenza, poiché nella fattispecie il decreto legislativo non contrastava in modo diretto con alcuna norma formalmente costituzionali, ma soltanto con una legge ordinaria, cioè la legge di delega. La corte affermò la propria competenza precisando che le violazioni di una norma costituzionale può avvenire sia in modo diretto che modo indiretto: questo secondo caso ricorre, nella fattispecie comunemente definita come “eccesso di delega legislativa”, poiché il decreto legislativo violando i limiti contenuti nella legge di delega, vìola indirettamente anche l’articolo 76, che impone esplicitamente alla legge di delega di fissare determinati limiti, ed implicitamente al decreto legislativo, di rispettare quanto da essa stabilito: le leggi di delegazione è pertanto qualificata come “norma interposta”.
L’unico problema ancora attuale in tema di limiti ulteriori è quello relativo dell’ammissibilità di un parere vincolante da parte dei vari tipi di commissioni parlamentari indicati in precedenza.
La dottrina prevede tre possibilità:
La prima ritiene ammissibile la previsione di un parere vincolante in vista di un uso ripetuto della delega, consentito per un lungo periodo, senza poter modificare nell’essenziale l’originario decreto; la seconda posizione è anch’essa favorevole alla previsione di pareri a carattere vincolante, argomentandosi in tal senso dal carattere para-legislativo delle commissioni parlamentari competenti ad esprimere il parere e dalla circostanza che resterebbe sempre al governo una residua libertà in ordine alla decisione se adottare o no il decreto, gli argomenti suddetti non sembrano però convincenti. Sembra pertanto preferibile la terza posizione, che esclude del tutto l’ammissibilità di pareri a carattere vincolante.
In conclusione, i limiti dei decreti legislativi possono riassumersi nel seguente modo:
a) limiti derivanti dal rispetto di tutte le norme di grado costituzionale;
b) i limiti posti dalle singole leggi di delegazione sia come attuazione di quelli previsti dall’articolo 76, sia come limiti ulteriori;
c) i limiti posti dalla legge 400 del 1988 articolo 14 in quanto norma che stabilisce norme sulla produzione di decreti legislativi,
d) i limiti posti da singole leggi ordinarie, come, illimitatamente stabiliti in tema di interpretazione autentica nella materia tributaria, legge 27 luglio 2000, n.212.
Il discorso è più complesso nei riguardi della violazione di limiti stabiliti da leggi ordinarie, le cui le cui disposizioni non hanno, grado costituzionale ne possono qualificarsi come norme interposte in senso stretto.
Il divieto di sub-delegazione legislativa.
La sub-delegazione legislativa si verifica quando la norma del decreto legislativo delega a sua volta una parte della disciplina delegata ad un successivo decreto legislativo (sub-delegazione legislativa), oppure ad un successivo regolamento amministrativo, (sub-delegazione regolamentare). Una parte della dottrina ritiene illegittimo il fenomeno della sub-delegazione in base al carattere imperativo della delega legislativa o per il principio della tassatività delle competenze tracciate dalla costituzione.
I limiti della sub-delegazione nei confronti dei regolamenti amministrativi.
In riferimento alla sub-delegazione regolamentare si era suo tempo problematicamente affermato che “si tratterà di vedere di volta in volta se una siffatta possibilità sia compatibile con i principi e criteri direttivi espressamente dettati dal Parlamento e, quando manchi qualsiasi indicazione al riguardo, una disciplina anteriormente vigente nel settore cui la delega si riferisce.”
Successivamente l’articolo 17 della legge 400 del 1988 ha stabilito che possono essere emanati regolamenti per disciplinare:
- l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitari;
- l’attuazione e l’integrazione dei decreti legislativi recanti norme di principio.
L’articolo 17 conferma le conclusioni sulle quali si concorda, secondo le quali il decreto legislativo potrà autorizzare l’adozione del regolamento purché non sugli oggetti per cui la delega è stata conferita, sebbene su oggetti determinati e consequenziali; non potendo il governo degradare il potere attribuitegli né eludere il termine previsto dal suo esercizio.
Il regolamento amministrativo potrà intervenire soltanto su soggetti subordinati e consequenziali rispetto a quelli propri della delega legislativa; tale sub-delegazione, non dovrà costituire un escamotage per eludere il termine fissato dalla legge di delega.
Qualora poi il decreto legislativo autorizzasse l’ intervento di uno dei regolamenti previsti dall’articolo 17 legge 400 nel 1988, tale possibilità dovrebbe considerarsi ammissibile soltanto qualora essa sia prevista dalla legge di delega nel rispetto delle disposizioni stabilite.
Forme controverse di deleghe legislative:
q testi unici
In dottrina si è parlato di delega anomala in riferimento alla redazione dei testi unici.
Nel caso dei testi unici occorre distinguere tra:
- testi unici meramente compilativi, pur perseguendo il medesimo scopo di ristabilire la maggiore unità possibili tra le disposizioni vigenti in una determinata materia, tale finalità debbono realizzarsi senza apportare modificazioni sostanziali alle vigenti disposizioni di legge.
- testi unici di coordinamento, raccolgono e armonizzano tra loro, le disposizioni in una determinata materia, eliminando quelle già abrogate, ma anche abrogando quelle incompatibili con la suddetta armonizzazione, oppure aggiungendo norme nuove, purché finalizzate all’integrazione e al coordinamento delle norme vigenti.
Nel caso dei testi unici di coordinamento, si può parlare di delegazione legislativa anomala, poiché se da un lato le relative leggi di delega, non stabilivano principi e criteri direttivi dall’altro i decreti del governo assumevano comunque la forma di decreti legislativi dotati di forza di legge in quanto, se nò non avrebbero avuto la capacità di abrogare le disposizioni legislative contrastanti con le esigenze di coordinamento.
La giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere che i testi unici meramente compilativi siano il frutto di una semplice potestà amministrativa, poiché la volontà legislativa sarebbe indissociabile con la facoltà di modificare, coordinare ed integrare le norme vigenti.
Testi unici compilativi sono stati pertanto considerati come una semplice fonte di cognizione: come tali non vincolanti per i giudici, che qualora lo ritengano difforme dalle disposizioni legislative originarie, che avrebbero dovuto essere pedissequamente riprodotte, le disapplicano.
I testi unici cosiddetti misti, in quanto aventi ad oggetto il coordinamento non soltanto di disposizioni legislative, ma anche disposizioni regolamentari, previste dalla legge 59 del 1997 e quella del 99. Esempio: i disegni di legge di semplificazione, dove il governo propone annualmente le norme di delega o di delegificazione necessarie alla compilazione di testi unici di natura legislativa o regolamentare.
Inoltre al governo è attribuita la facoltà di adottare testi unici contenenti, in un unico testo con le opportune differenziazioni disposizioni legislative e regolamentari.
E’ comunque pacifico che rientrando nella categoria di testi unici meramente compilativi, quelli relativi alle leggi costituzionali e quelli eventualmente adottati dalle regioni in relazione alle proprie leggi.
q Conferimento al governo dei poteri necessari in caso di guerra
L’articolo 78, stabilendo che “le camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al governo i poteri necessari” è stato interpretato dalla dottrina in due modi differenti:
Secondo una prima tesi il conferimento al governo dei poteri necessari si configurerebbe come una delega legislativa, ancorché molto anomala giacchè l’imprevedibilità delle esigenze belliche di per sé esclude com’è ovvio, il rispetto dei limiti previsti dall’articolo 76;
secondo un’altra tesi invece la legge di conferimento dei poteri esercitabili dal governo in tempo di guerra andrebbe ricostruita come un’autorizzazione all’esercizio della potestà legislativa straordinaria mediante decreti legge anomali, assoggettati all’obbligo di conversione, ma svincolati dal rispetto del termine previsto all’articolo 77.
La maggiore incisività del ruolo del Parlamento in via preventiva e la maggiore libertà di azione che deriva al governo dall’operare mediante atti definitivi, quali sono i decreti legislativi piuttosto che mediante atti provvisori, quali sono i decreti legge, costituiscono argomenti che fanno preferire la tesi della delega anomala. Gli atti adottati dal governo in tempo di guerra, sono essi qualificati come decreti legislativi o come decreti legge anomali, oltre ad avere la normale forza di legge, possono altresì derogare a norme costituzionali senza necessità di ricorrere allo strumento della revisione costituzionale. Del resto, è la stessa costituzione a prevedere per il tempo di guerra l’automatica o soltanto possibile operatività di norme che derogano ad alcune delle norme costituzionali vigenti.
5.esempi di atti aventi forza di legge: decreti legge.
Art.77 “Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.
Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.”
L. n.100 del 1926 che conferì formale legittimazione al decreto-legge prevedendo altresì l’obbligo della sua presentazione al parlamento per l’eventuale conversione in legge e la sua decadenza, in caso di mancata conversione.
Il decreto legge come atto provvisorio dotato di forza di legge.
La dottrina e la giurisprudenza ritengono che il disposto dell’art.77 attribuisca al governo la specifica competenza ad adottare atti con forza di legge, d’immediata anche se provvisoria, vigenza come tali vincolanti per qualsiasi soggetto, sia esso pubblico o privato.
Il presupposto della straordinaria necessità ed urgenza.
Presupposto per l’adozione del decreto legge e dunque condizione per la sua legittimità è il verificarsi di una situazione di straordinaria necessità e d urgenza.
L’art.15 della L. n.400 del 1988 stabilisce che i decreti devono contenere misure d’immediata applicazione. Mentre da altri si è sostenuto che possano riferirsi anche al solo “provvedere” in se per sé. Fin dall’epoca statuaria però si sono avuti casi di decreti legge, la cui concreta attuazione richiedeva l’espletamento di procedure amministrative di non breve periodo ma la collocazione delle quali nel testo del decreto legge era giustificata dalla necessità di manifestare immediatamente alle popolazioni interessate la volontà politica del governo in loro favore.
Esistono alcune situazioni nelle quali non è certa la presenza del requisito della straordinaria necessità ed urgenza.
Si deve inoltre aggiungere alcune situazioni nelle quali il decreto-legge si limiti a conferire al governo l’autorizzazione ad adottare successivi regolamenti amministrativi oppure condizioni l’efficacia delle disposizioni all’adozione di tali regolamenti.
La prassi mostra molto spesso abusi commessi dal governo in relazione alla requisito della straordinaria necessità ed urgenza.
Gli abusi da parte del governo di uno strumento del decreto-legge.
Tale requisito non è stato per niente rispettato dai decreti che hanno introdotto diverse riforme di vasta portata come quelle dell’università; né dai decreti legge cosiddetti periodici, in quanto disciplinanti con cadenza ricorrente una determinata materia; né dai decreti legge cosiddetti di proroga tendenti cioè a prorogare termini di scadenza previsti da disposizioni legislative vigenti qualora se ne ravvisi l’esigenza; né dai decreti legge cosiddetti a influsso così qualificati in quanto disciplinanti le materie più disparate con una pluralità di disposizioni.
L’illegittima prassi della reiterazione del decreto-legge.
Il sintomo più evidente dell’abuso del decreto-legge è rappresentato dalla crescita impressionante del numero dei decreti legge via via adottati negli anni. I governi di coalizione succedutesi nel tempo, poco sicuri della propria maggioranza parlamentare, hanno adottato molto spesso dei decreti legge, invece di presentare disegni di legge alle camere, forzando la maggioranza a decidere sulla sorte del disegno di legge di conversione del decreto-legge entro il termine di 60 giorni stabilito dall’articolo 77.
Tale espediente si rivelò disastroso poiché, aumentò ancora di più il ricorso allo strumento del decreto-legge attraverso il nuovo espediente della reiterazione dei decreti legge. A fronte della mancata conversione in legge nel termine di 60 giorni da parte delle camere, il governo adottò di fatto un nuovo decreto-legge il cui contenuto riproduceva il contenuto del precedente decreto non convertito per di più inserendo, nel decreto stesso o nel disegno di legge di conversione, la norma che faceva salvi gli effetti prodottisi sulla base del precedente decreto. Si crearono “catene normative”.
Il rapporto causa-effetto tra abuso e reiterazione divenne di tipo circolare: da un lato il governo, sapendo di poter reiterare, ha sempre meno freni nell’adottare decreti legge; dall’altro le camere, egualmente contando sulla possibilità della reiterazione, ebbero sempre meno stimoli a deliberare sulla conversione.
Il ricorso alla prassi della reiterazione è oggi decisamente ridimensionato, a seguito delle critiche di illegittimità costituzionale avanzate dalla dottrina e fatti propri dalla corte costituzionale.
Secondo la corte, la prassi della reiterazione, altera la natura provvisoria della decretazione d’urgenza, procrastinando di fatto il termine invalicabile di 60 giorni, previsto dalla costituzione per la conversione in legge, quindi la reiterazione stabilizza e prolunga nel tempo; incide sugli equilibri istituzionali, alterando i caratteri della stessa forma di governo e l’attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento; intacca la certezza del diritto nei rapporti tra i diversi soggetti, soprattutto quando il decreto reiterato incida nella sfera dei diritti fondamentali o nella materia penale o produce effetti irreversibili anche nel caso di mancata conversione.
La corte aggiunge, quindi, che il governo può legittimamente intervenire nella stessa materia con un successivo decreto legge, soltanto qualora ricorra una delle seguenti condizioni:
q che il nuovo decreto risulti nel contenuto sostanzialmente diverso, poiché in tal caso è al di fuori della fattispecie della reiterazione;
q che il nuovo decreto pur avendo un contenuto identico a quello del precedente, risulti però fondato su nuovi, autonomi e sopravvenuti motivi di straordinaria necessità ed urgenza, e motivi che, non potranno essere ricondotti al solo fatto del ritardo conseguente alla mancata conversione del precedente decreto.
Gli altri limiti del decreto-legge.
Limiti imposti da norme costituzionalià è da ritenersi che esse non possono in nessun caso essere abrogate, derogate o sospese dal decreto-legge, diversamente da quanto sostenuto da una parte della dottrina sia in nome della necessità come fonte istituzionale del diritto, sia sulla base di una particolare interpretazione dell’ultimo comma dell’articolo 77.
Tale disposizione, secondo la quale le camere possono regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti, sarebbe infatti priva di qualsiasi significato pratico, qualora non si ammettesse la capacità del decreto-legge di eccedere i limiti propri delle leggi ordinarie. Tuttavia in mancanza della suddetta disposizione le camere non avrebbero potuto disciplinare i rapporti sorti sulla base dei decreti non convertiti, senza violare il primo periodo dello stesso comma, che prevede l’automatica e retroattiva decadenza dei decreti non convertiti. In secondo luogo la disposizione in esame rientra tra quelle disposizioni costituzionali come l’articolo 25 che hanno la funzione di limitare la capacità della legge di disporre con efficacia retroattiva
L’articolo 77 espressamente attribuisce al decreto-legge valore di legge ordinaria, e la legge di conversione è leggi ordinaria e non costituzionale; che, soprattutto, il carattere rigido della costituzione tollera unicamente il ricorso alle procedure di cui all’articolo 138, non soltanto per la modifica ma anche per le eventuali deroghe o sospensioni di norme costituzionali.
Avere affermato la necessaria ed ineludibile subordinazione del decreto legge alle norme di rango costituzionale non esclude tuttavia che in situazioni più che di emergenza, ma di vera e propria crisi del sistema istituzionale, il decreto-legge possa disporre oltre ciò che gli è normalmente consentito e quindi anche derogare e sospendere a norme costituzionali. In questo caso soltanto formalmente si può parlare di privilegi poiché in realtà si opera con atti eccezionali extra ordinem, atti che potrebbero anche essere adottati da soggetti diversi dal governo, quali il presidente della Repubblica o il Parlamento, in base ai possibili impedimenti.
Appaiono materialmente inutili i tentativi di dare un minimo di veste giuridico-formale ad atti del genere: quello di sostenere che gli eventuali decreti legge extra ordine dei votanti ha norme costituzionali andrebbero convertito in legge costituzionale quello di sostenere l’applicazione in via analogica della disciplina prevista dall’articolo 78 per lo stato di guerra ad altre situazioni di emergenza differenza che esiste tra la guerra in senso proprio e l’emergenza interna e. Cruciale riguarda quindi la determinazione di quale sia il concetto di emergenza, che consente il ricorso a strumenti normativi extra ordine fondati soltanto sulla loro affettività, siano essi del governo del Parlamento o del capo dello Stato, a seconda dei possibili impedimenti ad agire concreto esistenti nei confronti di ciascuno di tali organi. Tale concetto dovrebbe essere circoscritto il più possibile per evitare il rischio di colpi di mano e rendere possibile il massimo rispetto della legalità formale soprattutto a favore dei diritti fondamentali garantiti dalla costituzione o dalla forma di governo parlamentare.
Ragioni analoghe a quelle fin qui adottate per sostenere la subordinazione del decreto-legge alle norme costituzionali valgono, altresì, per escludere la possibilità di concedere amnistie o indulti con lo strumento del decreto-legge.
Limiti al contenuto del decreto-legge ed alla sua legittimazione a disciplinare determinate materie sono stabiliti dalla l.400 del 1988, secondo cui:
2. “il governo non può, mediante decreto legge:
a) Conferire deleghe legislative;
b) provvedere nelle materie indicate nell’articolo 72;
c) rinnovare le disposizioni di decreti legge dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due camere;
d) regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti;
e) ripristinare l’efficacia delle disposizioni dichiarate illegittime dalla corte costituzionale, per vizi non attinenti al procedimento.
3. i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.”
Le legge n.400, stabilisce limiti vincolanti per il contenuto di successivi atti con forza di legge dipende dalla possibilità di qualificare tali lmiti come esecutivi o ricognitivi di norme o principi di grado costituzionale, talché la loro violazione comporta automaticamente la violazione della norma o del principio costituzionale, al quale si ricollegano.
Quanto alla materia costituzionale e alla materia elettorale, vi è il divieto per il decreto-legge di intervenire sulla materia costituzionale e ciò dipende dalla sua subordinazione alle norme di grado costituzionale, giacché le leggi in materia costituzionale stabilite all’articolo 72 secondo le interpretazioni sono le leggi formalmente costituzionali di cui all’articolo 138.
Divieto assoluto in ordine alla materia elettorale è smentito dalla prassi che si è concretizzata nell’adozione dei decreti legge in materia elettorale. Sotto questo profilo il decreto-legge può validamente derogare al divieto in questione, non sussistendo alcuna violazione di norme costituzionali, la conclusione sarebbe invece opposta, qualora a meno di 60 giorni dalla data delle elezioni, si volesse cambiare con decreto-legge le leggi elettorali, nel suo complesso capo limiti ulteriori.
Limiti ulteriori sono previsti dall’articolo 15 della legge 400 n.1988:
q il limite dell’omogeneità di materia può essere superato dal singolo decreto-legge salvo che le eventuali disposizioni eterogenee, proprio in quanto tali, siano carenti del requisito della straordinaria necessità ed urgenza;
q il limite dell’immediata applicabilità delle singole disposizioni del decreto-legge;
q allo specifico limite in materia tributaria.
Ulteriori vincoli derivano dal carattere della provvisorietà:
- quando ci si riferisce a provvedimenti provvisori;
- quando si stabilisce la durata del decreto-legge che è limitata a 60 giorni;
- quando si attribuisce alle camere il potere di scegliere se convertire in legge il decreto oppure non convertirlo, cancellando retroattivamente gli effetti nel frattempo prodotte dal decreto stesso.
Una prima conseguenza di tale vincolo ha portato alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della prassi della reiterazione del decreto-legge.
Una seconda conseguenza riguarda l’implicito divieto per il decreto-legge di contenere disposizioni, la cui applicazione dia luogo ad effetti irreversibili, poiché in tal caso, sarebbe leso il potere, di cancellare ogni effetto prodotto dal decreto qualora le camere abbiano deciso di non convertire.
Il governo però ha spesso adottato decreti legge che hanno prodotto effetti irreversibili, tale circostanza non nè giustifica là legittimità ma, fa dubitare dell’efficacia dei rimedi predisposti dall’ordinamento nei confronti di decreti legge recanti disposizioni illegittime. Dubbi in tal senso ancora più gravi, vi sono sul fatto che la forma di vizio in questione sarebbe a sua volta irreversibile, non esistendo un rimedio al riguardo: infatti, anche un’eventuale decisione di annullamento della corte costituzionale non potrebbe più rimuovere le conseguenze già prodotte.
un esempio riguarda un edificio del ‘500 pericolante a seguito del terremoto: un eventuale decreto-legge, adottato per fronte a tale calamità naturale, non potrebbe contenere una disposizione che prevede l’abbattimento dell’edificio suddetto e qualora tale abbattimento venisse compiuto, l’eventuale mancata conversione del decreto, consentirebbe la ricostruzione non già dell’originale ma bensì di una semplice copia. Determinando così un effetto irreversibile.
Quanto all’esempio, la situazione sarebbe effettivamente paradossale se la conclusione dovesse essere quella ipotizzata cioè l’impossibilità di abbattere l’edificio da non determinare un effetto irreversibile. In realtà sono in gioco due valori costituzionali tutelati: da un lato il valore della provvisorietà del decreto-legge, dall’altro il valore della tutela della sicurezza pubblica, valore quest’ultimo che risulterebbe certamente violato dal mancato abbattimento di un edificio a gran rischio di crollo. La corte costituzionale ha fatto dunque un bilanciamento dei valori costituzionali, dando la preferenza a quello tra essi ritenuto prevalente, nella fattispecie quello della sicurezza pubblica.
Le conclusioni possono essere quindi le seguenti: un effetto irreversibile è giustificato dall’esigenza di tutelare un principio o valore costituzionale prevalente, rispetto dei principi di quell’articolo 77, à è pienamente legittimo; quando invece tale giustificazione non sussiste l’effetto irreversibile deve ritenersi illegittimo in virtù del divieto risolvibile del principio di provvisorietà del decreto-legge.
Il procedimento di formazione decreto-legge.
È disciplinato dall’articolo 15 della legge 400 del 1988, adottati ai sensi dell’articolo 77, sono presentati, per l’emanazione al presidente della Repubblica con la denominazione “decreto-legge” e con l’indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di necessità ed urgenza che ne giustificano l’adozione, nonché dell’avvenuta deliberazione del consiglio dei ministri.
Il decreto-legge è pubblicato, senza ulteriori adempimenti, nella gazzetta ufficiale immediatamente dopo la sua emanazione, e deve contenere la clausola di presentazione al Parlamento per là conversione in legge
L’articolo 77 prescrive che il governo, una volta adottato il decreto-legge, deve il giorno stesso presentarlo per la conversione alla camere che, anche se sono sciolte, sono appositamente convocate, e si riuniscono entro cinque giorni. In realtà poiché la presentazione del decreto-legge alle camere tende al raggiungimento del fine della sua conversione in legge, l’atto che il governo presenta non è il decreto-legge in quanto tale, bensì un disegno di legge, redatto in un articolo unico che dispone la conversione, al quale viene allegato il testo del decreto-legge.
AL SENATO
L’articolo 78 del regolamento del senato, stabilisce che il disegno di legge di conversione è assegnato oltreché alla commissione competente anche alla commissione affari costituzionali, che deve esprimere il proprio parere sulla sussistenza dei presupposti richiesti dall’articolo 77 e dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente; qualora la commissione esprima parere contrario viene sottoposto entro cinque giorni al presidente del senato al voto dell’assemblea, se l’assemblea si pronuncia per la non sussistenza dei presupposti richiesti dall’articolo 77 o dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente, il disegno di legge di conversione si intende respinto; qualora tale deliberazione, riguardi parti o singole disposizioni del disegno di legge di conversione, i suoi effetti operano limitatamente a quelle parti o disposizioni, che si intendono soppresse.
ALLA CAMERA
L’articolo 96 del regolamento della camera, è stato modificato nel ‘97 con la sostituzione della procedura suddetta con la facoltà, attribuita ad un presidente di gruppo o 20 deputati, di presentare una questione pregiudiziale, riferita al contenuto del disegno di legge di conversione e del relativo decreto-legge, che deve essere votata dall’assemblea.
Una seconda differenza procedimentale è quella secondo la quale i disegni di legge di conversione sono altresì assegnati al comitato per la legislazione, che nel termine di cinque giorni, esprimono parere alle commissioni competenti, anche proponendo la soppressione delle disposizioni del decreto-legge che contrastino con le regole sulla specificità e omogeneità e sui limiti di contenuto dei decreti legge, previste dalla vigente legislazione.
Poiché il disegno di legge di conversione consta di un articolo è prevista soltanto la votazione finale. Prima di questo tipo sono votati gli eventuali emendamenti proposti dagli articoli del decreto-legge allegato; devono essere strettamente attinenti alla materia del decreto-legge.
Ai sensi della legge 400 n. 1988 le modifiche eventualmente apportate al decreto legge in sede di conversione hanno efficacia, dal giorno successivo a quello dell’applicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente. Esse sono elencate in allegato alla legge. Il ministro della giustizia cura che del rifiuto di conversione o della conversione parziale, purché definitiva, nonché della mancata conversione per decorrenza del termine, sia data immediata pubblicazione gazzetta ufficiale.
Anche il decreto-legge così come il decreto legislativo è sottratto al controllo preventivo di legittimità delle corti dei conti.
La qualificazione della legge di conversione: novazione o convalida?
Problema tradizionale dibattuto è quello della qualificazione della legge di conversione, che può essere configurata come pura novazione della fonte o come mera convalida,.
Si prenda il caso della carenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza ove si ritenga che la legge di conversione si configuri quale novazione, tale vizio sarebbe irrimediabilmente assorbito dall’intervento parlamentare, che li sana e li rende inoppugnabili, mentre accedendo alla tesi della convalida il vizio sarebbe sindacabile, anche dopo lo conversione, poiché il decreto-legge rimarrebbe comunque nell’ordinamento. La dottrina dominante ha sempre preferito accedere alla tesi della novazione.
Nella sentenza n.29 del 1995, il giudice costituzionale ha ammesso la possibilità di sindacare il vizio dei presupposti del decreto-legge, almeno nei casi di evidente mancanza, anche successivamente alla conversione, negando l’efficacia sanante.
Le successive sentenze hanno confermato nel caso del decreto-legge convertito, il sindacato sulla sussistenza dei presupposti della straordinaria necessità ed urgenza, che deve limitarsi alla loro evidente mancanza, che non può essere sanata dalla legge di conversione, in quanto costituente un vizio in procedendo della stessa, infine la questione viene definitivamente chiusa dalla recentissima sentenza n.171 del 2007.
Ultima questione cui accennare è quella relativa all’articolo 77, secondo cui le camere possono regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. Si tratta esplicitamente di una riserva di legge formale, nel senso che solo la legge disporre quest’intervento teso a limitare le difficoltà pratiche dipendenti dalla retroattività della decadenza per mancata conversione, stabilizzando gli effetti verificatisi nel periodo di provvisoria urgenza del decreto.
CAPITOLO 5
IL REFERENDUM ABROGATIVO
Il referendum abrogativo.
Il referendum abrogativo previsto dall’articolo 75 della costituzione ed attuato dopo 22 anni della legge n.352 del 1970, rappresenta un istituto di democrazia diretta attraverso il quale il corpo elettorale chiamato a pronunciarsi sull’abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente forza di legge su richiesta di 500.000 elettori o 5 consigli regionali.
Hanno diritto a partecipare al referendum tutti cittadini chiamati ad eleggere la camera dei deputati; la proposta soggetta referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. L’articolo 75 inoltre esclude la sottoponibilità a referendum delle leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e di indulto o di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Il procedimento referendario previsto dalla legge 152 del 1970.
Il procedimento consta di quattro fasi:
- la fase preparatoria,
- fase del controllo,
- la fase costitutiva,
- la fase dichiarativa del risultato referendario.
L’iniziativa referendaria spetta a 500.000 elettori o 5 consigli regionali.
- Nelle prima ipotesi la raccolta delle firme in appositi fogli vidimati contenenti i termini del quesito referendario da depositare presso l’ufficio centrale per il referendum assieme certificati elettorali, spetta ad un comitato di promotori;
- nella seconda ipotesi, l’iniziativa parte da un consiglio regionale e la richiesta è presentata presso il medesimo ufficio, da 5 delegati dei rispettivi consigli regionali.
I quesiti referendari devono essere depositati nell’arco di tempo che va dal 1º gennaio al 30 settembre, di ogni anno; la richiesta di referendum non può invece essere presentata nell’anno precedente la scadenza di una delle camere o nei mesi successivi alla data di indizione delle elezioni. In caso di scioglimento anticipato delle camere il referendum indetto viene sospeso ed i termini procedurali riprendono a decorrere dopo un anno dalle elezioni.
Alla scadenza del 30 settembre, l’ufficio centrale per il referendumcostituito presso la corte di cassazione, deve esaminare le richieste referendarie depositate ed effettuare un controllo di legittimità teso a verificare la loro conformità alle norme di legge, ad esclusione del giudizio di ammissibilità che spetta alla corte costituzionale a norma della legge del 1953.
In particolare l’ufficio centrale verifica:
- la regolarità delle firme raccolte;
- la natura dell’atto oggetto della referendum;
- l’eventuale uniformità o analogia di materia fra le richieste referendarie depositate, provvedendo in tal caso alla loro concentrazione dopo aver sentito i presentatori cui delegati.
Inoltre l’ufficio centrale per il referendum in sede di controllo delle richieste referendarie, ha il potere di interrompere il procedimento referendario nell’ipotesi in cui la normativa oggetto del quesito referendario, stia per essere abrogata o modificata dal Parlamento. La corte costituzionale nella sentenza 68 del 1978, afferma che può essere disposta soltanto se la nuova legge approvata dal Parlamento modifichi o abroghi contenuti normativi essenziali della disciplina precedente.
Entro il 15 dicembre, l’ufficio centrale deve decidere sulla legittimità delle richieste referendarie presentate con ordinanza definitiva, che viene comunicata alla corte costituzionale e notificata ai promotori dei referendum.
Superato il vaglio dell’ufficio centrale, i quesiti referendari vengono sottoposti ad un nuovo e diverso controllo da parte della corte costituzionale, la quale deve pronunciarsi sull’ammissibilità dei quesiti referendari con sentenza dà pubblicarsi entro il 10 febbraio sulla gazzetta ufficiale. Se la richiesta referendaria viene dichiarata ammissibile dalla corte, il referendum viene indetto in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno con decreto del presidente della Repubblica, su deliberazione del consiglio dei ministri. Effettuate le votazioni, spetta all’ufficio centrale per il referendum effettuare un nuovo controllo teso ad accertare il raggiungimento del quorum sia di partecipazione, sia deliberativo; in caso di esito positivo, l’ufficio procede alla proclamazione dei risultati della referendum.
q In caso di esito favorevole all’abrogazione, il presidente della Repubblica con proprio decreto dichiara l’avvenuta abrogazione; il decreto viene immediatamente pubblicato sulla gazzetta ufficiale e sulla raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della repubblica italiana. L’abrogazione opera dal giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto sulla gazzetta ufficiale, a meno che il presidente della Repubblica disponga su proposta del Ministro interessato, che l’abrogazione abbia effetto successivamente ma comunque non oltre il sessantesimo giorno dalla pubblicazione del decreto,
q se invece non viene raggiunta la maggioranza dei voti validi oppure se il risultato contrario all’abrogazione, il ministro di grazia e giustizia ne dà notizia sulla gazzetta ufficiale; in tal caso non può essere proposto il medesimo quesito referendario prima che siano trascorsi cinque anni.
La funzione di giudicare l’ammissibilità del referendum abrogativo.
Tale funzione spetta alla corte costituzionale in base alla legge costituzionale n.1 del 1953; ribadita dall’articolo 33 comma 4 della legge n. 352 del 1970.
Limiti
Il limite posto dall’articolo 75, secondo il quale non è ammesso referendum di leggi tributarie, di bilancio, di amnistia, di indulto, e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali.Tali limiti subiscono un’ampia ed eterogenea estensione ad una serie di limiti ulteriori.
La corte costituzionale ha operato su tre versanti al fine di eliminare tali limitazioni ulteriori all’ammissibilità della referendum abrogativo:
a) Interpretando estensivamente le categorie di leggi precluse dall’articolo 75, comma 2 della costituzione;
b) rinvenendo i limiti alla struttura dei quesiti referendari;
c) escludendo dall’ambito delle consultazioni referendarie una serie ulteriori di leggi o materie
a) L’interpretazione letterale della norma dell’articolo 75. E’ stata integrata da una interpretazione logico sistematica, per cui vanno sottratte al referendum le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi indicate dall’articolo 75, tanto che la preclusione debba ritenersi sottintesa.
b) Pur potendo un singolo referendum coinvolgere una pluralità di disposizioni di una singola legge o anche di una pluralità di atti legislativi, la corte ha sempre ritenuto indispensabile che il quesito risulti omogeneo, coerente ed intelligibile. Ciò significa che non può essere sottoposto al corpo elettorale una referendum che contenga una tale pluralità di domande eterogenee, carente di una matrice razionalmente unitaria, tale da non poter venir ricondotto a norma dell’articolo 75, il quale esige che i lettori debbano poter votare per il sì o per il no rispetto ad interrogativi chiari e precisi.
c) Sono state escluse dalle consultazioni referendarie anche la costituzione e le leggi approvate con il procedimento di cui all’articolo 138, gli atti legislativi dello Stato dotati di una forza passiva peculiare e le disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, cioè quelle leggi il cui contenuto normativo non possa venir alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti e specifici disposti della costituzione stessa. Ad esempio su leggi la cui mancanza paralizzerebbe il funzionamento di un organo, come il consiglio superiore della magistratura.
Referendum Parziali.
Va’ a questo proposito precisato che la corte costituzionale ha dichiarato ammissibili in materia elettorale soltanto referendum cosiddetti parziali, ossia quei referendum che non abbiano come risultato in caso di esito positivo, quello di produrre un mero vuoto, ma provocano una disciplina di risulta in grado di consentire il funzionamento degli organi elettivi senza bloccarne l’eleggibilità.
Referendum manipolativi.
In tal modo ha dichiarato ammissibili molti referendum di natura manipolativi a. Con tale espressione ci si riferisce oramai comunemente a quel referendum avente ad oggetto non compiute disposizioni espressive di significati normativi, ma frammenti di testo di per sé privi di significato, la cui eliminazione è capace di modificare e stravolgere la grazia del testo normativo non colpito da abrogazione.
La giurisprudenza della corte costituzionale sui referendum manipolativi.
La corte con la sentenza n.36 del 1997 ha affrontato direttamente il problema dei quesiti manipolativi, aggiungendo un nuovo limite all’ammissibilità del referendum, quello della mera dell’ablatività del quesito referendario. In questo senso la corte distingue un intervento manipolativo costituzionalmente vincolato, da quello fraudolento.
Pertanto, il referendum manipolativo è ammissibile se la nuova normativa da esso prodotta si ricava di per sé dall’ordinamento giuridico; se invece tale effetto dipende essenzialmente da tecniche di taglio, utilizzate dai promotori, il referendum è inammissibile. È stato utilizzato nuovamente la corte nella sentenza tale requisito in materia di leggi elettorali.
Il referendum abrogativo come fonte del diritto.
La collocazione della referendum abrogativo nel sistema delle fonti del diritto, è stata posta in discussione poiché esso avrebbe effetti meramente negativi ed unidirezionali, tali da determinare esclusivamente la caducazione di una normativa vigente. Con ciò divergendo dalla riconosciuta caratteristica propria degli atti normativi e cioè la potenziale capacità di creare diritto operando sulla norme vigenti nel senso di modificarle, di sostituirle o di aggiungerne di nuove.
Se ci si riferisce all’ordinamento giuridico nel suo complesso, non vi è dubbio che anche la semplice soppressione di una norma vigente determina una modifica dell’ordinamento, nel quale la norma suddetta è inserita. Non si potrà negare in tal modo la capacità innovativa della referendum abrogativo e dunque la sua qualificazione come fonte del diritto.
Infatti la mera soppressione di una norma non è necessariamente fine a se stessa, ben potendo determinare effetti rilevanti sul significato delle norme residue e comunque l’attivazione di processi automatici di superamento della lacuna creata dall’abrogazione.
La stessa corte costituzionale attribuendo al referendum ex articolo 75, ora in maniera indiretta ora in maniera esplicita, il rango di fonte del diritto è equiparata alla legge ordinaria. La corte parla di potestà normativa diretta del popolo anche se limitata all’abrogazione. La corte ammette anche che la mera abrogazione possa avere effetti innovativi nell’ordinamento e possa produrre nuove norme, con ciò sciogliendo ogni minimo dubbio sulla qualificazione o meno della referendum come fonte del diritto.
I vincoli derivanti dall’esito positivo o negativo della referendum.
La corte costituzionale ha ammesso in più occasioni che sussiste un vincolo giuridico; in particolare molto limpida è stata l’affermazione della corte là dove è tenuta a sottolineare che a differenza del legislatore che può correggere o addirittura disvolvere quanto in precedenza statuito, il referendum o manifesta una volontà definitiva ed irripetibile che impedisce la scelta politica di far rivivere una normativa abrogata, individuando nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, lo strumento di difesa del risultato referendario, nell’ipotesi di ripristino ad opera del legislatore della normativa abrogata.
La disciplina legislativa ripristinata di una normativa abrogata è costituzionalmente illegittima, in quanto sarebbe eluso il fine perseguito dal popolo sovrano, di sollecitare una diversa disciplina legislativa o addirittura di escludere qualsiasi disciplina; l’esito positivo del referendum assurgerebbe a norma interposta tra costituzione e le leggi ordinarie, utilizzabili quale parametro nel giudizio di legittimità costituzionale dinnanzi alla corte.
Non è possibile re-introdurre quelle norme tramite il referendum che il popolo ha voluto abrogare. Qualora ciò avvenisse è possibile l’intervento del presidente della Repubblica mediante scioglimento anticipato del Parlamento e l’indizione di nuove elezioni.
CAPITOLO 6
I REGOLAMENTI DEGLI ORGANI COSTITUZIONALI
Accanto alla categoria dei regolamenti amministrativi del governo esistono nell’ ordinamento italiano altri tipi di regolamenti genericamente raggruppabili sotto l’etichetta di regolamenti degli organi costituzionali
La natura giuridica dei regolamenti parlamentari
Il fondamento della potestà regolamentare di ciascuna camera risiede in Italia, nell’articolo 64, della costituzione, il quale stabilisce che ciascuna camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti.
L’articolo 64 stabilisce una specifica condizione del suo esercizio: la necessità che il regolamento parlamentare sia approvato dalla maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera. Tale attribuzione è ribadita e specificato dall’articolo 72.
Sul problema della natura giuridica dei regolamenti parlamentari. Vi sono diverse tesi.
In primo luogo quella che nega la natura giuridica delle norme dei regolamenti parlamentari che si fonderebbero su un potere particolare, diverso dal diritto di sovranità statale e quindi sarebbero prive dei due caratteri propri delle norme giuridiche: le generalità e la novità.
Il non poter derogare a norme dell’ordinamento, non vuol dire che indirettamente i regolamenti non possono apportarvi delle modifiche e quindi avere il carattere della novità.
Quanto al rilievo circa una presunta mancanza di generalità delle norme di regolamenti parlamentari, esso è da respingere per quanto concerne le norme regolamentari di tipo organizzatorio, poiché ogni norma di organizzazione sembra essere, per sua natura generale. Lo stesso è da dirsi per le norme regolamentari attributive di diritti, potestà, facoltà, obblighi e status indipendentemente dai loro destinatari che possono essere i membri del Parlamento o le persone estranee alle camere, che con esse vengono in contatto stabilmente o occasionalmente, e che assistono le sedute o coloro che sono interrogati da una commissione. Tali soggetti, non sono in completo determinati dalle norme regolamentari bensì soltanto predeterminabili.
In secondo luogo, si intende accennare alle tesi che partendo dall’esatto presupposto della pluralità degli ordinamenti giuridici, affermano la giuridicità delle norme dei regolamenti parlamentari soltanto nell’ambito dell’ordinamento cui esse danno luogo, tali norme vengono perciò qualificate come norme interne.
Secondo la dottrina una parte di tali norme ha valore meramente interno.
Contro l’affermazione della dottrina che riguarda il valore interno di tutte le norme dei regolamenti parlamentari e stanno considerazioni di tipo formale e sostanziale.
Sotto il primo profilo: l’articolo 64 non definisce più come l’articolo 61 dello statuto Albertino, il regolamento parlamentare come regolamento interno; lo stesso articolo 64 non rimette più a ciascuna camera la scelta delle modalità di approvazione del regolamento, ma stabilisce che esso deve essere adottato a maggioranza assoluta dei componenti.
Sotto il secondo profilo è dato rinvenire un notevole numero di disposizioni dei regolamenti parlamentari che hanno efficacia all’esterno, nei confronti dell’ordinamento giuridico statale, o per il loro contenuto o per i destinatari.
Per quanto riguarda il contenuto vi sono delle disposizioni dei regolamenti che completano, attuano, e precisano norme costituzionali, che quindi sono strumentali per la formazione di un atto, per definizione esterno, quale la legge.
Per quanto riguarda i destinatari, il carattere esterno della disposizione del regolamento parlamentare, sembra sussistere quando essa sia destinata a valere nei confronti di soggetti diversi dal Parlamento, siano essi persone fisiche o giuridiche, o organi dello Stato.
Esempio: per quanto riguarda il regolamento della camera come quello del senato, ciascuna commissione parlamentare ha facoltà di chiedere che i ministri competenti dispongano l’intervento dei dirigenti preposti al settore della pubblica amministrazione e ad enti pubblici che con ordinamenti autonomi forniscano chiarimenti su questioni di amministrazione in rapporto alla materia di loro competenza.
Vi sono altri casi nei quali destinatari delle norme di regolamenti parlamentari sono soggetti diversi dai membri del Parlamento, e a proposito delle commissioni monocamerale di inchiesta.
Nel primo caso la norma di cui alla richiamata disposizione, stabilendo che l’ufficio di presidenza decide in via definitiva i ricorsi che tengono allo stato e alla carriera giuridica ed economica di dipendenti della camera e del senato, esclude per questi soggetti la possibilità della tutela giurisdizionale. Va precisato che la recente riforma dell’articolo 12 del regolamento della camera ha introdotto altre norme destinate a produrre effetti incisivi, nei confronti persino di soggetti estranei all’apparato delle camere. Questi ultimi svolgono attività strumentali all’esercizio della funzione parlamentare.
Nel secondo caso il silenzio dei regolamenti parlamentari riguardo i regolamenti delle commissioni d’inchiesta, ha fatto ipotizzare che le norme per esse stabilite dai regolamenti parlamentari si applicano quanto meno, per ciò che attiene alla validità delle sedute delle deliberazioni, alle commissioni d’inchiesta.
La diversa posizione dei regolamenti parlamentari nello sviluppo dell’Italia.
La posizione dei regolamenti parlamentari nell’attuale ordinamento repubblicano è diversa rispetto a quella che si ebbe in precedenza per anni. Tale diversità nasce dal diverso valore dello statuto Albertino rispetto alla costituzione repubblicana. Entrambi vogliono attribuire a ciascuna camera un potere normativo proprio ed esclusivo nella loro sfera di competenza alle camere, tuttavia i limiti all’esercizio di tale potere sono diversi.
Nel caso lo statuto Albertino la materia tradizionalmente oggetto del regolamento parlamentare non è sottratta all’intervento della legge, nonostante la pari ordinazione tra quest’ultima e lo Stato.
Nel precedente ordinamento, i regolamenti parlamentari erano gerarchicamente subordinate alla legge; che poteva abrogare le norme dei regolamenti parlamentari e non poteva validamente essere abrogata.
Riserva assoluta in favore dei regolamenti parlamentari stabiliti dalla costituzione.
Il valore rigido della costituzione repubblicana ribalta queste conclusioni. Una volta accettata l’opinione secondo cui gli articoli 64, e 72 stabiliscono una riserva di competenze dei regolamenti parlamentari per la materia ad essi propria, tale riserva deve necessariamente intendersi operante nei confronti di tutte le fonti dell’ordinamento non di grado costituzionale e dunque in primo luogo nei confronti della legge. Una legge che tentasse di abrogare disposizioni dei regolamenti parlamentari sarebbe illegittima, poiché violerebbe tali articoli.
La posizione dei regolamenti parlamentari nell’attuale ordinamento impone di definire con maggiore precisione rispetto al passato, quali sono i confini della maniera riservata, ai regolamenti parlamentari. Tale definizione è molto difficile infatti per il momento ci si atterrà semplicemente alla definizione di regolamento parlamentare, che secondo quella classica, sono quell’insieme di norme che attengono all’organizzazione di ciascuna camera ed ai modi di esercizio delle sue funzioni.
La negazione della parametricità delle norme dei regolamenti parlamentari e l’idoneità a costituire oggetto di giudizio di legittimità costituzionale.
L’articolo 72, riservando ai regolamenti parlamentari la disciplina del procedimento legislativo, pone il problema dell’eventuale parametricità dei regolamenti parlamentari, ai fini del giudizio di legittimità costituzionale.
E’ lecito chiedersi in altre parole se la corte costituzionale possa dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge non soltanto quando nel corso del suo procedimento di formazione siano state violate norme formalmente costituzionali, ma anche quando sono state violate esclusivamente norme contenute nel regolamento dell’una o dell’altra camera.
La corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza n.9 del 1959, negando la propria competenza a sindacare le violazioni di norme dei regolamenti parlamentari avvenute nel corso del procedimento legislativo, sulla base di 3 argomentazioni:
In primo luogo, la competenza della corte è limitata in relazione al procedimento di formazione delle leggi, e al controllo dell’osservanza delle sole norme formalmente costituzionali.
In secondo luogo per la parte, in cui l’articolo 72, attribuisce ai regolamenti parlamentari, il potere di stabilire in quali casi o forme un disegno di legge può essere assegnato alle commissioni in sede legislativa, non può considerarsi come una norma in bianco, in conseguenza della quale le disposizioni inserite assumono valore di norme costituzionali.
In terzo luogo come all’interpretazione di una disposizione anche l’osservanza è rimessa al reg. della stessa camera.
Da tali argomenti si deduce innanzitutto il respingimento della tesi che considera materialmente costituzionali le norme dei regolamenti parlamentari e allo stesso tempo il respingimento della tesi secondo la quale la parametricità dei regolamenti parlamentari, deriverebbe dal qualificare le norme in essi contenute come norme interposte.
La corte infatti non ha riconosciuto la qualifica di norme interposte alle norme dei regolamenti parlamentari. La negazione di tale riconoscimento è da condividere, perché la sua affermazione produrrebbe conseguenze troppo drastiche. Infatti la violazione di qualsiasi norma di regolamenti parlamentari relativa al procedimento legislativo, determinerebbe l’incostituzionalità della legge. Del resto il vero significato dell’articolo 72 non è quello di attribuire valore di norme interposte alle norme dei regolamenti parlamentari, bensì quello di ribadire nella specifica materia la riserva di regolamento già affermata.
L’elemento fondamentale che esclude la possibilità di comprendere le norme dei regolamenti parlamentari tra le norme parametro, costituzionali o interposte, del giudizio di legittimità costituzionale, è la cedevolezza di tali norme.
È principio fondamentale della prassi parlamentare italiana quello secondo cui la deroga ad una norma del regolamento è possibile soltanto l’unanimità qualora cioè non vi sia opposizione da parte di alcuno. Se tale è la condizione necessaria per la deroga a norme di regolamenti parlamentari, resta dimostrato il carattere potenzialmente cedevole delle norme suddette. È proprio tale potenziale cedevolezza, che si attualizza ogni volta che una camera deroga ad una norma del regolamento, senza che vi sia opposizione.
La sentenza n.154 del 1985 della corte costituzionale fu di grande di importanza poiché la corte doveva pronunciarsi: sull’ammissibilità o l’inammissibilità del giudizio di legittimità costituzionale sui regolamenti parlamentari.
Le disposizioni in questione erano quelle dei regolamenti di camera e senato, tributive ad entrambe della cosiddetta autodiachia, sulle controversie d’ impiego dei propri dipendenti. Il Parlamento infatti in base ad essa giudica sui ricorsi proposti dal personale dipendente, e ciò avrebbe escluso la possibilità per i dipendenti di adire successivamente alla giurisdizione esterna, ponendosi quindi in contrasto con gli articoli 24, 113 e 101, della costituzione.
La corte risolve il quesito circa la sindacabilità dei regolamenti parlamentari spostando l’asse del ragionamento dalla natura giuridica dell’atto alla posizione dell’organo che lo adotta. Il tipo di ragionamento è infatti il seguente: è inutile affrontare il problema della forza di legge dei regolamenti parlamentari ai fini della loro sindacabilità, poiché questa è comunque esclusa dalla posizione di indipendenza guarentigiata che l’ordinamento attribuisce a ciascuna camera.
È nella logica di tale sistema che alle camere spetti una “indipendenza guarentigiata” nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex articolo 64. Il Parlamento in quanto espressione immediata della sovranità popolare è diretto partecipe di tale sovranità ed i regolamenti, in quanto svolgimento diretto della costituzione, hanno una peculiarità e dimensione che ne impediscono la sindacabilità, se non si vuole negare che la riserva costituzionale di competenza regolamentare rientra tra le guarantigie disposte dalla costituzione per assicurare l’indipendenza dell’organo sovrano da ogni potere.
La sentenza della corte fa sorgere qualche dubbio in ordine alla possibilità che i regolamenti parlamentari siano insindacabili nell’ambito anche di una diversa competenza della corte, cioè in sede di conflitto tra poteri dello Stato.
L’affermazione della corte secondo cui l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari si fonde sull’esigenza di assicurare l’indipendenza delle camere sovrane da ogni altro potere, fa sorgere il dubbio che l’insindacabilità vale sempre e comunque.
È arrivato il momento di valutare gli argomenti addotti dalla corte a sostegno della propria decisione, anche se sarebbe meglio usare il singolare poiché tutta la motivazione della sentenza è basata su un argomento di portata generale: la posizione centrale attribuita al Parlamento dalla costituzione. Tale posizione derivante dalla tipo di democrazia parlamentare vigente, nel quale il Parlamento è espressione immediata della sovranità popolare, assicura le camere un’indipendenza guarentigiata nei confronti di tutti gli altri poteri dello Stato. Le guarentigie che tutelano tale posizione d’ indipendenza vengono considerate nel loro insieme.
Non vi è dubbio che il Parlamento sia posto al centro del sistema astratto da numerose norme costituzionali che gli attribuiscono rilevanti possibilità di intervento, nei confronti degli altri poteri dello Stato. Tuttavia, la riconosciuta posizione centrale del Parlamento non assicura una posizione d’indipendenza assoluta, nei confronti degli altri poteri dello Stato, che la corte considera invece come conseguenza necessaria: in realtà, la posizione del Parlamento è quella che risulta disegnata in positivo dalla costituzione. E tale disegno, se da un lato non esclude rilevanti possibilità di intervento di altri organi costituzionali nei confronti delle camere, dall’altra comunque attribuisce una garanzia. Ex: infatti nel primo caso occorre ricordare ad esempio il potere di scioglimento anticipato delle camere che l’articolo 88 conferisce al presidente della Repubblica.
Tali possibilità di intervento dall’esterno consentono un primo approfondimento indicativo del concetto di centralità del Parlamento: e non significa indipendenza delle 2 camere nei confronti degli altri organi costituzionali, intesa come esclusione assoluta da ogni ingerenza esterna. La posizione delle camere sotto questo aspetto è in via di principio analogo a quelle degli altri poteri dello Stato, cioè che ognuno di essi ha diritto al rispetto delle propri competenze nei limiti fissati dalle norme costituzionali. Questa garanzia non comporta una posizione di prevalenza nei confronti degli altri organi costituzionali. Infatti non si capirebbe come un organo costituzionale, in teoria definito prevalente, possa essere parte in posizione di parità, di un conflitto con un altro organo costituzionale, sottoponendosi per di più alla decisione di un terzo organo costituzionale.
Centralità del Parlamento non significa dunque l’esclusione da interventi di altri organi costituzionali nei confronti di ciascuna camera, né significa prevalenza, del Parlamento nei confronti degli altri poteri dello Stato.
Se la centralità del Parlamento non consiste, come afferma la corte, in una indipendenza che esclude qualsiasi ingerenza da parte di altri poteri dello Stato, cade la premessa di ordine generale per poter giustificare, in termini di rapporti tra organi costituzionali, l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari
Tuttavia si tratta comunque di verificare se tra le guarantigie derivanti dalla posizione centrale delle camere, va annoverato anche il principio d’ insindacabilità dei regolamenti parlamentari. Ma tale verifica va fatta in positivo sulla base delle norme costituzionali vigenti e non invece ricomprendendo il principio dell’ insindacabilità dei regolamenti parlamentari, tra le guarantigie della posizione del Parlamento, come conseguenza automatica dell’indipendenza.
L’affermazione della corte secondo cui la posizione del Parlamento guarentigiata è sicuramente da condividere alla luce delle diverse immunità parlamentari previste dall’articolo 68 e dall’articolo 64.
Non vi è dubbio infatti che la riserva di regolamento parlamentare e dunque l’autonomia costituzionale attribuita a ciascuna camera per la disciplina della propria organizzazione e del proprio funzionamento costituiscono una delle garanzie peculiari del carattere di centralità delle due camere.
Il punto da esaminare, una volta negato che il principio del insindacabilità dei regolamenti parlamentari rappresentano una conseguenza meccanica del principio di indipendenza del Parlamento, riguarda l’interpretazione da dare all’articolo 64. In particolare se la guarentigia in esse contenute si risolva nel conferimento dell’autonomia costituzionale a ciascuna camera, ovvero se accanto ad essa debba considerarsi implicitamente prevista anche l’ulteriore guarentigia, consistente nell’ insindacabilità delle norme frutto dell’esercizio di quell’autonomia. Questa seconda possibilità va però decisamente esclusa innanzitutto perché l’art. 64 non offre alcun appiglio per ricavare da esso il principio di insindacabilità dei regolamenti parlamentari.
In conclusione non si può condividere l’impostazione data dalla corte al problema della sindacabilità dei regolamenti parlamentari, in termini di rapporti tra organi costituzionali, poiché l’ insindacabilità di tali atti non sembra ricavabile dalla posizione del Parlamento nel nostro sistema costituzionale ne dalla possibilità di considerare quel principio come una guarentigia parlamentare implicitamente prevista dall’articolo 64.
La corte viene nuovamente investita nel 1993 di una questione di legittimità costituzionale relativa ad una disposizione del regolamento della camera. La questione era stata sollevata dal tribunale di Roma, e la fattispecie di merito riguardava le richieste di risarcimento di danni avanzate nei confronti dei singoli parlamentari in relazione a dichiarazioni di questi ultimi ritenute diffamatorie. In ambedue i casi, non vi era stata in concreto, una deliberazione della camera dei deputati, in merito alla qualificazione di queste opinioni espresse, come rientranti o meno della funzione parlamentare.
Tale circostanza avrebbe determinato una illegittima compressione del diritto di difesa del cittadino, in cui verrebbe ad essere preclusa la possibilità di convenire in giudizio un parlamentare anche nell’ipotesi di opinioni espresse al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, con violazione dell’articolo 24. In questa prospettiva la norma del regolamento della camera, sarebbe illegittimo per violazione dell’articolo 24.
La corte, pertanto, conferma nella sostanza quanto affermato per la prima volta la sentenza 154 del 1985, in ordine all’inidoneità dei regolamenti parlamentari ha costituire oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, anche se stavolta non vi è alcun cenno alla particolare posizione delle camere come fondamento del insindacabilità in sede di giudizio di legittimità costituzionale dei regolamenti parlamentari. Tale insindacabilità sembra essere ricavata da un’interpretazione, più tradizionale del insindacabilità dei regolamenti parlamentari, quella secondo cui essi non sarebbero qualificabili come atti aventi forza di legge.
I regolamenti degli altri organi costituzionali: Corte – presidenza della repubblica – Governo – parlamento in seduta comune
I regolamenti in questione, adottati per disciplinare l’organizzazione interna e le modalità di esercizio delle funzioni conferite, sarebbero espressione di autonomia costituzionale, quella particolare autonomia della quale nel nostro ordinamento sono dotati per ragioni funzionali gli organi supremi.
Mentre gli articoli 64 e 72 prevedono una riserva di competenza a favore dei regolamenti delle Camere, per gli altri organi costituzionali non vi sono espresse previsioni di analogo contenuto. Quindi non si possono mettere sullo stesso livello i regolamenti delle camere con quelli degli altri organi.
I regolamenti della corte costituzionale non trovano il loro fondamento espresso in costituzione nella legge n.87 del 1953 sulla costituzione e sul funzionamento della corte, prevede che essa possa disciplinare “l’esercizio delle sue funzioni con regolamento approvato a maggioranza dei suoi componenti pibblicato nella gazzetta ufficiale della Repubblica,” norme integrative possono essere stabilite dalla corte “nel suo regolamento.”
Sulla base di tali disposizioni la corte ha approvato il proprio regolamento generale del 1966 ,oltre ad altri atti normativi che disciplinano i giudizi che si svolgono presso di essa, ed ad altre regolamenti amministrativi riguardanti l’organizzazione degli uffici, dei servizi, e lo stato giuridico ed economico del personale della corte.
I problemi che si pongono sono soprattutto quello del fondamento della potestà regolamentare della corte e quello della posizione di tali atti normativi nel sistema delle fonti.
Diverse tesi:
- quella classica della legge costituzionale n.1 del 1953 e della legge n. 87 1953, che riconoscono una sfera di competenza riservata rispetto alla materia relativa alle funzioni della corte.
La legge ordinaria n.87, dovrebbe dunque avere però valore costituzionale, in quanto emanata per dare attuazione alle norme previste dalla costituzione. E ma se ciò fosse possibile, si troverebbe nel sistema delle fonti del diritto, in un rapporto di separazione rispetto alle altre leggi ordinarie, perché le altre leggi ordinarie, non potrebbero validamente disporre nella materia delle funzioni della corte, materia quest’ultima riservata dalla legge dalla particolare legge n.87.
Tuttavia la qualificazione della legge n. 87 come legge avente un valore del tutto pari a quello di qualsiasi altra legge ordinaria è dimostrata dal fatto che diverse disposizioni di tale legge sono state modificate con legge ordinaria e la corte costituzionale ha avuto modo di affermare che la legge n.87 non ha carattere rinforzato rispetto ad altre leggi, tali da escludere il controllo di costituzionalità. Le norme regolamentari della corte possono, contenere una disciplina certamente non soltanto istitutiva o attuativa di disposizioni di legge, ma anche interpretativa ed integrativa: non possono invece disporre in maniera contraria a queste ultime.
I regolamenti della presidenza della Repubblica.
L’autonomia regolamentare del presidente della repubblica, trova il suo formale fondamento nella legge ordinaria n.1077 del 1948 istitutiva del segretariato Generale della presidenza della Repubblica. L’articolo 3, di tale legge, attribuisce al capo dello Stato una potestà regolamentare di carattere organizzatorio, riguardante la disciplina dei servizi e degli uffici della presidenza, insieme formanti il segretariato generale, nonché delle funzioni del loro organo di vertice, il segretariato generale; inoltre prevede un’ulteriore potestà regolamentare concernente la disciplina dello stato giuridico ed economico e gli organici del personale della presidenza.
Non trovandosi in costituzione o in un’altra disposizione di rango costituzionale alcuna previsione relativa ai regolamenti di organizzazione della presidenza della Repubblica, occorre di conseguenza considerare tali atti come fonti di rango secondario.
Il regolamento interno del consiglio dei ministri previsto dall’articolo 4 della legge n.400 del 1988, emanato con decreto del presidenza del consiglio dei ministri legge novembre del 1993.
Tale regolamento è definito interno dalla legge 400 ma soggetto a pubblicazione in gazzetta ufficiale.
La dottrina, è incerta nel considerare tale regolamento come una vera e propria fonte normativa, considerato il limitato oggetto della sua disciplina che difficilmente potrebbe trovare applicazione all’esterno dell’organo governativo.
Le norme di tale regolamento devono considerarsi operanti quasi esclusivamente sul piano dell’indirizzo politico del governo, restando prevalentemente esclusa la possibilità che se ne possa chiedere il mancato rispetto sul piano giuridico.
Analogo discorso vale per l’autonomia regolamentare della presidenza del consiglio, prevista dal decreto legislativo n.303 del 1999, recante il nuovo ordinamento della presidenza del consiglio dei ministri. E’ esercitata con D.P.C.M. del 2000, che disciplina gli uffici di diretta collaborazione e le strutture di livello dirigenziale generale.
Regolamento Parlamento in seduta comune.
Il regolamento della camera è applicabile normalmente nelle riunioni del Parlamento in seduta comune dei suoi membri. Tuttavia un articolo del regolamento del senato precisa che vi è la facoltà per le camere riunite di stabilire norme diverse, presupponendo dunque la possibilità che il Parlamento in seduta comune possa darsi un proprio regolamento autonomo. Tale regolamento quindi andrebbe parificato ai regolamenti di camera e senato.
CAPITOLO 7
I REGOLAMENTI AMMINISTRATIVI
I regolamenti amministrativi adottati dal governo, ai quali si riferiscono gli artt. 1,3,4, e 8 delle disp. Prel. Al cod. civ, non sono disciplinati in costituzione. Essi vengono richiamati soltanto indirettamente dall’articolo 87, che tra le attribuzioni del presidente del Repubblica annovera anche il potere di emanare regolamenti. La potestà regolamentare, del resto, anche a prescindere dal richiamo testuale dell’articolo 87, è stata ricondotta da una parte della dottrina, alla posizione di autonomia riconosciuta al governo nella nostra costituzione.
Disciplina dei regolamenti:
Possono distinguersi 3 tipi di regolamenti amministrativi: governativi, ministeriali e di altri autorità.
La legge del 23 agosto del 1988 n.400 disciplina l’attività del governo e l’ordinamento della presidenza del consiglio dei ministri.
Istituisce diversi tipi di regolamenti del governo oltre a quelli adottati dai singoli ministri (i regolamenti ministeriali) o da più ministri regolamenti (interministeriali) o da autorità amministrative subordinate ai ministri cosiddetti (regolamenti di altre autorità). I regolamenti ministeriali pertanto non possono contenere norme contrarie a quelle dei regolamenti governativi e dei regolamenti di autorità amministrative subordinate ai ministri che non possono contenere norme contrarie a quelle contenute nei regolamenti ministeriali o nei regolamenti governativi.
I regolamenti ministeriali sono atti imputabili a singoli ministri, invece che al governo nel suo complesso, e sono disciplina dall’articolo 17. Essi sono adottati con decreto ministeriale nelle materie di competenza del ministro, quando la legge conferisca espressamente tali poteri; per materie di competenza di più ministri essi sono adottati con decreti interministeriali, fermo restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge e l’ulteriore obbligo di comunicazione al presidente del consiglio, prima della loro emanazione. I regolamenti in questione che devono contenere la denominazione di regolamento, sono adottati previo parere del Consiglio di Stato, sottoposti al visto ed alla registrazione della corte dei conti e infine pubblicati nella gazzetta ufficiale.
L’articolo 17 prevede 5 tipi di regolamenti governativi:
regolamenti esecutivi, regolamenti di attuazione e di integrazione, regolamenti indipendenti, regolamenti di organizzazione e regolamenti in delegificazione.
I regolamenti esecutivi sono regolamenti per l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi, nonché dei regolamenti comunitari. Il concetto di esecuzione si caratterizza sotto due aspetti: in negativo, perché i regolamenti in questione non possono in alcun modo innovare o aggiungere alcunché rispetto agli atti normativi, ai quali si riferiscono; in positivo perché i regolamenti hanno soltanto il compito di specificare quanto già potenzialmente ricompreso negli atti sudetti. Destinati a vivere insieme agli atti di cui danno esecuzione e la loro è una funzione interpretativa. Per la limitatezza di tale funzione possono intervenire anche in materie coperte da riserva di legge assoluta.
I regolamenti di attuazione ed integrazione delle leggi e decreti legislativi recanti norme di principio. Un margine di intervento più ampio hanno rispetto al concetto di esecuzione espresso da regolamenti esecutivi: può affermarsi che si ha attuazione o integrazione, tutte le volte che il regolamento non si limita a specificare, senza innovare, le disposizioni degli atti normativi ai quali si riferisce; i concetti di attuazione e di integrazione presuppongono invece l’esistenza di norme che si limitano a fissare i principi di una determinata disciplina che in concreto verrà stabilita dal successivo regolamento. Incontra il solo limite del rispetto dei principi ai quali danno attuazione o integrazione.
I regolamenti indipendenti. Il punto c) della suddetta legge li prevede. Possono intervenire su materie nelle quali manchi la disciplina dettata da leggi o atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge. Hanno la caratteristica di essere autonomi rispetto alle leggi e degli atti aventi forza di legge, perché vanno a coprire gli spazi lasciati liberi da questi ultimi.
I regolamenti di organizzazione, disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge. Tali regolamenti intervengono in una materia coperta, da riserva relativa di legge che disciplina l’organizzazione degli uffici pubblici in modo tale da garantire, secondo quanto prescritto dall’articolo 97 il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. L’intervento è possibile grazie alla previsione del necessario previo intervento della legge -soddisfacendo la risreva di rel. di legge-, rispetto alla quale i regolamenti di organizzazione si atteggeranno. L’ambito dei regolamenti di organizzazione è stato in parte limitato dalla legge n.59 del 1997 che ha previsto che l’organizzazione dei ministeri non avvenga più attraverso questo tipo di regolamento.
Si ritengono indispensabili specifici conferimenti legislativi, del potere regolamentare di esecuzione, attuazione e di integrazione e si nega la legittimità costituzionale dell’articolo 17 in riferimento ai regolamenti indipendenti di cui al punto c).
Le tesi che sono state espresse in dottrina nei confronti dei regolamenti indipendenti:
Una parte ne sostiene l’illegittimità costituzionale poiché tali atti, intervenendo su materie nelle quali manchi una disciplina legislativa, violerebbero uno dei principi cardine dello Stato di diritto: il principio di legalità. Principio che impone che ogni atto del potere pubblico debba trovare fondamento in una previa legge.
L’autorizzazione generale contenuta nella lettera c) dell’articolo 17 non sarebbe sufficiente rispettare il principio di legalità. Infatti anche la semplice attribuzione di poteri mediante disposizioni di legge, dovrebbe avvenire di volta in volta e non con una attribuzione una tantum, che valga per tutti i futuri regolamenti. In posizione diametralmente opposta a quella appena ricostruita, si pongono coloro i quali i regolamenti indipendenti, così come del resto anche tutti gli altri regolamenti dell’esecutivo, troverebbero il loro fondamento direttamente dalla costituzione, senza bisogno di ricorrere ad una interpositio legislatoris la funzione di indirizzo politico amministrativo riconosciuto al governo varrebbe a fondare anche il suo potere normativo
La legittimità di regolamenti indipendenti deriva dal fatto che i regolamenti indipendenti, servono a rispondere all’esigenza di restringere per quanto possibile l’intervento della legge ai grandi temi, essendo il ruolo del Parlamento ben garantito dal fatto che i suddetti regolamenti possono intervenire soltanto negli spazi che lo stesso parlamento abbia lasciato liberi; non possono intervenire in materie coperte da riserva di legge, ma possono in qualunque momento essere abrogati da successive leggi.
Allo stato attuale comunque, lo spazio lasciato libero dal legislatore risulta assai esiguo e il margine di intervento dell’esecutivo, mediante regolamenti indipendenti, appare estremamente ridotto.
Tra i regolamenti indipendenti, quelli esecutivi o attuativi, ed integrativi: primi sono autonomi rispetto alla legge, e sono per definizione “indipendenti” scollegati dalla legge, i secondi al contrario sono “in autonomi” rispetto alla legge e dunque necessariamente collegati ad essa.
Il punto centrale riguarda l’individuazione dell’organo, al quale riconoscere il potere di decidere se una determinata legge, per essere applicata o meglio applicata, ha bisogno di successivi interventi regolamentari di esecuzione, di attuazione ed integrazione. La risposta che sembra preferibile vede come soggetto il Parlamento, in quanto è colui che ha approvato il testo della legge nella pienezza del proprio potere.
Il Parlamento potrebbe avere approvato la legge sulla base di 3 possibili convinzioni implicite:
- viene adottato un testo completo in ogni sua parte e perciò, in grado di essere perfettamente applicato senza bisogno di interventi da parte del governo;
- di aver adottato un testo di carattere volutamente generale in dipendenza della complessità della materia oggetto della disciplina legislativa;
- di avere forzatamente adottato un testo non sempre chiaro, coerentemente e completo in tutte le disposizioni che lo compongono.à Maggioranza parlamentare debole.
Ebbene è del tutto evidente che nella prima ipotesi non vi è alcun bisogno di successivi interventi regolamentare; così come è evidente il contrario nelle altre due ipotesi.
Il potere regolamentare di eseguire, attuare o integrare leggi deve essere autorizzato, di volta in volta, da queste ultime.
Il generale conferimento di potestà regolamentare al governo, compiuto dall’articolo 17, necessita di integrazioni, quando la suddetta potestà regolamentare si riferisca a leggi. Quando invece il rapporto sia tra un decreto legislativo e il successivo regolamento, la necessità di una specifica norma di utilizzazione viene meno, così come non sussiste per l’ulteriore fattispecie prevista che è l’esecuzione dei regolamenti comunitari, poiché in questo caso il rapporto non è tra regolamento e legge, ma tra regolamento e atti che rimangono esterni all’ordinamento italiano.
Laddove l’articolo 17 della legge 400 ha voluto condizionare l’esercizio del potere regolamentare ad una previo e specifico intervento della legge lo ha detto espressamente come nel caso dei regolamenti ministeriali, dei regolamenti di organizzazione e dei regolamenti in delegificazione.
La previsione di uno esplicito conferimento da parte della legge del potere di adottare regolamenti ministeriali, infatti da un lato ha lo scopo di limitare in generale tale potere escludendo che possono esservi regolamenti ministeriali assimilabili a regolamenti governativi indipendenti, abilitati, a stabilire e a disciplinare autonomamente materie non disciplinate dalla legge, né ad essa riservate; dall’altro esclude che a singoli ministri, il suddetto potere regolamentare possa essere conferito dal governo invece che dalla legge.
Per quanto attiene ai regolamenti di organizzazione, il previo intervento della legge è indispensabile per soddisfare il vincolo della riserva relativa di legge posto dall’articolo 97.
Per i regolamenti in delegificazione infine l’intervento della legge è reso necessario in dipendenza del fatto che come si vedrà meglio nel paragrafo seguente la legge suddetta, oltre ad autorizzare l’esercizio della potestà regolamentare del governo, dispone anche l’abrogazione delle norme legislative vigenti.
I regolamenti in delegificazione: dell’articolo 17 della legge 400 del 1988.
La delegificazione della materia legislativa, ossia il trasferimento della disciplina di una materia dalla competenza legislativa a quella regolamentare, rappresenta uno strumento per tentare di risolvere l’annosa questione dell’inflazione legislativa.
I regolamenti in delegificazione sono emanati con decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del consiglio dei ministri e sentito il parere del Consiglio di Stato: “per la disciplina di materie non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari.”
Il modello appare conforme alle previsioni costituzionali dal momento che i singoli regolamenti sono autorizzati da apposite leggi (rispetto del principio di legalità), che dettano norme generali regolatrici della materia (rispetto della riserva di legge relativa), e contestualmente dispongono l’abrogazione delle norme di legge vigenti in materia (i regolamenti essendo fonti subordinate le leggi non potrebbero abrogare direttamente le leggi precedenti).
Tale abrogazione delle norme vigenti ha però effetto soltanto se e quando entrerà in vigore il regolamento, con la conseguenza che, in caso di mancata adozione del regolamento da parte del governo la materia continuerà ad essere disciplinata dalle originarie norme legislative. Ma tale disciplina non ha però avuto fortuna nella prassi.
La degenerazione nella prassi del modello di delegificazione previsto dalla legge n.400. il nuovo comma 4-bis dell’art.17
Il ricorso alla delegificazione subisce una vera e propria inversione di tendenza a partire dalla legge n537 del 1993. Analizzando le leggi di delegificazione di questi ultimi anni si osserva innanzitutto che in molte di esse mancano le norme generali regolatrici della materia, sostituite da generici e meno stringenti principi generali. La delegificazione, è spesso prevista da decreti legge o da decreti legislativi e simili autorizzazioni devono considerarsi senza dubbio illegittime quando siano previste da decreti legge, mentre sono ammissibili quando siano contenute nei decreti legislativi attuativi di deleghe che espressamente le prevedono, poiché in questo caso è nella legge di delega che deve essere ritrovato il fondamento della delegificazione.
È frequente inoltre il ricorso a forme di abrogazione innominata, attraverso le quali il legislatore compie soltanto apparentemente un’abrogazione espressa.
Tutti questi elementi di diversità rispetto al modello di delegificazione previsto dalla legge 400 fanno pensare che i regolamenti in delegificazione abbiano completamente mutato la loro natura di fonti secondarie. Al riguardo le strade percorribili sono essenzialmente due: o tali atti si continuano a ritenere fonti secondarie non sindacabili dalla corte costituzionale, ma allora ci si deve porre il problema della legittimità costituzionale di quelle leggi di delegificazione che si discostano dall’unico modello conforme a costituzione, qual’è quello previsto dall’articolo 17; o tali atti si considerano come aventi forza di legge, ma allora si devono ammettere la loro sottoponibilità al giudizio di legittimità costituzionale.
Dalle due alternative indicate la prima sembra più coerente non solo con il dettato costituzionale, ma anche con gli obiettivi della razionalizzazione e della semplificazione che il meccanismo della delegificazione vuole realizzare.
Analisi di ulteriori aspetti problematici di delegificazione.
Per completare l’analisi della prassi bisogna analizzare i frequenti casi di delegificazione in favore di soggetti diversi dal governo. Il trasferimento della disciplina di una materia non viene più solo dalla funzione legislativa alla funzione regolamentare ma dalla funzione legislativa ad altra funzione normativa.
Al riguardo si può ricordare la delegificazione intervenuta a favore dei comuni e delle province disposta dall’articolo 4 della legge 142 del 1990; quella favore di altre autorità amministrative indipendenti; quella favore delle università. Rispetto a questa prassi alcuni hanno parlato di deroga rispetto al modello fissato dalla legge 400, mentre altri preferiscono la teoria del decentramento e del pluralismo istituzionale garantiti dalla nostra costituzione.
I regolamenti previsti dal comma 4- bis dell’articolo 17.
Il comma 4- bis dell’articolo 13 della legge 59 del 1917, prevedono un nuovo tipo di regolamenti per la disciplina dell’organizzazione dei ministeri. Esso dispone che l’organizzazione e la disciplina dei ministeri siano direttamente determinate con regolamenti, emanati ai sensi del comma 2, su proposta del ministro competente d’intesa con il presidente del consiglio dei ministri e con il ministro del Tesoro.
Appare evidente che il comma 4-bis mostra un diverso procedimento di formazione; la delegificazione è disposta una volta per tutte con l’autorizzazione contenuta nel comma 4-bis e non di volta in volta per i singoli atti normativi che vengono adottati, come invece previsto dal comma 2; manca la norma che disponga secondo il meccanismo di cui al comma 2, l’abrogazione delle norme di legge vigenti in materia, norme che, inoltre non sono in alcun modo indicate.
La legge annuale di semplificazione
Un altro passaggio importante è rappresentato dalla previsione contenuta nell’articolo 20 della legge 59 del 1997 di una legge annuale di semplificazione. Secondo quanto previsto dall’articolo 20 il governo deve presentare ogni anno un disegno di legge per la delegificazione di norme concernenti procedimenti amministrativi con l’identificazione dei criteri per l’esercizio della potestà regolamentare e di procedimenti oggetto della disciplina. I regolamenti sono emanati con decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del consiglio dei ministri, su proposta del presidente del consiglio, di concerto con il ministro competente, previa acquisizione del parere delle competenti commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato.
Introduce così una legge periodica, come la legge comunitaria e le leggi finanziarie, ma ha soprattutto reso periodico il ricorso alla delegificazione che si è trasformato da strumento episodico a strumento di normazione ordinaria.
La delegificazione comunitaria.
Il modello di delegificazione previsto dalla legge “La pergola” in materia comunitaria.
La legge n.86 del 1989 la cosiddetta legge la pergola, come modificata dalla legge n.11 del 2005 afferma che “nelle materie di cui all’articolo 117 secondo comma della costituzione, già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge, le direttive possono essere attuate mediante regolamento se così dispone la legge comunitaria.
La legge del 2005 disciplina le modalità di attuazione in via delegificata delle norme comunitarie nelle leggi comunitarie annuali, dando vita ad una delegificazione guidata con specifiche condizioni sostanziali e procedurali.
Si prevede che:
- la delegificazione possa operare soltanto nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato, non coperte da riserva assoluta di legge;
- si deve ugualmente ricorrere a fonti di rango primario nei casi in cui l’attuazione comporti l’istituzione di nuovi organi o strutture amministrative oppure la previsione di nuove spese o di nuove minori entrate;
- debba essere la legge comunitaria o un’altra legge dello Stato a dettare disposizioni di principio qualora le direttive consentano scelte in ordine alla modalità della loro attuazione o sia necessario introdurre sanzioni penali o amministrative o individuare le autorità pubbliche cui affidare le funzioni amministrative inerenti all’applicazione della nuova disciplina.
Riguardo la procedura di adozione, si sono abbreviati a 45 giorni il termine per l’espressione del parere del Consiglio di Stato, ma anche consentendo alle singole leggi la scelta sulla necessità di richiedere almeno il parere delle commissioni parlamentari competenti per materia sullo schema del regolamento.
I regolamenti devono tener conto delle eventuali modificazioni della disciplina comunitaria intervenuta sino al momento della loro adozione, devono rispettare alcuni principi e criteri generali come il principio di sussidiarietà.
La legge comunitaria può autorizzare la delegificazione anche per il recepimento delle successive modifiche alla norme comunitarie già attuate con il regolamento.
CAPITOLO 8
LE FONTI ATIPICHE
Prima definizione
Accanto alle normali fonti riconosciute dall’ordinamento, ve ne sono altre che per un verso somigliano a taluna delle fonti riconosciute, ma per altri versi ne differiscono, in modo da non consentire il loro inserimento in alcune delle suddette fonti riconosciute.
Le differenze tra fonti tipiche e fonti atipiche possono riguardare tre elementi di fatto: la forma, la forza e la competenza.
Atipicità della forma.
Sotto il profilo della forma, una fonte è atipica quando il suo procedimento di formazione, insieme con i suoi presupposti e aggravato e più complesso, dunque rinforzato, rispetto al procedimento di formazione del tipo di fonte al quale essa sarebbe riconducibile, se non vi fossero quegli aggravamenti. Per accertare l’atipicità formale di una fonte o se si vuole la sua qualificazione come fonte rinforzata, occorrono quindi due giudizi comparativi del procedimento di formazione di quella determinata fonte ed il procedimento di formazione di un tipo di fonte previsto in via generale ed astratta dall’ordinamento giuridico.
Esempi di leggi atipiche sotto il profilo formale (leggi rinforzate), sono i seguenti: la legge costituzionale prevista dall’articolo 132 per la cui approvazione occorre: il parere dei consigli regionali; la richiesta dei consigli comunali; l’approvazione di tale richiesta con un referendum da parte delle popolazioni interessate.
Atipicità nella forza
Sotto il profilo della forza, una fonte è atipica quando non vi è corrispondenza, bensì dissociazione tra l’aspetto attivo e l’aspetto passivo della sua forza, quando vi è divergenza in più o in meno tra la posizione che viene ad occupare nel sistema e che vengono ad occupare nel sistema certe particolari fonti, quella che sarebbe propria del tipo generale nel quale esse, sotto ogni altro aspetto rientrano.
In altre parole di una scissione tra la forma e l’efficacia dell’atto. Hanno una forza attiva inferiore a quella della legge ordinaria, ma una maggiore capacità di resistenza all’abrogazione, che li avvicinerebbe per forza passiva a quella delle leggi costituzionali.
Gli esempi di fronte diviso tra profilo della forza sono le leggi di concessione di amnistia e indulto previsti dall’articolo 79. (maggiore forza passiva) perché può essere abrogata solo con leggi che seguono il procedimento illustrato dallo stesso articolo 79 e (minor forza attiva) perché non può abrogare leggi che disciplinino materie diversa da quella dell’amnistia e dell’indulto.
Atipicità nella competenza
Sotto il profilo della competenza fonti atipiche sono quelle fonti cosiddette a competenza limitata o competenza specializzata, nel senso che esse possono disciplinare sia pur in via esclusiva, soltanto le singole materie ad esse assegnate da norme costituzionali.
Più specifica definizione del concetto di fonte atipica.
Fonte atipica è pertanto ogni fonte a competenza specializzata, che presenta variazioni in più o in meno, in ordine alla forza attiva o passiva che viene approvata secondo un procedimento che presenta varianti esterne o interne, rispetto al procedimento base dell’atto al quale formalmente appartiene.
Le fonti atipiche così definite non sono mai gerarchicamente superiori alle fonti tipiche, alle quali si riferiscono. Il rapporto intercorrente tra fonti atipiche e fonti tipiche non è infatti basato sul principio della gerarchia, bensi su quella competenza.
Una legge costituzionale approvata secondo l’articolo 138 non può abrogare una delle leggi approvate ai sensi dell’articolo 132, nulla prova l’inferiorità della prima e la superiorità della seconda, bensì dimostra l’inammissibilità che una data materia venga disciplinata da una legge costituzionale approvata senza rispettare gli aggravamenti procedurali, previsti in quell’ipotesi.
Di atipicità può parlarsi anche per quanto riguarda il fenomeno riscontrabile nel nostro ordinamento giuridico, nel caso di disposizioni che pur essendo contenuti in leggi costituzionali, sono modificabili mediante leggi ordinarie rinforzate. In questo caso siamo dinnanzi ad una disposizione “decostituzionalizzata” cioè una disposizione che per espressa previsione della fonte di rango superiore nelle quali sono inserite hanno un valore inferiore. Tale fenomeno è ammissibile dall’alto verso il basso ma non dal basso verso l’alto.
La legge di concessione dell’amnistia dell’indulto.
La legge costituzionale n.1 6 marzo 1992, ha interamente sostituito il testo dell’articolo 79, con il seguente: “l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l’amnistia e indulto stabilisce il termine per la loro applicazione. In ogni caso l’amnistia e indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge.”
Gli elementi che differenziano la nuova disciplina della precedente sono:
- l’esclusione dell’intervento del presidente da Repubblica nella concessione dell’amnistia dell’indulto, ad eccezione della promulgazione della legge;
- riserva di legge assoluta ed infungibile stabilita dall’articolo 79, da cui deriva la titolarità del potere di concedere l’amnistia e indulto;
- la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna camera necessaria non soltanto per l’approvazione della legge nel suo complesso, ma anche per l’approvazione dei singoli articoli;
- l’espressa previsione della possibilità da parte della legge di stabilire un termine per l’applicazione di amnistia e dell’indulto anteriore rispetto alla data di presentazione del disegno o della proposta di legge.
Le ragioni politiche che hanno condotto alla modifica della legge.
L’esigenza fondamentale è nata dall’abnorme ricorso agli istituti dell’amnistia e dell’indulto per fronteggiare problemi di contenimento di un sistema carcerario del tutto insufficiente. Con ciò snaturando la natura straordinaria ai quali sono adibiti. Venivano utilizzate infatti soprattutto quando erano subentrati delle circostanze in base alle quali i suddetti reati erano legati ad un momento oramai superato, e quindi non più offensivi della coscienza sociale.
I problemi procedurali.
Possono sorgere nel corso dell’esame parlamentare di progetti di legge di concessione dell’amnistia dell’indulto e sembrano essere essenzialmente due.
q Il primo riguarda l’applicabilità al caso di specie dell’istituto della cosiddetta riserva di legge di assemblea, disciplinato dall’articolo 72 comma 4.
q Il secondo problema nasce dal fatto che, per la prima volta nella discussione di un progetto di legge, sia ordinaria sia costituzionale, viene stabilito che ciascuno dei singoli articoli del quale esso si compone debba essere approvato non a maggioranza semplice, ma bensì a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera. A fronte di ciò, quali maggioranze debbano raggiungersi per l’approvazione degli emendamenti di un articolo?
Per quanto riguarda gli emendamenti modificativi dell’articolo la prassi è che si svolgano prima le votazioni dei singoli emendamenti e successivamente la votazione dell’articolo nel suo complesso nel testo risultante a seguito degli emendamenti approvati.
Essendo le votazioni distinte, rispettivamente per i singoli emendamenti e per l’articolo nel suo complesso, non vi era necessità di maggioranze particolari per l’approvazione degli emendamenti: e questi dovranno essere approvati a maggioranza semplice, mentre l’articolo nel suo complesso dovrà essere approvato con la maggioranza dei due terzi dei componenti.
Per quanto riguarda gli emendamenti sostitutivi di un articolo non vi sono, 2 votazioni come avveniva nel caso precedente, perché l’approvazione dell’emendamento equivale all’approvazione dell’articolo, e si dovranno necessariamente applicare i principi fissati dall’articolo 79 per la votazione degli articoli; cioè un emendamento interamente sostitutivo dell’articolo dovrà essere approvato a maggioranza dei due terzi dei componenti. Questo vale anche per i nuovi articoli e per gli emendamenti che propongono la soppressione di uno o più articoli dello stesso.
Quando viene presentato un solo emendamento soppressivo di un articolo, i regolamenti parlamentari prescrivono di porre in votazione non l’emendamento soppressivo bensì il mantenimento dell’articolo, con la conseguenza che l’approvazione della proposta posta in votazione determina da un lato il respingimento dell’emendamento e dall’altro l’approvazione dell’articolo, che deve essere approvato con la maggioranza dei due terzi dei componenti.
Qualora invece siano stati presentati più emendamenti, ad uno stesso articolo, la regola sopra enunciata non vale, la votazione deve cominciare dagli emendamenti che più si allontano dal testo originario in particolare l’articolo 87, e il regolamento della camera stabilisce che si voti prima gli emendamenti interamente soppressivi, poi quelli parzialmente soppressivi, tra quelli modificativi e fine degli aggiuntivi.
In questo secondo caso, pertanto dopo la votazione a maggioranza semplice di tutti gli emendamenti presentati, compreso quel soppressivo, si dovrà votare nei due terzi dei componenti l’articolo nel suo complesso, nel testo originario o nel testo risultante dagli eventuali emendamenti approvati.
Articolo 7 Cost.
Dopo aver ribadito l’indipendenza di Stato e Chiesa, ognuno nel proprio ordine, afferma che “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
Per la disciplina di determinate materie di interesse comune, si è optato per una regolamentazione congiunta il cui contenuto è predisposto sulla base di accordi tra lo stato e la santa sede. Talia ccordi sono vincolanti soltanto per le parti contraenti (stato e Chiesa).
Si è dunque discusso a lungo su quale sia il regime giuridico e la posizione gerarchica delle fonti: 1) dei Patti lateranensi – 2) della legge esecutiva dei Patti L.n.810 del 1929– 3) legge del 1929 che dei suddetti patti era attuativa 4) dell’accordo modificativo dei Patti del 1984 – 4) delle leggi nn. 121 e 206 del 1985 che hanno dato attuazione all’accordo.
Una tesi sosteneva la costituzionalizzazione dell’intero corpo normativo derivante dai Patti lateranensi; cioè si sosteneva che le singole norme dei patti avessero assunto la forza di legge propria delle norme costituzionali.
Un’altra tesi sosteneva la costituzionalizzazione non tanto del corpus normativo dei patti, quanto del “principio concordatario” secondo cui i rapporti tra Stato e Chiesa devono essere regolati concordatamene.
Un’altra tesi sosteneva la costituzionalizzazione del principio pattizio, vale a dire il principio che garantirebbe le modifiche ai patti lateranensi.
Leggi di esecuzione dei Patti come fonti atipiche : La modifica delle leggi di esecuzione dei Patti può avvenire in due modi :
– mediante legge costituzionale per modifica unilaterale da parte delle Stato, e quindi non accettate dalla Chiesa cattolica;
– mediante legge ordinaria in caso di modifiche accettate dalle due parti.
In questo secondo caso va qualificata come “legge atipica” perché il suo procedimento è rinforzato (necessita dell’accordo delle parti) – la sua forza passiva è superiore a quella di altre leggi (non può essere abrogata da leggi ordinarie se non in accordo comune) – la sua competenza è specializzata (disciplina solo le modifiche dei Patti)
Rimane dubbio se tale “copertura costituzionale” valga o no per le leggi di attuazione dei patti e dell’accordo le quali, sarebbero in tutto sottoposte al regime delle leggi ordinarie.
La corte costituzionale ha affrontato il problema in una serie di sentenzeà n.30 del 1971 la quale ha affermato che l’art.7 cost “non sancisce solo un generico principio pattizio nella disciplina dei rapporti tra stato e chiesa cattolica, ma contiene altresì un preciso riferimento al concordato in vigore e, in relazione al contenuto di quello, ha prodotto diritto”
Ha, inoltre, affermato la propria competenza a sindacare tale diritto di origine pattizia solo ove questo contrasti con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, in tal modo attribuendo alle norme di origine concordataria una valenza costituzionale.
Per quanto riguarda il problema relativo al se anche le cosiddette leggi di “attuazione” dei patti siano tutelate dalla copertura ex. Art.7 cost, la corte ha prodotto una giurisprudenza estremamente oscillante.
Articolo 8 Cost.
Afferma il principio secondo cui:
1) “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere dinanzi la legge” e
2) “Quelle diverse da quella cattolica hanno diritto ad organizzarsi secondo i propri statuti” e
3) “I loro rapporti sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.
Proprio riguardo il punto 3) si tratta proprio di stabilire quale sia il vincolo derivante dalle intese, stipulate tra il governo e le rappresentanze di una confessione religiosa diverse dalla cattolica, nei confronti della successiva legge regolatrice dei rapporti tra lo stato e la suddetta confessione religiosa.
Una prima tesi afferma che le intese non obbligherebbero il legislatore ad uniformarsi ad esse e, pertanto, non potrebbe considerarsi viziata d’incostituzionalità una legge ordinaria i rapporti tra Stato e confessione religiosa non cattolica, prescindendo dall’esistenza delle intese.
Preferibile appare la seconda tesi che riconosce la natura pienamente giuridica delle intese e dunque del loro valore vincolante per il legislatore; in quest’ottica le intese assumono, rispetto alla legge che danno loro esecuzione, il carattere di una “condizione di legittimità costituzionale”.
Le leggi regolatrici dei rapporti tra lo stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica va pertanto qualificata come legge atipica, perché il suo procedimento è rinforzato esternamente dalla necessità della previa intesa, perché la sua forza passiva è superiore a quella delle altre leggi, non potendo essere abrogata da leggi ordinarie che non siano precedute da una previa intesa; perché la sua competenza è “specializzata” nel senso che essa può disciplinare soltanto i rapporti tra lo stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica.
Il problema delle confessioni religiose che non abbaino sottoscritto un’intesa con lo stato ed il cui stato giuridico viene regolato dalla legge n.1156 del 1929.
CAPITOLO 9
LE FONTI – FATTO
Concetto caratterizzato dalla mancanza di un atto scritto la cui adozione sia attribuita alla competenza di un soggetto determinato nel rispetto di un procedimento di formazione tipico. Le singole fonti-fatto sono molte e tra esse potrebbero rientrare :
– consuetudine
– convenzioni costituzionali
– prassi
La consuetudine
Spesso denominata con il nome di “uso”. I suo maggiori problemi riguardano l’individuazione degli elementi costitutivi che consentono di definirla come fonte normativa e gli elementi che distinguono le norme consuetudinarie dalle semplici regole di costume.
Le teorie che hanno cercato di spiegare il fondamento giuridico della consuetudine sono state molte:
Dottrina romano-canonistica : riconduce la giuridicità della consuetudine alla volontà del popolo, o in epoca medievale, con il conseguente prevalere delle monarchie assolute, si sostituisce alla volontà del popolo quella del principe.
Tesi della Scuola Storica : la giuridicità della consuetudine deriva dal popolo inteso non più come soggetto politico ma come “formazione naturale contrapposta alla formazione artificiale dello Stato”. à da qui la rivalutazione e l’autonomia del diritto consuetudinario.
Teoria della “opinio iuris et necessitatis” : ritiene che gli elementi costitutivi della consuetudine siano due : elemento materiale (ripetizione uniforme e costante nel tempo di uno stesso comportamento in una determinata situazione) – elemento spirituale (opinio iuris et necessitatis) consistente nella convinzione del soggetto, della obbligatorietà di quel comportamento.
A tale tesi sono state mosse 2 critiche:
Una prima critica parte dall’affermazione che il soggetto si sente giuridicamente obbligato a tenere un determinato comportamento, poiché egli stesso lo ritiene obbligatorio per adempiere a quanto prescritto da una norma che presume esistente. à tale critica è detta “critica dell’errore”
Infatti tale presunzione, potrebbe anche rivelarsi falsa, e quindi la norma prescrivente quel comportamento potrebbe non esistere; e poiché il diritto non può nascere da un errore l’elemento spirituale non può per tale motivo essere considerato come uno degli elementi costitutivi della consuetudine. Tale critica non sembra tuttavia fondata proprio perché parte dall’errata premessa secondo la quale il diritto non può nascere da un errore.
Una seconda critica, cui l’elemento della “opinio” implica inevitabilmente un “circolo vizioso”. Se il soggetto si sente obbligato a tenere un determinato comportamento poiché ritiene esistente una norma giuridica in tal senso, egli presuppone esistente una norma che nella realtà sorgerà soltanto successivamente alla ripetizione uniforme e costante di quel comportamento.
Da tale “circolo vizioso” si è tentato di uscire abbandonando ogni tentativo di ricercare l’elemento spirituale negli intenti dei soggetti agenti, per ritrovarlo negli altri, nell’ambiente sociale, nella generalità dei soggetti tra i quali l’uso che si svolge e nei confronti dei quali se ne producono gli effetti.
Il vero elemento costitutivo delle norme consuetudinarie risiede nella loro effettività e cioè nell’obbedienza media e stabile che esse ricevono da parte dei loro destinatari.
Principio dell’effettività : principio costitutivo di un ordinamento nel suo complesso, il ché significa che esso opera nei confronti di tutte le norme. Opera in modo “diretto” nei confronti delle norme scritte create da fonti positivamente previste – opera in modo “indiretto” per le norme fondamentali e per le norme consuetudinarie (che nascono e vigono solo grazie alla loro effettività).
Le consuetudini costituzionali
Accanto alla consuetudine nel nostro ordinamento troviamo anche l’esistenza di “consuetudini costituzionali”. Consuetudini che riprendono la loro qualifica dal fatto di formarsi a seguito di comportamenti uniformi e costanti tenuti da organi costituzionali o comunque da soggetti pubblici operanti a livello costituzionale.
Esempi di queste sono :
– consultazione del presidente della Repubblica per nomina del Governo;
– nomina nel Governo dei sottosegretari, ministri e Vicepresidente del consiglio
Si tratterebbe di consuetudini facoltizzanti che, invece di prescrivere obblighi, attribuirebbero a determinati soggetti pubblici, facoltà tendenti a concretizzare le forme ed i modi per lo svolgimento di poteri loro attribuiti da norme costituzionali.
In ordine ad alcuni degli esempi di consuetudini facoltizzanti, occorre però osservare che non vi è affatto concordia su tale qualifica.
Così, si è sostenuto che tanto la fase delle consultazioni, quanto il conferimento dell’incarico, sarebbero oramai basate su di una consuetudine costituzionale perscrivente non già una facoltà bensì un obbligo in tal senso del presidente della Repubblica e che, qualora con leggi ordinarie le si volesse vietare, tale legge sarebbe illegittima per contrasto con le suddette consuetudini costituzionali; queste ultime pertanto, avrebbe il medesimo rango di principi costituzionali ai quali afferiscono. Ma solo nella misura in cui siano ricostruibili come esecutive di norme costituzionali e non anche con integrativi degli stessi
Un’altra tesi nega alle consuetudini costituzionali la natura di facoltizzanti. Infatti il concetto di consuetudine facoltizzante ha generato delle perplessità alla luce dell’esistenza del principio secondo cui tutto ciò che non è vietato espressamente o implicitamente deve ritenersi automaticamente consentito; perché non si comprende la necessità di una norma che l’ordinamento non vieta o non esclude.
Né tale necessità sarebbe giustificata dall’argomento secondo cui le regole consuetudinarie, per il fatto di essere norme giuridiche avrebbero la funzione di determinare un obbligo; tale obbligo sussiste per definizione nei confronti di qualsiasi atto o comportamento che non sia vietato dall’ordinamento giuridico.
Né decisiva sembra essere l’affermazione secondo la quale i soggetti investiti di cariche pubbliche avrebbero soltanto quei poteri ad essi espressamente conferiti da norme giuridiche, dovendosi quindi ritenere illegittimo ed illecito ogni altro potere per il fatto di non essere fondato sul diritto.
Quando la costituzione attribuisce al presidente della Repubblica il potere di nominare il governo senza stabilire il modo o la disciplina, si deve ritenere implicitamente consentito dall’articolo 92 uno spazio di libertà al fine di consentire i poteri necessari per il raggiungimento del suddetto risultato.
Sembra pertanto da condividere la conclusione secondo cui è superfluo ricorrere alla consuetudine per giustificare l’attribuzione in capo a determinati soggetti pubblici di facoltà o di poteri, poichè questi ultimi devono considerarsi comunque consentiti laddove non siano vietati espressamente o implicitamente da una norma giuridica, e siano strumentali rispetto ad altri poteri, fini, o principi fissati da queste ultime. Il ruolo della consuetudine, in questi casi, può essere invece diverso, nel senso di trasformare in obbligo giuridico quello che in origine era una facoltà.
Il grado e le funzioni delle consuetudini costituzionali
Quanto al grado della consuetudine costituzionale nell’ordinamento italiano, un punto fermo è costituito dalla negazione della possibilità che le norme suddette possono abrogare norme formalmente costituzionali tale limitazione deriva dal fatto che possono essere modificate soltanto dalle leggi approvate con il medesimo procedimento dell’articolo 138. E si sostiene inoltre che le consuetudini costituzionali avrebbero il medesimo rango dei principi costituzionali ai quali afferiscono e determinerebbero, pertanto l’illegittimità costituzionale di eventuali leggi ordinarie che le volessero vietare.
Una volta ammesso che tali consuetudini possono operare soltanto nei limiti dell’esecuzione, dell’integrazione e dell’interpretazione delle disposizioni formalmente costituzionali, non si vede per quale motivo il legislatore ordinario non posso intervenire successivamente per adottare una diversa disciplina in ordine all’esecuzione, integrazione e interpretazione delle stesse.
In realtà l’esecuzione e l’integrazione di una disposizione formalmente costituzionale attiene al carattere dei parametricità che tali norme vengono in tal modo ad assumere, ai fini di un eventuale giudizio di legittimità costituzionale nei confronti di successive leggi o atti con forza di legge con esso eventualmente contrastanti oppure che volessero introdurre nuove disposizioni apparentemente di nuova istituzione o integrazione, ma in realtà contrastanti con la disposizione costituzionale alla quale si riferiscono: la loro violazione costituisce infatti violazione diretta della disposizione costituzionale che eseguono o che integrano.
La corte costituzionale con le sentenze nn. 129 del 1981 e 7 del 1996 ha ammesso le consuetudini costituzionali tra le norme parametro del giudizio sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Consuetudini costituzionali che la corte definisce come quei principi o regole non scritte manifestatesi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi, tendenti in armonia con il sistema costituzionale ad integrare le norme costituzionali scritte.
Le convenzioni costituzionali.
Le convenzioni costituzionali sono quegli accordi, taciti o espressi che intervengono a livello istituzionale tra soggetti politici per regolamentare determinate fattispecie.
Le convenzioni costituzionali non determinano la nascita di norme giuridiche non tanto perché non è previsto alcun procedimento di formazione al riguardo quanto perché sono gli stessi soggetti che nel momento in cui si raggiungono un determinato accordo non vogliono creare norme giuridiche ma soltanto stabilire degli impegni politici che, per loro natura, possono essere disattesi in qualsiasi momento, fatta salva la necessità di sopportarne le conseguenze politiche.
La distinzione tra convenzioni e consuetudini costituzionali
Il criterio per riconoscere una convenzione costituzionale da una consuetudine costituzionale è abbastanza semplice, perché l’accordo nel quale si risolve una convenzione costituzionale ha effetto immediato e ciò significa che mentre la nascita delle regole della regola politica scaturente da una convenzione costituzionale è di tipo istantaneo, la nascita di una norma consuetudinaria è di tipo graduale in relazione al consolidarsi nel tempo di un comportamento uniforme e costante.
La trasformazione di una convenzione costituzionale in consuetudine costituzionale può affermarsi quando la ripetizione della regola convenzionale da parte dei soggetti che l’avevano posta in essere permane, anche il caso in cui è mutata la situazione politica e il rapporto di forza tra i soggetti i quali avrebbero potuto discostarsene.
La prassi
Il termine prassi riferito agli organi pubblici, indica secondo l’orientamento pressoché plebiscitario della dottrina costituzionalistica, la costanza della ripetizione dei loro comportamenti nell’esercizio dei poteri conferiti.
Negazione della prassi come fonte del diritto
Costituiscono tutt’al più uno dei tanti elementi ai quali fare ricorso per interpretare disposizioni poco chiare o l’attività posta in essere dai suddetti soggetti. Si ammette che una prassi possa trasformarsi in un una vera e propria consuetudine quando la regolarità del comportamento si stabilizza nel tempo, unitamente al formarsi delle opinio iuris et necessitatis,, all’inverso, che una consuetudine possa trasformarsi in una semplice prassi per il venir meno dell’elemento psicologico.
Si potrà avere una prassi non consolidata nel caso di un solo precedente; nel caso di pochi precedenti tra loro uniformi o una prassi contrastante o oscillante; nel caso di numerosi precedenti tra loro con forme e sarà una prassi consolidata o costante.Soltanto in quest’ultimo caso è possibile la trasformazione di una prassi in consuetudine.
Le norme consuetudinarie possono essere abrogate da successive disposizioni scritte e da successive norme consuetudinarie con esse contrastanti. Tutte le norme consuetudinarie possono cessare di esistere anche in altro modo, per il venir meno dell’elemento materiale: tale modo di cessazione si definisce con il termine di desuetudine. Le norme consuetudinarie divengono desuete quando non sono più effettive.
CAPITOLO 10
LE FONTI COMUNITARIE
L’appartenenza dell’Italia al sistema della comunità e dell’unione europea comporta delle significative conseguenze sul piano del fonti del diritto. La tendenziale integrazione tra gli Stati membri ed il raggiungimento di tutte le finalità essenziali della comunità europea, hanno come strumento fondamentale per il loro raggiungimento, la funzione normativa, cioè la possibilità di adottare norme che regolamentino in maniera uguale o che tendano ad unificare, la disciplina delle materie d’interesse comune.
Il sistema comunitario utilizza:
fonti comunitarie primarie cioè diritto uniforme derivante dai trattati istitutivi della comunità; fonti comunitarie derivate:
sia strumenti normativi di unificazione consistente nell’emanazione di disposizioni unitarie, con una riserva all’organo legislativo comunitario della competenza a variare le norme vigenti ed organismi giudiziari comuni con il potere di vigilare sulla loro applicazione;
sia strumenti di armonizzazione che portano alla omologazione del diritto di diversi paesi, consentendo tuttavia varianti rispetto al modello comune al livello dei singoli Stati.
Alle istituzioni comunitarie è riconosciuto dall’articolo 249 del trattato CE, la potestà di emanare norme giuridiche di diverse tipologie come fonti comunitarie derivate, comunque subordinate ai trattati.
Le varie fonti comunitarie
Tra gli atti normativi della comunità delle cosiddette fonti comunitarie vi sono:
q i regolamenti che costituiscono l’atto normativo comunitario per eccellenza, con portata generale, obbligatorio e direttamente applicabili in tutti gli Stati membri;
q le direttive atti maggiormente elastici con i quali si realizza un graduale avvicinamento delle legislazioni nazionali, accomunandole nei fini, in modo da perseguire gli scopi previsti dai trattati istitutivi.
La comunità europea emana anche altri tipi di atti che non rivestono carattere normativo:
q decisioni che sono vincolanti, atti di natura sostanzialmente amministrativa con carattere obbligatorio e destinatari individuali;
q altri con caratteri tipicamente non vincolanti e funzione propulsiva consultivaa o informativa, come le raccomandazioni i pareri e altri atti ancora.
I problemi principali sono due:
a) il conflitto tra fonti comunitarie direttamente applicabili e le norme interne;
b) le modalità di recepimento delle fonti comunitarie non direttamente applicabili
Il recepimento di fonti comunitarie
Le fonti comunitarie sono entrate in Italia attraverso il recepimento di trattati comunitari che le prevedono, in virtù della clausola di rinvio inserita una volta per tutte nei trattati istitutivi e tradottosi in norma di diritto interno in forza della relativa legge di esecuzione.
I Trattati istitutivi sono recepiti con leggi ordinarie, sono entrati a far parte del nostro ordinamento con il rango di fonti legislative, in quanto tradizionalmente si ritiene che l’ordine di esecuzione è in conseguenza le norme da esso introdotte abbiano lo stesso grado gerarchico della fonte nel quale contenuto.
La dottrina, ha messo in evidenza l’inopportunità di aver dato esecuzione ad accordi senza far ricorso ad una legge costituzionale ex articolo 138 ad ogni modo restavano due possibilità:
o ritenere incostituzionali le leggi di esecuzione dei trattati comunitari oppure rinvenire in costituzione un appiglio che consentisse di giustificare gli effetti di ordine costituzionale che dai trattati discendevano nonostante fossero recepiti con legge ordinaria.
La soluzione
La dottrina e la giurisprudenza si impegnarono a ricercare in costituzione una norma che potesse essere adeguata copertura alle leggi ordinarie di esecuzione dei trattati.
L’articolo 10 comma 1 della costituzione la quale sosteneva che tutti i trattati internazionali e di conseguenza anche quelli comunitari, dovrebbero trovare attuazione nell’ordinamento interno indipendentemente dall’ordine di esecuzione e acquisendo rango costituzionale, in quanto direttamente immessi mediante una norma della costituzione.
Date le serrate critiche, ci si è riferiti all’articolo 11 che recita “L’Italia consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Per quanto tale disposizione fosse stata pensata con specifico riferimento ad organizzazioni di respiro mondiale ad esempio ONU, l’articolo 11 della costituzione per il suo tenore generico è apparso il riferimento costituzionale ideale per legittimare le forti limitazioni introdotte dai trattati comunitari.
Tale impostazione dottrinaria ha trovato l’avallo della giurisprudenza costituzionale, con sentenza n.14 del 1964.
Le fonti comunitarie entrano quindi nel nostro ordinamento con una generica ma solida copertura costituzionale, che tuttavia non è valsa a fornire elementi decisivi circa la natura ed il rango che essi assumono in un’ottica di diritto interno.
L’impatto delle fonti comunitarie direttamente applicabili e la loro prevalenza sulle fonti interne.
Il primo problema di compatibilità tra le fonti comunitarie e il diritto interno riguarda le norme comunitarie direttamente efficaci nell’ordinamento nazionale, cioè quelle norme che discendono dai regolamenti comunitari o delle direttive auto-applicative, ed esplicano immediatamente ed effetti negli ordinamenti statali, accanto alle norme prodotte dalle fonti interne, entrando spesso in conflitto con esse.
In mancanza di ogni specie di indicazione normativa circa le modalità per risolvere quel tipo di antinomia, spetta ai giudici e a tutti gli operatori del diritto stabilire come scegliere quale norma da applicare, nel caso di norme confliggenti che appartengono l’uno al diritto comunitario e l’altra al diritto nazionale.
La prima fase: una dichiarazione di illegittimità costituzionale
Gli anni ‘70, la corte costituzionale ha riconosciuto il necessario primato del fonti comunitarie e la loro prevalenza sulle fonti legislative interne, attraverso il congiunto operare dell’abrogazione e dell’illegittimità costituzionale, a seconda che la norma comunitaria fosse successiva o precedente rispetto alle fonti interne configgenti.
In tale seconda ipotesi la legge italiana doveva essere sottoposta al vaglio della stessa corte costituzionale, che ne dichiarava l’incostituzionalità, per violazione immediata della norma comunitaria configurata come norma interposta all’articolo 11 della costituzione.
La seconda fase: la disapplicazione delle leggi contrastanti con le norme comunitarie.
La corte di giustizia della comunità europea ha affermato la preminenza del diritto comunitario, e il giudice nazionale, è incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, e ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disattivando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, senza dover chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.
A questo punto la corte costituzionale ha cambiato il proprio orientamento con la sentenza n.170 del 1984 in cui afferma che la norma comunitaria riceve piena e diretta applicazione per forza propria, non entrando a far parte del ordinamento nazionale, e viene preferita alle norme interne incompatibili, ovviamente nelle materie trasferite alla competenza della comunità, sia che segua, sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie incompatibili.
Si impedisce così che tale norma venga in rilievo per la definizione di una controversia innanzi al giudice nazionale.
Anche le sentenze interpretative e le sentenze di condanna alla corte di giustizia delle comunità europea sono divenuti direttamente applicabili, alla ricorrenza di determinate condizioni.
La corte ha quindi ammesso un proprio intervento diretto al fine di salvaguardare il massimo adeguamento, dell’ordinamento interno alle norme comunitarie, in una serie di ipotesi:
- quando il governo impugna le leggi regionali contrastanti con il diritto comunitario;
- quando le regioni inpugnino in via di azione leggi dello Stato le quali, contravvenendo al diritto comunitario allo stesso tempo ledano o invadono le proprie competenze;
- quando le norme nazionali violino norme comunitarie, non direttamente applicabili, ricevendole in maniera incompleta impropria o errata;
- quando una legge interna impedisca o pregiudichi la perdurante osservanza dei trattati, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei loro principi.
È da aggiungere l’unica fattispecie rispetto rispetto alla quale il conflitto si è risoltoin favore della norma nazionale: quella in cui la norma comunitaria sia contraria ai principi supremi dell’ordinamento e ai diritti inviolabili dell’uomo
La giurisprudenza ha sempre affermato l’esistenza di contro-limiti all’ingresso delle norme comunitarie nell’ordinamento interno, osservando che quest’ultime non possono essere accettate qualora violino i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana.
Questo è diventato un chiarissimo indizio del fatto che le norme comunitarie sono subordinate ai principi supremi dell’ordinamento ma sono poste al di sopra della leggi formalmente costituzionali.
L’attuazione delle fonti comunitarie non direttamente applicabili. Le direttive.
Le direttive che comportano soltanto un’obbligazione di risultato, in quanto lasciano allo Stato la discrezionalità sulle forme e sui mezzi che appaiono più idonei a perseguire il fine prestabilito.
In Italia il sistema attuativo delle direttive è sempre stato ferruginoso e scoordinato tanto da dare luogo a gravi ritardi e numerosi inadempienze.
Legge comunitaria come strumento periodico di recepimento del diritto comunitario
Con la legge n.9 marzo 1989 n.86 cosiddetta legge la pergola, in cui si supera la logica dell’emergenza e dell’occasionalità per creare invece un sistema organico e tempestivo di adeguamento, fondato su uno strumento del tutto innovativo, la legge comunitaria annuale.
La legge comunitaria, tende a garantire la regolarità e la tempestività dell’adeguamento, disponendo si attuazioni dirette, ma gestendo anche l’attuazione con una serie di procedimenti “a cascata” che possono coinvolgere l’autonomia legislativa del governo, l’autonomia amministrativa regolamentare e l’autonomia legislativa regionale.
Le singole leggi comunitarie possono provvedere:
- direttamente;
- possono disporre la delega legislativa nei casi in cui vi sia una materia in cui il legislatore voglia mantenere la propria competenza;
- autorizza alla delegificazione in materie non coperte da riserva di legge;
- stabiliscono l’attuazione in via amministrativa.
I tempi del recepimento in Italia delle direttive comunitarie sono nettamente migliorate. Risultati molto positivi si sono conseguiti soprattutto da un punto di vista conoscitivo.
Qualche riserva permane sulla funzionalità della legge comunitaria come strumento di attuazione delle norme comunitarie. Legge comunitaria infatti molto spesso non serve al recepimento delle disposizioni comunitarie, ma si risolve in uno spostamento cronologico e di una dispersione di centri di imputazione dell’attuazione.
Il problema di fondo delle residue difficoltà dell’Italia ad attuare le direttive comunitarie risiede, principalmente, nella scarsa attenzione dedicata alla cosiddetta fase ascendente del diritto comunitario.
L’insufficiente partecipazione alla formazione delle norme comunitarie fa sì che molto spesso gli organi nazionali si trovano a dover recepire disposizioni che piovono sul nostro ordinamento, senza averne assolutamente potuto valutare in anticipo i problemi di compatibilità col sistema giuridico interno.
La corte di giustizia ha cercato di costringere fermamente gli Stati al recepimento.
Innanzitutto si ammesso che la direttiva possa produrre effetti diretti, incidendo direttamente sulle posizioni giuridiche dei singoli e venendo conseguentemente invocata dinanzi ai giudici nazionali.
La corte di giustizia ha infatti affermato tale peculiare efficacia nelle ipotesi di mancato recepimento in termini delle direttive, enucleando tre requisiti necessari:
- Si richiede che si tratti di disposizioni chiare e precise complete e giuridicamente perfette, in modo da essere concretamente applicabili, senza ulteriori valutazioni discrezionali in merito alla loro esecuzione.
- Occorre poi che le stesse non appaiono condizionate nella loro efficacia né cronologicamente, né all’ intervento del legislatore
- Infine si esige che lo Stato risulti inadempiente all’attuazione della direttiva nel proprio ordinamento.
L’efficacia diretta ed immediata delle direttive inattuate costituisce una garanzia minima nel senso che la disposizione in questione è stata ammessa solo in senso verticale nel senso di consentire ai singoli di far valere un diritto verso uno Stato inadempiente e non anche in senso orizzontale, fra gli individui che risulterebbero titolari di diritti ed obblighi tra loro.
Il singolo può ricorrere al giudice nazionale, fine di far valere la responsabilità dello Stato inadempiente nell’attuazione e di ottenere il risarcimento dei danni, ritenendo le ragioni della mancata attuazione tempestiva, il mancato riconoscimento ai singoli delle situazioni giuridiche soggettive recate dalla direttiva.
Tale diritto al risarcimento viene legato alla ricorrenza di tre condizioni:
- l’attribuzione da parte della direttiva, di diritti a favore dei singoli;
- la possibilità di identificare il contenuto di tali diritti sulla base delle disposizioni della direttiva un tipico
- l’esistenza di un nesso di casualità tra la violazione della direttiva da parte dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.
Spetta ai giudici nazionali di valutare la sussistenza del danno e la sua quantificazione.
CAPITOLO 11
LE FONTI REGIONALI
Il quadro delle fonti regionali è espressione del principio di autonomia affermato dall’articolo 5 della costituzione, oggi profondamente mutato alla luce di 2 riforme del titolo V della costituzione, introdotte dalle leggi costituzionali 22 novembre 1999, n 1, e 18 ottobre 2001, n.3, con specifico riferimento alle regioni ad autonomia speciale, per effetto della legge costituzionale 31 gennaio 2001, n.2. L’esame delle fonti suddette richiede un costante riferimento sia alla legislazione ordinaria di attuazione e sia alla giurisprudenza costituzionale
Le principali fonti regionali sono:
- gli statuti
- le leggi e
- i regolamenti.
Vi è la distinzione tra regioni ad autonomia speciale e regione ad autonomia ordinaria, dalla quale nell’intenzione dei costituenti, sarebbe dovuta scaturire una maggiore ampiezza di poteri e di funzioni per le prime nei confronti delle seconde. Ad esclusione, della potestà statuaria attribuita dall’articolo 123 alle regioni ad autonomia ordinaria, e negata dall’articolo 116 alle regioni ad autonomia speciale.
Gli statuti speciali
Gli statuti sono infatti contenuti in leggi costituzionali al di fuori di qualsiasi intervento da parte delle regioni. Interventi, oggi previsti dalla legge costituzionale n.2 del 2001.
La mancanza di potestà statuaria è ben compensata dalla maggiore autonomia concessa alle regioni dalla legge costituzionale contenente lo statuto, che disciplina le funzioni e l’organizzazione interna delle regioni, in deroga alla disciplina prevista dalla costituzione, per le regioni ordinarie.
Tuttavia l’ autonomia differenziata si è andata man mano attenuando. L’affievolimento delle differenze tra regioni speciali e ordinarie soprattutto in ordine ai limiti delle rispettive potestà legislative è incrementato per effetto della riforma del titolo V della costituzione introdotta dalla legge costituzionale n.3 del 2001; quest’ultima ha completato un processo riformatore già inaugurato dalla legge costituzionale n.1 del 1999. Prevede forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribute dagli statuti speciali e si applicano anche alle regioni speciali, e alle province autonome di Trento e Bolzano.
Il procedimento di revisione degli statuti speciali
La legge costituzionale n.2 del 2001 ha apportato modifiche ai singoli statuti speciali con riferimento al procedimento di revisione delle leggi costituzionali di adozione degli statuti speciali, specificando che l’iniziativa spetta anche all’assemblea regionale e prevedendo, in caso di iniziativa governativa parlamentare, il parere necessario del consiglio regionale interessato, nonché escludendo la possibilità di esperire nella specie il referendum nazionale eventuale di cui all’articolo 138.
La legge cost. n. 2 del 2001, nel provvedere che per le modificazioni dello statuto si applica il procedimento stabilito dalla costituzione per le leggi costituzionali, rinvia propriamente al procedimento dell’articolo 138 per poi disporne un aggravamento, consistente nella previsione del necessario, ma non vincolante parere della regione interessata e una riduzione dell’aggravamento, attraverso l’esclusione delle referendum nazionale.
Le leggi statutarie
Significativa appare anche un’altra modifica apportata dalla legge costituzionale 2 del 2001 a tutti gli statuti speciali, in virtù della quale, le regioni e le province autonome possono disciplinare, in armonia con la costituzione i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, forma di governo il sistema elettorale regionale con proprie leggi, adottate secondo peculiare procedimento.
Per adottare le leggi statutarie necessaria è in anzitutto una delibera a maggioranza assoluta del consiglio regionale. Su tale delibera il governo può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla corte costituzionale, entro 30 giorni dalla sua pubblicazione. La delibera è sottoposta al referendum, se entro 3 mesi dalla pubblicazione della stessa, lo richiedono 1/50 degli elettori e 1/5 dei componenti il consiglio regionale.
La legge è promulgata e pubblicata se nel termine di 3 mesi non viene presentata richiesta di referendum, o, se ove presentata, è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Gli statuti ordinari
Quanto gli statuti ordinari il vecchio testo dell’articolo 123, prevedeva che essi fossero deliberati dal consiglio regionale a maggioranza assoluta dei suoi componenti approvati con legge statale, al riguardo c’era chi considerava la legge statale come di mera approvazione, e controllo quindi espressione dell’autonomia regionale. Altri ritenevano che fosse espressione della volontà dello Stato.
La riforma costituzionale del 1999 ha sciolto ogni dubbio al riguardo, affidando al consiglio regionale il potere di adottare lo statuto, sia pure attraverso un procedimento aggravato, che richiede la maggioranza assoluta dei componenti il consiglio e due successive deliberazioni adottate ad intervallo non minore di due mesi.
A seguito dell’approvazione consiliare si procede ad una prima pubblicazione dello statuto sul bollettino ufficiale della regione, avente il fine di rendere noto il contenuto dello de l’atto statuario, (cosìdetta pubblicazione notiziale).
Dal momento della pubblicazione notiziale decorre il termine di 30 giorni entro il quale il governo può promuovere la questione di legittimità costituzionale sullo statuto regionale, dinnanzi alla corte costituzionale.
Inoltre entro tre mesi dalla suddetta pubblicazione 1/50 degli elettori della regione e 1/5 dei componenti del consiglio regionale possono richiedere l’indizione di un referendum popolare; l
o statuto sottoposta a referendum, può essere promulgato soltanto se è stato approvato dalla maggioranza dei voti validi. Se il governo non impugna la delibera statuaria e i soggetti legittimati non richiedono il referendum nei termini sopra previsti, lo statuto è promulgato e nuovamente pubblicato ai fini dell’entrata in vigore.
Ove i suddetti controlli della corte costituzionale e del corpo elettorale siano stati richiesti, la promulgazione e la seconda pubblicazione dello statuto è condizionata dal positivo superamento degli stessi. Il nuovo procedimento è utilizzato per revisionare parzialmente i propri statuti approvati precedentemente.
Contenuto necessari contenuto eventuale degli statuti ordinari.
Gli statuti si caratterizzano per un contenuto che disciplina alcuni oggetti di rilevante interesse per l’autonomia regionale quali:
la forma di governo regionale, i principi fondamentali di organizzazione funzionamento, il diritto di iniziativa su leggi e provvedimenti amministrativi regionali, la pubblicazione delle leggi ed i regolamenti, il consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione tra regioni ed enti locali.
Altra riserva a favore dello statuto è posta dall’articolo 122 ultimo comma, in base al quale il presidente della giunta regionale, salvo che lo statuto disponga diversamente è eletto a suffragio universale e diretto.
Queste disposizioni statuarie sono da considerarsi norme interposte nell’ordinazione da parte delle leggi regionali, costituisce violazione indiretta dell’articolo 123 sanzionabile da parte della corte costituzionale.
Per quanto riguarda i contenuti eventuali ulteriori degli statuti, essi sono senz’altro ammissibili mentre vi sono dei problemi riguardo l’efficacia giuridica di queste disposizioni.
Gli statuti ordinari nel sistema delle fonti.
Il problema riguarda la loro collocazione nel sistema delle fonti.
Va innanzitutto sottolineata la scomparsa dal testo dell’articolo 123 del poco comprensibile riferimento all’armonia con le leggi della Repubblica. Rimane oggi, soltanto il richiamo all’armonia con la costituzione, che appare rivolto a sottolineare l’esigenza complessiva di coerenza con l’intero sistema istituzionale, come emerge dalla giurisprudenza della corte. La corte costituzionale: “gli statuti dovranno essere in armonia con i precetti ed i principi ricavabili dalla costituzione.”
Il fatto che lo statuto sia soggetto al solo limite dell’armonia con la costituzione, sia pure inteso nell’ampio senso sopra illustrato, induce a considerarlo come fonte primaria, immediatamente subordinata alla costituzione. Si tratta propriamente di una fonte regionale a competenza riservata e specializzata e da qui emerge che ha un valore giuridico che lo colloca al vertice delle fonti regionali, come fonte primaria e fondamentale dell’ordinamento regionale.
L’analisi della potestà legislativa regionale.
La potestà legislativa può essere di tre tipi:
- La potestà esclusiva è attribuita alle sole regioni ad autonomia speciale, in forza di previsioni contenute nei singoli statuti, dando così concretezza alla previsione costituzionale, che vuole le regioni a statuto speciale dotate di forme e condizioni particolari di autonomia. L’esclusività consiste nel fatto che le materie tassativamente elencate negli statuti speciali sono sottratti alla disciplina legislativa dello Stato, ed affidate per intero alla legislazione regionale. Naturalmente è necessario che le regioni esercitino tale facoltà, rimanendo in caso contrario, le materie interamente disciplinate dalla legislazione statale, la quale dovrà ritenersi applicabile tutte le volte che la legge regionale nel frattempo adottata, venga meno per abrogazione o per dichiarazione di incostituzionalità.
- La potestà ripartita o concorrente appartiene a tutte le regioni ad autonomia ordinaria e in forza di specifiche disposizioni contenute nei singoli statuti speciali, a quelle ad autonomia speciale. Allo stato è riservato il compito di dettare principi fondamentali, per ciascuna delle materie numerate dall’articolo 117 e dagli statuti speciali, attraverso specifiche leggi, le cosiddette leggi-cornice, ed alle regioni è riservato il compito di adottare leggi che rechino la concreta disciplina della materia, differenziata ovviamente per ciascuna regione, nel rispetto dei principi fissati dal legislatore nazionale. Tale potestà viene definita come concorrente dalla regione concorrono alla disciplina della medesima materia.
- La potestà integrativa-facoltativa, concessa alle regioni a statuto ordinario, è disciplinata dall’ultimo comma dell’articolo 117, secondo il quale le leggi della Repubblica possono rimandare alla regione il potere di emanare norme per la loro attuazione, si tratta di una potestà che può essere attivata soltanto da una decisione dello Stato, (da cui la definizione di potestà facoltativa), al fine di consentire a singole regioni la possibilità di attuare con propri leggi, (da cui la definizione di potestà integrativa), e nel proprio territorio una determinata legge statale.
I limiti della potestà legislativa territoriale.
L’individuazione dei limiti può essere sia di carattere generale, sia in riferimento ai singoli tipi di potestà designate dal costituente, dalla dottrina e della giurisprudenza costituzionale.
Un limite è il cosiddetto limite territoriale per cui la regione può approvare leggi che si riferiscono e producano effetti soltanto all’interno del suo territorio, non potendo porsi in contrasto con l’interesse nazionale o in quello di altre regioni, né poteva intervenire nell’ambito della disciplina della materia penale, dei rapporti privatistici e dell’ordinamento giurisdizionale.
La potestà legislativa delle regioni ad autonomia ordinaria: tipologia e limiti
La riforma costituzionale è stata introdotta dalla legge cost. del 2001 n. 3 cui si deve la completa ristrutturazione della potestà legislativa delle regioni ad autonomia ordinaria.
Più rilevante modifica consiste nell’inversione dei criteri con i quali si distinguono gli ambiti della potestà legislativa dello Stato e delle regioni. Mentre secondo la precedente previsione dell’articolo 117 alle regioni spettava una potestà legislativa circoscritta ad un numero tassativamente elencato di materie e lo Stato possedeva una potestà residuale generale, ora il criterio è del tutto rovesciato e l’elencazione di un numero tassativo di materie concerne invece, l’individuazione degli ambiti di potestà legislativa riservate allo Stato. Alle regioni spetta potestà legislativa in riferimento ad ogni materie non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Il quadro generale della riforma costituzionale può riassumersi così:
a) la potestà legislativa statale, definita esclusiva, si esercita su un numero tassativo, ma molto ampio di materie.
b) a loro volta le regioni esercitano una potestà concorrente in un numero tassativo di materie nel rispetto dei principi fissati da leggi cornice statali;
c) alle regioni spetta in via esclusiva una generale potestà legislativa su tutte le materie che non siano riservate lo Stato o alla potestà concorrente delle regioni;
d) scompare la potestà integrativa-facoltativa prevista dall’ultimo comma del precedente articolo 117, che può dirsi in qualche modo rimpiazzata dalla potestà regolamentare affidata alle regioni.
Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sono adottati secondo un procedimento particolare sulla base di un’intesa con lo Stato e la regione interessata.
Aspetti problematici che questo nuovo assetto comporta.
La potestà legislativa esclusiva dello Stato.
Lo Stato conserva la potestà legislativa esclusiva su di una serie di materie, elencate nell’articolo 117 e classificabili secondo gradi ambiti tematici:
- competenze che coinvolgono la posizione dello Stato nelle relazioni con l’ordinamento internazionale e comunitario;
- politiche di difesa e sicurezza interna ed esterna;
- disponibilità della politica economica e ruolo di garanzia per lo Stato sociale;
- organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti sub-regionali nonché legislazione elettorale per i rappresentanti italiani del Parlamento europeo;
- giurisdizione e ordinamento civile e penale, giustizia amministrativa, norme generali sull’istruzione.
L’articolo 117 affida alla potestà statale la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale”.
Finisce così per conservare una potestà trasversale che percorre più materie e destinata a condizionare la potestà legislativa delle regioni sia concorrente sia esclusiva. La capacità espansiva delle cosiddette materie trasversali è connessa al fatto che esse non individuano un ambito oggettivo predeterminabile, ma identificano piuttosto una finalità da perseguire. Lo Stato può anche incidere limitando le potestà regionali purché l’intervento trasversale risponda effettivamente ad esigenze di proporzionalità e adeguatezza rispetto al fine.
La possibilita di attribuzione allo stato di ulteriori funzioni legislative in virtù del principio di sussidiarietà.
La corte costituzionale ha riconosciuto la possibilità che lo Stato attragga verso di sé, in forza di principio di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, funzioni legislative, ed esso non attribuite dall’articolo 117, quando istanze unitarie impongono l’allocazione delle funzioni amministrative a livello statale. La corte costituzionale sin dalla sentenza n.303 del 2003 ha precisato che l’esercizio dell’azione amministrativa trascina con sé anche la corrispondente funzione legislativa, “giacché il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole regioni, con discipline differenziate, possono organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale, e conduce ad affermare che solo legge statale possa attendere ad un siffatto compito di interesse pubblico.”
La potestà ripartita o concorrente spetta alle regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato, nelle materie indicate dall’articolo 117.
Si tratta di una potestà già conosciuta prima della riforma del titolo V, la quale come si è detto postula il concorso tra Stato e regioni nella disciplina della medesima materia attribuendo alle leggi statali il compito di determinare i principi fondamentali della materia, al cui rispetto sono tenute le leggi regionali.
I problemi maggiori attengono principalmente:
a) all’esatta definizione delle materie rientranti nella competenza concorrente;
b) all’eventuale inerzia dello Stato nell’adozione delle leggi cornice;
c) all’eventuale inerzia della regione nell’adottare propri leggi recanti la concreta disciplina della materia, la cosiddetta normativa di dettaglio e alla conseguente possibilità per lo Stato di sostituirsi alla regione in questo compito con una disciplina transitoria;
d) al modo di risolvere i contrasti tra le leggi regionali e sopravvenuti principi fondamentali statali in materia di competenza concorrente
L’articolo 11 comma 2 della legge costituzionale n.3 2001, ha previsto la possibilità che la commissione parlamentare per le questioni regionali sia integrato dai rappresentanti delle regioni, delle province autonome degli enti locali, e che essa, nell’ambito del procedimento di formazione nelle suddette leggi statali esprima un parere sui progetti di legge statale, riguardanti le materie di potestà concorrente. Da tale parere le camere possono discostarsi solo approvando una legge a maggioranza assoluta.
Per quanto riguarda le materie di competenza concorrente, hanno senz’altro un’ampia campo d’azione rispetto al passato, il quale però non è completamente riuscito, poiché sono presenti sovrapposizioni di materie ed lacune.
La corte costituzionale, ha compiuto una significativa opera di ridefinizione dei confini delle attribuzioni statali e regionali.
Il problema dell’inerzia dello Stato nell’adozione delle leggi cornice.
La potestà concorrente delle regioni è condizionata, come si è detto dall’ adozione da parte dello Stato dei principi fondamentali della materia.
In assenza di specifiche leggi cornice si è posto il problema della possibilità per le regioni di adottare comunque le norme di dettaglio, traendo i principi dalla legislazione statale già in vigore. Tale possibilità è stata confermata dalla sentenza n. 282 del 2002 e dall’articolo 1 co.3 della 131 del 2003.
Il ricorso ai decreti legislativi ricognitivi dei principi fondamentali
Al fine di meglio individuare i suddetti principi fondamentali desumibili della legislazione statale vigente, il richiamato articolo della legge suddetta, prevede altresì che per orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle regioni fino all’entrata in vigore delle leggi e dei principi fondamentali, il governo è delegato ad adottare entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti.
La scelta della delegazione legislativa seppur prevista in via transitoria, è stata fortemente criticata dalla dottrina.
La corte costituzionale ha ritenuto che della delega debba darsi una lettura minimale, nel senso che è soltanto un quadro di primo orientamento destinato ad agevolare il legislatore regionale nella fase di predisposizione delle proprie iniziative legislative, senza peraltro avere carattere vincolante e senza comunque costituire di per sé un parametro di validità delle leggi regionali inerzia del legislatore regionale.
Ora bisogna affrontare il problema dell’inerzia del legislatore regionale nell’adozione della normativa di dettaglio occorre chiedersi se lo Stato, in questo caso, possa dettare, oltre ai principi fondamentali, anche norme di dettaglio cedevoli, vale a dire norme destinate a rimanere in vigore fino a quando ciascuna regione non avrà esercitato la propria competenza in materia.
Attualmente la risposta sembra essere di segno negativo, in quanto la nuova formulazione dell’art.117, esprime l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina. La corte costituzionale ha altresì affermato l’illegittimità di interventi dello stato mediante regolamenti autorizzati o di delegificazione, nelle materie di competenza concorrente.
Il discorso va diversamente impostato come riferimento alle leggi statali adottate prima della riforma del titolo V, e conforme al vecchio riparto delle competenze. La corte costituzionale ha chiaramente affermato che le leggi statali continuano ad essere applicate fino alla data di entrata in vigore delle competenti disposizioni regionali.
Il rapporto tra legge regionale e legge statale sopravvenuta recante principi fondamentali.
Viene affrontato il rapporto tra legge statale che modifichi i principi fondamentali di una materia di competenza concorrente e le leggi preesistenti, che contengono disposizioni contrarie a nuovi principi.
Deve ritenersi ancora vigente la previsione contenuta nell’articolo 10, legge n.62 del 1953, secondo la quale leggi statali che modificano i principi fondamentali, abrogano le norme regionali, che siano in contrasto con esse, se i consigli regionali entro 90 gg, non apportino, alle leggi regionali vigenti le conseguenti necessarie modificazioni.
La potestà legislativa regionale esclusiva generale
Nelle materie non rientranti nella competenza legislativa esclusiva statale non contemplate tra quelle riservate alla potestà concorrente, l’articolo 117 riconosce, alle regioni una potestà legislativa esclusiva, anche se in via puramente residuale.
Tuttavia la circostanza che una materia non figuri espressamente tra quelle ricomprese negli elenchi in materia di cui all’articolo 117, co.2 e co.3, non autorizza stando all’ impostazione della corte costituzionale, a ricondurre automaticamente la stessa a quelle di competenza residuale. E al riconoscimento di un pieno e incontrollato dispiegamento dell’autonomia legislativa regionale.
Quindi entrano in crisi i caratteri della residualità, dell’esclusività e generalità della potestà legislativa regionale.
Risulta problematico definire gli ambiti rientranti nella competenza legislativa residuale delle regioni, tra i quali comunque, seguendo le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza costituzionale sembrano esservi l’agricoltura, il commercio, la formazione professionale, l’artigianato, l’organizzazione amministrativa delle regioni degli enti pubblici regionali, i trasporti regionali.
I limiti della potestà legislativa regionale.
Il nuovo testo dell’articolo 117 dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto:
- della costituzione,
- nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
- degli obblighi internazionali.
Tali limiti valgono sia per la legge statale, sia per la legge regionale. Ciò non esclude il fatto che le leggi regionali incontrano limiti ulteriori, attinenti essenzialmente alla tematica della trasversalità.
1. Il limite del rispetto della costituzione.
L’articolo 117 comma 1 fa riferimento innanzitutto, al limite del rispetto della costituzione. Si ritiene che al rispetto della costituzione possono specificatamente essere ricondotti:
a) il limite dell’unità ed indivisibilità della Repubblica, sancito dall’articolo 5;
b) il limite del territorio in base al quale la regione non può approvare leggi che si riferiscano e producono effetti fuori dal suo territorio, nonchè lo specifico limite dell’articolo 120, per cui la regione non può istituire dazi d’importazione o esportazione o transito tra le regioni, né adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le regioni, né limitare l’esercizio del lavoro in qualunque parte del territorio nazionale;
c) il limite della copertura finanziaria sancita dall’articolo 81 secondo cui ogni legge che porti il nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte, il quale va oggi integrato con riferimenti al rispetto di alcuni stringenti parametri indicati dalla normativa comunitaria al fine di garantire l’equilibrio finanziario dei sistemi nazionali dell’unione europea nel suo complesso, (cosiddetto patto di stabilità);
d) il limite della legislazione statale nelle materie esclusive trasversali, cosiddetto limite della trasversalità, invocabile coe pararmetro interposto, per la verifica della conformità della legge regionale all’articolo 117.
e) Il limite degli statuti regionali, i quali condizionano la legislazione regionale possono operare nei confronti di quest’ultimo come parametro interposto nel giudizio di costituzionalità, eventualmente introdotto per violazione dell’articolo 123.
2. Il limite del rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
Per quanto riguarda i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario è stata da più parti evidenziata, la scarsa innovatività della disposizione costituzionale, avendo essa soltanto confermato ed esplicitato le premesse e l’evoluzione di tutto il processo di integrazione europea.
In particolare sembra condividere la ricostruzione per cui è l’articolo 11 a rappresentare il fondamento e la base legale dell’efficace caratteristica dell’ordinamento comunitario avendo l’articolo 117 soltanto un ruolo rafforzativo di tale garanzia.
L’articolo 117 non comporta alcuna variazione in ordine al potere riconosciuto ai giudici di disapplicare le norme interne contrastanti.
3. Il limite del rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Al riguardo deve essere ricordata legge n.131 del 2003 che li ha identificati con quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale, generalmente riconosciute di cui all’articolo 10, da accordi di reciproca limitazione della sovranità di cui all’articolo 11, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali.
Appare preliminarmente necessario distinguere diversi tipi di norme internazionali che possono venire in rilievo:
a) le norme consuetudinare generalmente riconosciute;
b) le norme consuetudinari non generalmente riconosciute che riguardino i rapporti tra Italia e un altro stato;
c) le norme pattizie.
Come riferimento alle ipotesi a) si conferma la qualificazione come norme interposte delle norme create in via indiretta sulla base del meccanismo automatico previsto dall’articolo 10. L’ipotesi b) afferma che le norme consuetudinare che riguardano soltanto i rapporti tra l’italia e altri Stati necessitano di norme interne di recepimento. L’ ipotesi c) relativa alle norme pattizie afferma che sono esterne all’ordinamento nazionale e non sono in grado di produrre autonomamente effetti nel nostro ordinamento.
La produzione di effetti nel nostro ordinamento avviene mediante norme interne non scritte in via indiretta, nel caso dell’ordine di esecuzione, o mediante norme scritte nel caso di esecuzione mediante un atto fonte interno le cui disposizioni riproducano il testo delle clausole contenute nel trattato, (cosiddetta legislazione parallela).
Gli accordi in forma semplificata
Quanto agli accordi in forma semplificata si deve escludere che essi ove non recepiti con legge statale o con atto ad esse equiparato possono limitare la potestà legislativa del Parlamento e quella delle regioni. In altre parole qualora il governo decide di dare esecuzione all’accordo con atto privo di forza di legge, l’obbligo internazionali, così contratto, non sarebbe in grado di vincolare ai sensi dell’articolo 117, la produzione legislativa interna di un atto subordinato alla legge non può vincolare quest’ultima.
Il ruolo delle regioni nella esecuzione degli accordi internazionali
Al riguardo, premesso che le materie “politica estera rapporti internazionali dello Stato” e “rapporti dello stato con l’unione europea”, sono riservate alla legislazione esclusiva statale, si è rilevato che la previsione secondo la quale le regioni, nelle materie di loro competenza “provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali”. Non andrebbe intesa nel senso che spetti alle regioni l’emanazione dell’ordine di esecuzione del trattato, quale atto che determina il sorgere del relativo obbligo nel diritto interno, ma nel senso che sorto l’obbligo e divenuto esecutivo il trattato, le regioni hanno il dovere e il diritto di dare ad esso attuazione”.
L’articolo 6 comma 1 legge n.131 del 2003, non contribuisce alla soluzione del problema, limitandosi a prevedere che: le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di propria competenza legislativa provvedono direttamente all’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali ratificati, dandone preventiva comunicazione al ministero degli affari esteri e alla presidenza del consiglio dei ministri-dipartimento degli affari regionali, i quali, nei successivi 30 giorni dal relativo ricevimento, possono formulare criteri e osservazioni.
La riconosciuta possibilità di assumere impegni internazionali.
Le regioni possono altresì contrarre impegni sul piano internazionale, nelle materie di propria competenza, concludendo accordi e intese con enti territoriali interni ad altri Stati, ma solo nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.
La Legge n.131 del 2003 ha precisato che attraverso le intese con enti territoriali interni ad altri Stati nei quali devono essere previamente comunicate al ministero degli affari esteri e alla presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento, le regioni non possono esprimere valutazioni relative alla politica estera dello Stato, né possono assumere impegni dei quali derivino gli ed oneri finanziari dello Stato che ledano gli interessi degli altri soggetti di cui all’articolo 114.
L’articolo 6, della medesima legge, prevede un controllo statale particolarmente rigoroso con riferimento gli accordi con stati delle regioni, specificando che deve trattarsi di accordi esecutivi o applicativi di accordi internazionali regolarmente entrati in vigore o accordi di natura tecnico amministrativa, o accordi di natura programmatica finalizzati a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale, nel rispetto della costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, dagli obblighi internazionali e dalle linee e degli indirizzi di politica estera italiana, ove si tratti di materie che rientra nella potestà concorrenti, dei principi fondamentali dettati dalla legge dello Stato.
Il ruolo delle regioni nella formazione e nell’attuazione degli atti comunitari.
Per quanto riguarda gli atti normativi comunitari, l’articolo 117 comma 5 prevede che le regioni possono partecipare nelle materie di loro competenza, alle decisioni dirette alla loro formazione.
Le leggi n131 del 2003 e 11 del 2005 hanno incrementato il ruolo propulsivo e collaborativo delle autonomie regionali alla formazione di atti comunitari, prevedendo forme di partecipazione indiretta e diretta. Le regioni provvedono altresì sempre nelle materie di loro competenza all’attuazione e all’esecuzione degli atti dell’unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalle leggi dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza. Le province e le regioni autonome sono autorizzate a dare attuazione alle direttive comunitarie tramite una legge comunitaria regionale.
I poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle regioni.
L’eventuale inerzia delle regioni nell’attuazione e nell’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’unione europea, nonché il mancato rispetto di norme e trattati internazionali o delle norme comunitarie, legittimano il ricorso al potere sostitutivo da parte dello Stato, la cui disciplina è riservata alla legislazione statale. La possibilità dell’esercizio di poteri sostitutivi è estesa dall’articolo 120 comma 2 anche all’ipotesi di pericolo grave per l’incolumità della sicurezza pubblica e nei casi in cui si richiede la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali
I poteri sostitutivi devono garantire che essi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.
La legge n.131 del 2003 prevede che il presidente del consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente per materia, anche su iniziativa delle regioni e degli enti locali, assegnino un congruo termine all’ente interessato per adottare i provvedimenti dovuti o necessari, scaduto il quale il consiglio dei ministri adotta i provvedimenti necessari anche normativi o nomina un apposito commissario; in casi di “assoluta urgenza nei quali l’intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo le finalità tutelate dall’art.120”, il consiglio dei ministri può adottare direttamente i provvedimenti necessari comunicandoli immediatamente alla conferenza Stato regioni o alla conferenza Stato città e autonomie locali, che possono chiederne il riesame.
Con specifico riferimento all’inerzia delle regioni nell’attuazione degli atti dell’unione europea è riconosciuto un ampio potere sostitutivo allo Stato, da esercitare tramite un meccanismo anticipato e cedevole: anticipato perché opera prima della scadenza del termine stabilito per l’attuazione; cedevole perché l’intervento statale perde efficacia qualora le regioni e le province autonome, anche tardivamente si conformino agli obblighi comunitari.
La potestà legislativa delle regioni ad autonomia speciale.
Le regioni ad autonomia speciale trovano la fonte della loro potestà legislativa, negli statuti.
Contemplano tre tipi di potestà legislativa come precedentemente accennato.
In sede di riforma del titolo V il legislatore costituzionale, nel determinare un indubbio potenziamento dell’autonomia delle regioni ordinarie, si è preoccupato di introdurre una clausola in base alla quale sino all’adeguamento dei rispettivi statuti le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle regioni a statuto speciale e dalle province autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite.
In particolare ai fini della definizione della materia spettante alla competenza legislativa delle regioni a statuto speciale si deve fare riferimento agli elenchi di materie contenute nei rispettivi statuti.
Per la regione speciale il regime della potestà residuale, ove la materia, indicata come concorrente nello statuto, rientri da quelle non nominate dall’articolo 117 e possa quindi ascriversi alla potestà residuale.
Se invece una materia appartiene secondo lo statuto speciale alla potestà esclusiva regionale ed è secondo il titolo V, di competenza concorrente riservata in via esclusiva allo Stato, la regione speciale continuerà ad avere la sua potestà esclusiva.
Quanto alla potestà concorrente deve ritenersi che gli elenchi speciali sono integrati da quelle materie che, comprese nell’articolo 117, non sono contemplate in tali elenchi.
Il procedimento di formazione della legge regionale.
Il procedimento di formazione della legge regionale è stato riformato nel 2001: il nuovo art. 127 elimina completamente il controllo preventivo statale, sulle delibere legislative regionali, che era esercitato dal “commissario del governo” attraverso il meccanismo del rinvio delle legge, non ancora promulgata, al consiglio per una nuova deliberazione. Così anche il ricorso alla corte costituzionale è stato anch’esso modificato e lo Stato e le regioni sono poste su un grado di parità poiché ambedue possono ricorrere alla corte costituzionale soltanto in via successiva entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto con forza di legge.
Il procedimento di approvazione della legge regionale, si articola in tre fasi: iniziativa, costitutiva, ed integrativa dell’efficacia.
L’iniziativa spetta alla giunta ed ai singoli consiglieri regionali, ai consigli comunali e provinciali ai consigli delle comunità montane, ai consigli delle autonomie locali, a talune organizzazioni e associazioni per la rappresentatività regionale, al di iniziativa popolare ed organi rappresentativi delle categorie produttive.
L’esame e l’approvazione del progetto di legge si svolge secondo lo schema del procedimento legislativo ordinario, previsto per la legge statale, nel senso che il progetto è dapprima affidato alla commissione consiliare competente in sede referente e poi discusso e votato dal consiglio, articolo per articolo con votazione finale.
Si esclude la possibilità del ricorso alla commissione in sede deliberante; nelle marche è previsto il ricorso al procedimento in sede redigente. Ma non si può ricorrere a tale procedimento per i progetti di legge per i quali lo Stato impone il ricorso al procedimento normale.
Integrativa dell’efficacia
La legge è approvata dal consiglio e successivamente promulgata dal presidente della regione, che non ha però il potere di rinvio della legge come il capo dello Stato, così che la promulgazione si presenta con un atto dovuto. La legge è pubblicata nel bollettino ufficiale della regione, riprodotta con finalità di semplice conoscenza, nella gazzetta ufficiale della Repubblica.
Vi sono organi di garanzia statutaria aventi il compito di esprimere un parere sulla conformità allo statuto delle leggi, nella maggior parte dei casi anche dei regolamenti regionali. Il sindacato è consultivo e di solito preventivo.
Atti normativi primari regionali diversi dalla legge.
Si è posto il problema di stabilire se possono configurarsi atti normativi primari diversi dalla legge. Al riguardo il dubbio si è posto in relazione alla previsione dell’articolo 134 che, alludendo genericamente ad atti con forza di legge dello Stato e delle regioni, può portare a ritenere che anche per le regioni siano configurabili atti diversi dalla legge come decreti leggi e decreti legislativi.
Alla luce delle modificazioni costituzionali intervenute è stata di recente riproposta un’interpretazione, che collegando il tenore letterale dell’articolo 134 al nuovo potere regionale, di disciplinare attraverso gli statuti la forma di governo, ritiene che si possa pervenire ad una diversa lettura della formula, “atti con forza di leggi dello Stato delle regioni”, e dunque all’ammissibilità di atti con forza di legge regionale.
A questa decisione replicato che la costituzione individua esplicitamente nella sola legge regionale l’unica fonte di valore primario affidata alla regione. L’impostazione è condivisa e confermata dai nuovi statuti, i quale non solo non prevedono atti regionali con forza di legge, ma in alcuni casi lo escludono espressamente e né vietano l’adozione.
Non sembra invece potersi disconoscere l’esistenza di altri atti normativi primari a livello regionale, quali il referendum abrogativo e i regolamenti consiliari, seppur caratterizzati problematicamente da elementi diversi.
Il referendum abrogativo regionale è previsto dall’articolo 123 e la sua disciplina è affidata allo statuto di ogni singola regione, che possono prevederlo sia con riferimento ad atti legislativi, sia con riferimento ad atti amministrativi. E’ però evidente che soltanto il referendum abrogativo sulla legge regionale, può qualificarsi come fonte primaria, essendo tale tipo di atto dotato della medesima forza della legge regionale ed è quindi capace di incidere a livello primario sull’ordinamento regionale.
Quanto ai regolamenti interni dei consigli regionali è da sottolineare che tutti gli attuali statuti ordinarie e speciali, contemplano espressamente la potestà di adozione di un regolamento volto a disciplinare l’organizzazione ed il funzionamento dell’assemblea, richiedendo di regola l’approvazione a maggioranza assoluta dei componenti, analogamente a quanto prescrive l’articolo 64, nei confronti dei regolamenti parlamentari.
La potestà regolamentare della regione.
Le regioni ad autonomia ordinaria dispongono, per espressa previsione costituzionale anche la potestà regolamentare, la quale, nel testo anteriore alla riforma introdotta dalla legge costituzionale n.1 del 1999, era attribuito al consiglio, vale a dire allo stesso organo che esercita la potestà legislativa.
Anche gli statuti speciali contengono la previsione di una potestà regolamentare, affidandola ora alla giunta, ora al consiglio, ma si limitano a disciplinare la competenza ed alcuni aspetti del procedimento di formazione.
Le mutazioni cui è destinata questa funzione appaiono ora più consistenti alla luce della riforma dell’intero titolo V della costituzione operata dalla legge costituzionale n.3 del 2001.
Gli ambiti di intervento dei regolamenti regionali.
La disposizione contenuta nel comma 6 del nuovo articolo 116 attribuisce la potestà regolamentare alle regioni nelle materie di potestà legislativa concorrente, e in quelli non espressamente riservate alla legislazione statale. Peraltro nelle materie di legislazione esclusiva dello Stato, quest’ultimo può delegare alle regioni la potestà regolamentare, configurando così in capo ai regolamenti regionali la possibilità della disciplina, anche se attraverso la delega, di materie sulle quali è precluso del tutto l’intervento della stessa legge regionale.
Il problema della titolarità del potere regolamentare.
Per quel che riguarda il procedimento di adozione e la fonte che deve disciplinarlo, spetta allo statuto, trattandosi di materie riconducibili ai principi fondamentali di organizzazione e funzionamento che sensi dell’articolo 123 ne costituiscono il contenuto necessario.
Il procedimento di adozione dei regolamenti.
I Nuovi statuti delineano ora, il procedimento di adozione dei regolamenti: tutti conformemente all’articolo 121 comma 4 della costituzione, ne descrivono l’emanazione da parte del presidente della giunta; viene altresì disciplinata la pubblicazione e l’entrata in vigore in base all’articolo 121 comma 3 della costituzione.
Nei molti statuti in cui la titolarità del potere regolamentare è attribuita alla giunta, si prevedono forme di partecipazione del consiglio, per lo più attraverso il parere obbligatorio ma non vincolante della commissione consiliare, competente per materia.
Le possibili tipologie dei regolamenti regionali.
La prima forma di potestà regolamentare è quella delegata alle regioni da parte dello Stato nelle materie di potestà legislativa statale esclusiva. Prevalentemente è un potere regolamentare di esecuzione, o di attuazione- integrazione.
La Regione è poi titolare esclusivo della potestà regolamentare sia nelle materie di competenza concorrente, sia nelle materie di competenza residuale.
È difficile ipotizzare invece uno spazio per i regolamenti dipendenti o autonomi.
La possibilità della delegificazione regionale è resa possibile in quei casi in cui la potestà regolamentare è trasferita in capo alla giunta ed esige che attraverso la legge regionale si riproduca lo stesso meccanismo, nel quale si articola la delegificazione a livello statale.
I regolamenti di attuazione degli atti normativi comunitari, è possibile secondo quanto previsto dalla legge 2005, il ricorso ad atti regolamentari statali nelle materie di competenza legislativa delle regioni e delle province autonome. Le norme sostitutive statali si applicano nei territori delle regioni inadempienti e sono cedevoli, in quanto perdono efficacia dalla data di entrata in vigore della normativa regionale di attuazione. Ove sia stata adottata prima della scadenza del termine stabilito per l’attuazione dalla rispettiva normativa comunitaria, dispiegherà i suoi effetti soltanto dopo spirato il suddetto termine e con esclusivo riferimento alle regioni inadempienti.